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Opinione scritta da Ninni Cangiano

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    26 Gennaio, 2020
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Avevo conosciuto i thrashers canadesi Hazzerd in occasione del loro primo full-lenght, “Misleading evil” del 2017, rimanendone più che favorevolmente impressionato; ero quindi molto curioso, a circa 2 anni e mezzo di distanza, di ascoltare questo secondo album, intitolato “Delirium”, uscito per l’attenta label americana M-Theory Audio. La prima cosa che ho notato è che, a differenza del precedente lavoro che durava poco più di 40 minuti con 8 pezzi compatti e di durata concisa (solo un paio superavano i 6 minuti), questa volta la durata è maggiore, superando i 50 minuti, con un solo pezzo in più (oltre alla piacevole outro strumentale) e durate complessive dei brani leggermente superiori (parecchi si assestano oltre i 5 minuti). Pare quindi che gli Hazzerd questa volta abbiano voluto leggermente strafare, “allungando il brodo” in alcuni casi eccessivamente, tanto che probabilmente qualche sforbiciata qua e là (specie ai brani che superano i 6 minuti) avrebbe reso il songwriting più snello e più di facile fruibilità. Ma sono dettagli dettati semplicemente da un punto di vista personale; ciò che conta è la qualità del thrash ed in questo gli Hazzerd si confermano a pieni voti. L’attitudine della band canadese è sempre perfettamente “in your face”, l’energia che viene fuori dai brani è continuamente elevata e, persino quando si va a cercare maggiormente la melodia (come nella meravigliosa strumentale “Call of the void”), i risultati sono sempre ottimi. Le parti soliste di chitarra sono costantemente piacevoli ed anche il basso ha ogni tanto qualche momento di protagonismo, il tutto sempre ottimamente sostenuto dalla batteria che spesso detta un ritmo forsennato. C’è poi la voce di Dylan Westendorp, un continuo screaming acuto, isterico ed aggressivo che ben si sposa con il sound in generale (nonostante non sia personalmente un amante di questo stile canoro). Il livello tecnico mi è sembrato elevato, così come è evidente la passione che viene profusa in questa musica. Se quindi siete amanti del thrash più veloce, aggressivo e grintoso, questo “Delirium” può sicuramente fare al caso vostro e conferma in pieno le ottime qualità dei canadesi Hazzerd.

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    25 Gennaio, 2020
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In circa 35 anni che ascolto musica metal, mi sono capitate parecchie bands strambe, ma mai come il progetto Thy Catafalque, del polistrumentista ungherese Tamás Kátai. La Season Of Mist ha pubblicato questo nono full-lenght dei Thy Catafalque ed intitolato semplicemente “Naiv”, definendolo “Avantgarde metal”. Non sono un esperto di questo particolare genere musicale e mi approccio per la prima volta a questo musicista ungherese (finora lo avevo solo sentito nominare, ma non avevo mai avuto occasione di ascoltarne qualcosa, nonostante suoni da oltre 20 anni), ma mi pare che la definizione sia un po’ limitante; qui c’è di tutto, non solo metal, ma anche musica orientale, folk, progressive, rock, persino qualche momento pop, molta musica elettronica (è come se i vecchi Goblin fossero stati “attualizzati” al 2020).... così una definizione come “Avantgarde” può essere calzante, ma fino ad un certo punto. Una cosa è certa: la musica dei Thy Catafalque è originale, pressoché unica! Questo sound è talmente particolare che è impossibile paragonarlo a quello di qualche altra band, perchè non renderebbe pienamente; c’è un po’ di Cynic, qualcosa dei Mekong Delta e dei Viza, ma anche tanto altro, proprio tanto. Si passa da voci femminili, anche liriche, al più canonico growling fino allo screaming ultra-effettato che sembra provenire dall’oltretomba del black più oltranzista, in un potpourri decisamente singolare. Di certo per comporre musica del genere, ci vuole una mente aperta ed estremamente fantasiosa; di pari passo, per approcciarsi a questo sound bisogna essere della giusta predisposizione mentale e spirituale, affrontarlo come un trip allucinogeno e prepararsi a rimanere sorpresi ed alienati. Se non si è adeguatamente aperti mentalmente, non si può essere in grado di sostenere un ascolto del genere, figurarsi farlo più e più volte per preparare una recensione. Ammetto che non è stato facile, ma ad ogni ascolto “Naiv” mi rapiva sempre più, mi coinvolgeva nel mondo targato Thy Catafalque, come arti magiche ammalianti. Tamás Kátai mi ha convinto pienamente, ora sarà mia cura scoprire di più del suo mondo musicale, così singolare; se state cercando qualcosa di originale e pressoché unico, qui avete pane per i vostri denti!

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    18 Gennaio, 2020
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Gli Ancient Knights si sono formati nel 2018 per iniziativa di Andrea Atzori e Marcel Knight a cui poi si è successivamente aggiunto il singer Matt Siddi. A questo “nucleo” si sono poi aggregati numerosi ospiti, fra cui spiccano Roberto Tiranti, Fabio Lione e Goran Edman. Dopo aver rilasciato due singoli nello scorso anno (“Secret castle of love” e “Camelot”), a gennaio 2020 esce il full-lenght “Camelot”, composto da 7 tracce più 3 rivisitazioni di alcune di esse. Il genere musicale viene definito dalla band come “Metal Opera” ma, di fatto, è un metal sinfonico abbastanza canonico. Nella tracklist ci sono alcuni brani davvero eccellenti, come la splendida “Prophecy of the magic kingdoms” (molto “rhapsodyana” e di gran lunga la migliore in assoluto! Terzo singolo estratto dall’album) o la ballad “Forever” (canzone che viene presentata in due differenti versioni, di cui una cantata in spagnolo in cui mi pare ci sia la grandissima Elisa C. Martin). Accanto a questi ci sono pezzi alquanto banali, tipo la title-track “Camelot” in cui il sempre grande Fabio Lione non riesce a salvare una canzone che fa pensare alla sigla di un cartone animato (soprattutto la versione con cantato in italiano), con tutto il rispetto dovuto a questo genere di composizioni. Tolte le inutilissime intro ed outro (“March of the ancient knights” e “Whispers in shadows”) e le “versioni alternative”, restano cinque tracce, alcune delle quali obiettivamente funzionano molto meglio di altre. Forse, con così poche canzoni, sarebbe stato meglio aspettare ancora un po’ prima di rilasciare un full-lenght, in modo da avere un numero più considerevole di pezzi, magari meno altalenanti a livello qualitativo; se, infatti, tutti i brani fossero al livello di “Prophecy of the magic kingdoms” avremmo una bomba di disco, ma purtroppo non è così. A questa maniera gli Ancient Knights con il loro debut album “Camelot” raggiungono senza alcun dubbio la sufficienza, ma non riescono ad spingersi troppo oltre.

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    12 Gennaio, 2020
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Una splendida copertina ci accoglie nel mare del morto, “Sea of the dead”, secondo album dei greci Rhodium, uscito ad inizio dicembre 2019 per Sliptrick Records, dopo l’esordio “Screams into the void” risalente al 2018 (a me purtroppo sconosciuto). A livello testuale non ci troviamo davanti ad un concept album, eppure molti brani hanno tematiche comuni che trattano dell’uomo e della sua lotta per la sopravvivenza. La band si è formata nel 2017 per iniziativa del chitarrista Loukas Wolv Antoniou e su questo disco dobbiamo annotare la presenza di due nuovi membri nella formazione: il talentuoso vocalist Mike Livas ed il poliedrico batterista Stelios Pavlou. Proprio quest’ultimo ho ammirato durante tutto l’album, ma soprattutto nella prima parte, con una prestazione ricca di energia e ritmo. In un sound power dalle forti tinte prog e qualche spruzzata thrash (in “The emperor” e “Sisters of fate”, ad esempio, mi hanno ricordato gli Iced Earth), naturalmente le chitarre recitano da protagoniste ed i due axemen si scambiano assoli di gusto e tecnica, ma sempre con un occhio attento alle melodie. Ho ascoltato diverse volte questo disco, perchè alla fine mi rimaneva sempre un po’ di amaro in bocca; se nella prima parte, infatti, abbiamo vere e proprie hits (“Man of honor”, “First light of day” e soprattutto “Delirio”), nella parte centrale con l’arrivo della lenta title-track il minutaggio sale e cala l’energia e la capacità di coinvolgere. Alcuni pezzi, dunque, convincono meno di altri (ad esempio l’altra lenta “Tapestry of time” si dimostra un po’ banale) e dispiace perchè, se la tracklist avesse tutti brani al livello della splendida “Delirio”, avremmo davanti una vera e propria bomba di disco! Ciò nonostante, “Sea of the dead” supera abbondantemente la sufficienza e si dimostra comunque un buon lavoro; aspetto i Rhodium al prossimo full-lenght, conscio delle loro ottime potenzialità per migliorare ancora di più.

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    12 Gennaio, 2020
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Mettersi ad ascoltare un nuovo album dei Rage è come ritrovare un vecchio fidato amico che non vedi da tempo: è sempre un piacere e sai già che non ti deluderà mai! Con questa sensazione mi sono messo all’ascolto di “Wings of rage”, dotato di artwork non proprio esaltante e composto da 12 tracce per quasi 55 minuti di durata. Si parte a razzo con “True”, cattivissima power-song che conferma la direzione intrapresa dalla band, dopo la rivoluzione nella line-up di alcuni anni fa, con il ritorno ad una formazione a 3 elementi; i Rage, infatti, hanno abbandonato definitivamente le contaminazioni sinfoniche (solo in “A nameless grave” si sentono ancora) e continuano a rifarsi al loro vecchio sound, fatto di un power metal roccioso, ricco di energia, ma sempre con grande attenzione alle melodie. Il vocione roco e sporco di Peavy fa poi la differenza, incattivendo la trama a dovere. Il disco è pieno zeppo di potenziali hits, brani di qualità notevole che dal vivo potranno diventare dei classici imperdibili; mi riferisco, oltre alla già citata “True”, ad esempio alla splendida “Tomorrow” alla title-track “Wings of rage” (da cantare tutti assieme in sede live), ma anche l’accoppiata “Don`t let me down” e “Shine a light” o “Blame it on the truth”, senza contare quella fantastica “HTTS 2.0” che altro non è se non il rifacimento dell’indimenticabile “Higher than the sky” estratta dal meraviglioso “End of all days” del 1996. L’unica cosa che non mi ha convinto pienamente in questo disco è la produzione: ho ascoltato su diversi impianti il lavoro, ma il suono della batteria era sempre troppo “impastato” e corposo, forse sarebbe stato meglio se fosse stato un po’ più “acuto” e secco; perdonatemi se non uso terminologie adeguate, non essendo un tecnico non riesco a spiegarmi meglio. A parte questo particolare, dettato principalmente dai gusti personali e che magari dipende solo dalla scarsa qualità dei files avuti a disposizione per la recensione, “Wings of rage” si presenta come un album compatto e di ottima qualità, che conferma come i Rage continuino ad essere, ancora dopo 37 anni di carriera, una delle bands di punta a livello mondiale e non solo in campo power metal! Da segnalare, infine, che è prevista un’edizione in vinile con una bonus-track (a me purtroppo ignota), nonché un “Deluxe Box Set” limitato a soli 1.000 esemplari, ricco di gadgets per collezionisti.

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    11 Gennaio, 2020
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Ci sono gruppi che sono la quintessenza dello scontato e del pacchiano; fra questi si annoverano sicuramente gli svedesi Brothers of Metal (già dal nome si può capire il perchè): una voce femminile (banalotta, ma fortunatamente non lirica) e ben due vocioni maschili in growling da orchi cattivi (scontatissimi, quanto super-inflazionati), trucco in faccia (non da panda triste per fortuna!), abiti di scena in stile popolazioni barbariche o vichinghe, artwork con la solita drakkar ed il solito mostro (comunque ottimamente disegnate dall’artista Peter Sallai), tematiche fantasy stra-abusate ed un sound che è una sorta di connubio tra il folk, il power ed il symphonic, del tipo prendete un po’ di primi Rhapsody, metteteci un pizzico di Elvenking, qualcosa dei Gloryhammer ed aggiungeteci gli Orden Ogan ed avrete già chiaro cosa aspettarsi da questo “Emblas saga”. Nonostante la scarsa originalità, il pacchiano ridondante ed esagerato, una formazione da addirittura 8 elementi(!), bisogna ammettere che questi svedesi il loro lavoro lo sanno fare bene e l’ascolto dell’album è sempre gradevole, se si riesce a passar sopra a quanto detto in precedenza. Canzoni come “Chain breaker” e “Kaunaz Dagaz (Dawn of fire)” sono davvero affascinanti e coinvolgenti, con ritmo e melodie azzeccate, “Brothers unite”, “Hel” e “Ride of the Valkyries” trascinano e coinvolgono. Certo qualche parte meramente discorsiva in meno non avrebbe guastato (d’accordo le esigenze tematiche, ma quando lo capiranno che si vuole ascoltare musica e non discorsi?), ma si può tranquillamente skippare in avanti, come è sostanzialmente obbligatorio fare con l’inutilissima intro. Tirando le somme, i Brothers of Metal, quindi, non s’inventano nulla di nuovo, ma quello che fanno, anche se abbastanza scontato, lo sanno fare sicuramente molto bene e questo “Emblas saga” si lascia ascoltare certamente gradevolmente. Da segnalare che il disco è uscito in digipack, doppio-vinile colorato in edizione limitato e boxset (limitato a 1.000 esemplari) contenente gadgets vari per i fans e collezionisti.

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    06 Gennaio, 2020
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Devo scusarmi con i tedeschi Scrawn, perchè la loro richiesta era finita ingiustamente archiviata e solo di recente, andando a curiosare tra le richieste più datate, è ritornata a galla. “Side by side” è il primo full-lenght della band di Monaco di Baviera, formatasi nel 2013 e con all’attivo, finora, solamente un EP risalente al 2017. Dopo aver constatato che il lavoro è presentato da un artwork accattivante e ben fatto, mettiamoci all’ascolto. La band si presenta dicendo di combinare assieme metal e rock’n’roll, definendo il proprio genere come “Metal’n’roll”; aggiunge anche di mettere nel proprio sound riff old-school thrash, epic e power metal. Un mix interessante per quanto mi riguarda, se non fosse per la voce! Dopo l’inutilissima intro, infatti, l’attacco di “Shadowed heart” è degno di uno screamer metalcore... cosa che non c’entrerebbe niente, ma proprio assolutamente niente con il metal’n’roll di cui prima. Ma nel sound degli Scrawn ho sinceramente trovato molto poco di rock’n’roll (sostanzialmente qualche accenno lo troviamo in “Wasted” e molto nella bonus-track “Whiskey bar”), non ho trovato assolutamente nulla di epic metal, qualcosa di power e thrash, ma soprattutto il buon vecchio melodic death metal, alla Dark Tranquillity o altre bands del cosiddetto Gothenburg-sound per capirci. La voce in growling di Daniel Schranza può anche far venire in mente quella di Mikael Stanne, ci sono poi parti cantate in pulito ed altre in screaming isterico che sospetto vengano da altri membri del gruppo (ma purtroppo non ho informazioni in tal senso). Ma se vuoi suonare metal’n’roll ti serve una voce pulita, al limite un po’ roca, ma di certo né growling e tanto meno screaming. Ma sorvoliamo su questo particolare e concentriamoci sulla musica. Il melodic death suonato dagli Scrawn, pur non avendo niente di originale, non dispiace e si lascia ascoltare piacevolmente, dando anche una bella dose di energia (ricordando in questo i giapponesi Gyze); la componente prettamente power non è niente male, tanto che mi fa sorgere il dubbio che, con uno stile canoro totalmente differente, potremmo anche avere davanti un disco notevole. A livello strumentale la batteria ha un ruolo determinante, con il basso di Eckard Sedimayer che è spesso ottimo protagonista; le due chitarre intessono muri di riff e qualche piacevole parte solista. Il songwriting non è male, anche se qualche pezzo avrebbe bisogno di una piccola snellita, finalizzata ad avere un minutaggio più breve che potrebbe facilitare l’appeal. Trattandosi di un esordio, siamo a buon punto ma gli Scrawn, per il loro futuro, devono decidere che strada prendere: se vogliono continuare con il melodic death hanno bisogno di indurire un po’ la loro proposta, mentre se vogliono davvero suonare “metal’n’roll” hanno necessità di cambiare completamente l’approccio canoro e cercare soluzioni più melodiche. A questa maniera, infatti, rischiano di non essere né carne e né pesce e scontentare sostanzialmente tutti. Ciò nonostante, “Side by side” raggiunge la sufficienza, dato che è evidente che gli Scrawn hanno passione e buone potenzialità!

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    05 Gennaio, 2020
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Gli Shartten arrivano dalla Polonia e si sono formati addirittura nel 2009; solo 10 anni dopo, a fine ottobre 2019, però arriva il loro debut album (dopo un EP del 2015), con questo “Sound of fate”, rilasciato dalla sempre attenta Wormholedeath Records. L’artwork non mi ha entusiasmato granché, con colori forse un po’ troppo scuri ed il canonico teschio in primo piano. Fortunatamente la musica è molto meglio! Il quartetto polacco suona un roccioso heavy metal dalle forti tinte thrash, ricco di energia e dalle ritmiche spesso frizzanti, grazie ad un ottimo lavoro da parte della batteria. Basso e chitarre si scambiano i ruoli da protagonista, anche se forse avrei gradito qualche parte solista di chitarra in più. La carta vincente degli Shartten è la voce di Mariusz Piastka, profonda e calda, che sa essere anche aggressiva in caso di necessità; ricorda lontanamente quella del grande Jan Lubitzki (tanto per rimanere in terra polacca) degli indimenticabili Depressive Age. L’album è composto da 9 tracce (ecco un altro un disco senza inutilissime intro!), tutte godibili e gradevoli da ascoltare e riascoltare, anche se ho notato maggiore fruibilità nella prima parte del disco, dove le composizioni sono più brevi. Quando il minutaggio sale, infatti, nella seconda parte (“Pure insane” e la title-track), c’è una leggera prolissità di fondo ed i pezzi sarebbero stati più godibili con un minutino in meno. Si tratta, comunque, di piccoli particolari che non influiscono sul risultato finale più di tanto; “Sound of fate”, infatti, è un disco molto ben fatto, piacevole da ascoltare ed in grado di fare breccia nei cuori di chi ascolta queste sonorità. Adesso, la speranza è che non si debba attendere altri 10 anni per avere un secondo full-lenght da parte degli Shartten!

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    05 Gennaio, 2020
Ultimo aggiornamento: 26 Dicembre, 2021
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Nostalgici del thrash della Bay-Area degli anni ’80 – primi ’90? Ecco in vostro soccorso arrivare dal Canada i Wreck-Defy, band fondata nel 2016 dal chitarrista Matt Hanchuck che si è circondato da vecchie conoscenze del thrash americano: il cantante Aaron Randall (forse uno dei migliori singer che gli Annihilator abbiano mai avuto nella loro storia), il bassista Greg Christian (tra gli storici membri dei Testament) ed il batterista Alex Marquez (tra le decine di bands in cui ha suonato citerei Demolition Hammer e Malevolent Creation). Insomma, da una formazione di tutto rispetto come questa era lecito aspettarsi qualcosa di importante e questo “Remnants of pain”, secondo album nella storia del gruppo, non delude le attese! Dietro la sapiente guida di Juan Urteaga (che nel corso della sua carriera ha curato la produzione di dischi per Testament, Machine Head e tante altre bands), i nostri hanno registrato un disco a dir poco compatto, con un artwork sulle terribili conseguenze delle guerre dannatamente attuale (viste le problematiche di questi giorni) e testi che mi pare parlino dello stesso argomento. Thrash con la “T” maiuscola è quello che viene suonato da questa band, reso attuale da una produzione perfetta che pompa a dovere tutti gli strumenti, dimostrando che si può suonare nel modo più classico questo genere di metal, senza per forza dover avere una registrazione anacronistica o “vintage”, se volete essere più eleganti con le parole. Il songwriting è bello compatto ed efficace, con pezzi che non concedono respiro e non lasciano troppo spazio alle melodie (anche se “The divide” ed “Angels and demons” sopperiscono in tal senso), senza dilungarsi mai oltre il necessario, con una durata complessiva di pochi secondi sopra i ¾ d’ora. Ispirati dai grandi nomi della Bay-Area (Testament su tutti), i Wreck-Defy hanno la capacità di non risultare cloni o semplice scopiazzature, ma anzi sanno il fatto loro e dimostrano di non avere nulla in meno di tanti osannati big. “Remnants of pain” è un disco da paura, compatto e che trasuda energia e passione, senza una virgola fuori posto, ma con tutto quello che si può chiedere da un disco thrash. Uscito a marzo come autoproduzione e poi a settembre ristampato da Inverse Records, questo è sicuramente uno dei migliori album del settore ascoltati nel 2019!

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    04 Gennaio, 2020
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L’ho sempre detto e sempre sosterrò che collaborare con una webzine come allaroundmetal.com ti permette sistematicamente di scoprire bands di cui altrimenti molto probabilmente non avresti mai sentito parlare, né di cui mai ti saresti interessato. E’ questo il caso per il sottoscritto dei francesi Syr Daria, bands formatasi nel 2007 che, nella propria carriera, ha finora sfornato 3 full-lenghts: il debut album “Circus of life” nel 2011, “Voices” nel 2015 e questo “Tears of a clown”, uscito per Sliptrick Records a metà novembre 2019. Ma cosa suona questo gruppo francese? I Syr Daria, partendo da una base prettamente heavy metal, infarciscono il loro sound di un thrash molto moderno ed attuale, ricco di groove, potenza ed energia. Le due chitarre di Michel Erhart e Thomas Haessy sono protagoniste, con parti soliste di gusto e muri di riff, ben sostenute dal basso di Pascal Husser che si sente molto bene e dal drumming sempre frizzante e sostenuto dell’ottimo Christophe Brunner. Ma la carta vincente dei Syr Daria è il singer Guillaume Hesse, un cantante molto versatile e poliedrico, capace di passare dallo screaming a parti melodiche senza difficoltà, a seconda delle necessità del singolo brano o del momento all’interno della composizione. Avere un vocalist di tale qualità aumenta a dismisura le potenzialità della band, soprattutto in questo settore della musica metal in cui non è così facile trovare cantanti che non si limitino ad uno sterile screaming o che non sfocino nel troppo duro growling. L’album è composto da 10 pezzi (finalmente un disco senza inutilissime intro!!) tutti compatti ed efficaci, segno che anche il songwriting è di qualità e bada all’essenziale, senza dilungarsi inutilmente; la durata totale, infatti, è di poco superiore ai ¾ d’ora e non crea alcun problema all’ascoltatore; sono dunque inesistenti potenziali pericoli di noia o stanchezza. I vari ascolti che ho dato a questo lavoro, invece, sono stati sempre più che gradevoli e devo ammettere di essere rimasto affascinato e conquistato dalla musica, come una piacevole sorpresa. I miei complimenti ai Syr Daria che hanno davvero realizzato con questo “Tears of a clown”, dotato tra l’altro anche di piacevole artwork, un gran disco, in grado di conquistare il favore sia dei thrashers che dei true defenders, giovani o anzianotti che siano.

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