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Opinione scritta da Ninni Cangiano

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    28 Novembre, 2023
Ultimo aggiornamento: 28 Novembre, 2023
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Avevo conosciuto i portoghesi Master Dy circa un anno fa, all’epoca dell’uscita del loro secondo album “Legacy of Satan”; da allora ci sono stati diversi cambiamenti, dato che la formazione è rimasta con soli quattro elementi, mentre sono usciti Mr. Cygnus (chitarra ritmica), Mr. Vella (tastiere) e Mr. Perseus (basso), senza che nessuno li abbia rimpiazzati. Con questa line-up ridimensionata, si ripresentano con un EP di quattro pezzi intitolato “Ghost”, che dura poco più di 1/4 d’ora. L’ascolto non è impegnativo e l’Heavy Metal suonato dal gruppo è abbastanza orecchiabile. La voce della carismatica cantante vestita da suora è particolare, molto più adatta al Pop che al Metal, forse fin troppo “morbida” e melodica e troppo poco aggressiva e cattiva come invece farebbe immaginare il look trasgressivo e dissacratorio adottato. Le chitarre, come nel precedente disco, sono protagoniste e danno groove e pesantezza, nonché quella connotazione Heavy Metal, assieme alla batteria che pesta per bene; in caso contrario, infatti, il sound sarebbe stato un po’ troppo “easy” e poco aggressivo, per via anche di cori e coretti che rendono il tutto parecchio leggero. Quando poi le tastiere danno quel tocco Electro/Gothic (come nella conclusiva “Trained to die”) si resta un po’ spiazzati, dato che la band sembra si sia spinta un po’ troppo oltre, osando oltre il dovuto; anche qui le due chitarre danno quel groove che riporta il pezzo in ambiti più “canonici” (parola che ci sta bene, visto il look del gruppo). Tutto sommato, questo “Ghost” non dispiace particolarmente e si lascia ascoltare senza particolari problemi; resto però dell’idea che i Master Dy abbiano bisogno di indurire un po’ il loro songwriting (le mitragliate di chitarra dell’opener “#SatanicPowerMetal” potrebbero essere una buona base di partenza) e magari puntare ancora di più sulle atmosfere e su un look trasgressivo e dissacrante (un po’ come stanno facendo ultimamente le Dogma e come fanno da tempo i Deathless Legacy), al fine di potersi far apprezzare maggiormente.

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    27 Novembre, 2023
Ultimo aggiornamento: 27 Novembre, 2023
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I Coven Japan si sono formati nel 2016 a Tokyo per iniziativa del cantante Taka e del chitarrista Akihiro; da allora hanno realizzato solo un EP nel 2017, intitolato “The advert”, quando si chiamavano solamente Coven. Sotto la sapiente mano di Olof Wikstrand degli Enforcer, che ha curato la produzione, arrivano in questi giorni a rilasciare il debut album con questo “Earthlings”. L’album è dotato di piacevole artwork realizzato dall’artista AnriLancer, è composto da otto pezzi per la durata totale di quasi 43 minuti. Alcune canzoni, infatti, hanno durate forse un attimino elevate (sopra i 6 minuti) ed una sforbiciata al songwriting non avrebbe fatto male, per risultare più efficaci e diretti. Il loro è un canonico Heavy Metal ispirato alla scena inglese degli anni ’80, soprattutto ai dettami dei maestri Iron Maiden (ascoltate ad esempio l’attacco della title-track), ma anche qualcosa degli Angel Witch e di altre bands minori dell’epoca. Fortunatamente il sound non è esageratamente vintage (Wikstrand ci sa fare eccome!) e l’ascolto è sicuramente gradevole, soprattutto se si apprezza la pronuncia inglese “esotica” del cantante. Strumento protagonista è la chitarra dei due axemen Akihiro Ito e Toshikuni Komuro che regalano piacevoli parti soliste e riff affilati. Personalmente ho trovato più attraenti e convincenti le canzoni più ritmate, come l’accoppiata iniziale “Land of the Rising Sun” - “What goes around comes around” (entrambe al limite dello Speed Metal), o l’orecchiabile “Return of the souls”, mentre forse mettere assieme due pezzi lenti come la già citata title-track e “Night flyer” non è stata una scelta molto indovinata. Tutto sommato, però, l’album si fa ascoltare piacevolmente e non ci sono particolari cali qualitativi da segnalare; invece da evidenziare la mancanza di informazioni su chi abbia suonato la batteria, strumento che effettivamente è fin troppo relegato al ruolo di accompagnamento e non spicca quasi mai in positivo. Sicuramente questo “Earthlings” dei Coven Japan non passerà alla storia dell’Heavy Metal, ma non dispiace e merita abbondantemente la sufficienza.

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    26 Novembre, 2023
Ultimo aggiornamento: 26 Novembre, 2023
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Sono passati sette anni dall’ottimo esordio “Wild waves” e molte cose sono cambiate per i trevigiani Silverbones. In primis adesso c’è un cantante, il napoletano Lorenzo Nocerino, dotato di ugola decisamente adatta al Pirate Metal, ruvida ma non troppo, acuta ma non troppo, espressiva e versatile; alla batteria Fabio Tomba è subentrato ad Enrico Santin, mentre Eric Antonello ha preso il posto di Ricardo Galante alla chitarra solista. Della formazione originaria è quindi rimasto il leader Andrea Franceschi, bassista e songwriter, assieme al fido Marco Salvador che in questo disco si occupa della chitarra ritmica. Ciò che fortunatamente non è cambiato è il sound, il Pirate Metal che ha connotato l’esordio discografico del gruppo è riproposto anche in questo secondo album, intitolato “Brethren of the coast”, disco edito ancora dall’americana Stormspell Records (una garanzia per l’Heavy Metal!), composto da otto canzoni più la consueta intro (discreta, ma non fondamentale), per una durata totale di quasi 43 minuti. L’artwork non esalta più di tanto, ma si tratta di dettagli, del resto mica tutti possono avere le copertine dei Terra Atlantica (che però qui ci starebbero divinamente!). Le tematiche sono ancora legate alla storia (“Invincible armada”, la flotta spagnola), guerre tra navi (la famosa “The battle of Texel”, combattuta tra inglesi ed olandesi) e pirateria in genere. Il tutto con l’inconfondibile ritmo di chitarra del genere, una batteria frizzante che impone un ritmo quasi sempre veloce, il basso del leader a pulsare in sottofondo e la voce del singer che sprigiona energia. La ricetta vincente di gruppi come Running Wild prima, e Blazon Stone più di recente, è qui riproposta fedelmente e, tralasciando ameni discorsi sull’innovazione e l’originalità, è un vero godimento mettersi all’ascolto di canzoni come la triade iniziale composta da “Raise the black”, “Granite heart” e dalla title-track, ma anche “Headless rider”, la già citata “The battle of Texel” (aperta splendidamente dal basso), fino alla lunga conclusiva “Invincible armada”! Mi sembra inutile prolungarsi ancora, sia chiaro un concetto: se amate il Pirate Metal, questo “Brethren of the coast” dei Silverbones è un disco che non può mancare nella vostra collezione, dato che forse nello specifico settore è il migliore di questo 2023!

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    26 Novembre, 2023
Ultimo aggiornamento: 26 Novembre, 2023
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I No Man Eyes nascono a Genova nel 2011 da ex musicisti dei Graveyard Ghost; conoscevo poco questo gruppo ligure che finora aveva realizzato due album, “Hollow man” nel 2013 e “Cosmogony” nel 2016, prima di arrivare a questo “Harness the sun”, uscito attorno a metà novembre 2023. L’album è composto da nove canzoni, cui si aggiunge la solita intro (questa volta meno inutile delle altre, dato che è anche piacevole da ascoltare), per una durata totale di poco superiore ai 3/4 d’ora. Si tratta di un concept album in cui il protagonista è uno scienziato che, assieme ad un androide di nome Isaac che ha costruito egli stesso, viaggiano verso il Sole per catturarne l’energia al fine di soddisfare il fabbisogno energetico della Terra, scoprendo che all’interno di esso risiede un’intelligenza extraterrestre onnisciente di nome Viracocha. Ma cosa suonano i No Man Eyes? Il loro è un Heavy Metal, con qualche tocco Power, ma dalle sfaccettature moderne; non aspettatevi però harsh vocals o screaming, perché il singer Fabio Carmotti ha una voce melodica, versatile ed espressiva, mai esagerata e che addirittura in certi frangenti mi ha ricordato il grande Roberto Tiranti (fatti i necessari distinguo). Strumento protagonista è indubbiamente la batteria dell’ottimo Tony Anzaldi che picchia duro davvero ed impone ritmi spesso estremamente veloci, con un drumming ricco di fantasia e sempre brillante; accanto a lui c’è la chitarra di Andrew Spane che ricama parti soliste di gusto e muri di riff, ben sorretti dal basso di Alessandro Asborno, forse strumento messo un po’ troppo in secondo piano (almeno per i miei gusti). Il disco è pieno zeppo di canzoni davvero ben fatte, dall’opener “Craving tomorrow”, alla title-track “Harness the sun”, per arrivare ad “I am alive” e “Son of man” (che probabilmente sono le migliori dell’album) o alla tostissima “Viracocha”; è comunque tutto il full-length a sorprendere per compattezza e livello qualitativo superiore alla media. Occorre segnalare la presenza di alcuni ospiti, due cantanti come Claudio Canovi e Silvia Criscenzo, a duettare con il singer, interpretando gli altri due protagonisti del concept (Isaac e Viracocha), nonché due tastieristi come Gabriele “Gabriels” Crisafulli e Dave Garbarino, presenti in alcune tracce. Da buon vecchio defender che ha vissuto sulla propria pelle la NWOBHM degli anni ’80 sono sempre stato un po’ refrattario alle contaminazioni moderne, ma devo riconoscere che i No Man Eyes lo fanno decisamente bene e viene spontaneo affermare che se tutti i gruppi fossero come loro, il nostro amato Heavy Metal sarebbe bene al sicuro per il futuro! “Harness the sun” è un disco molto valido, non ci sono dubbi al riguardo, non fatevelo sfuggire!

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    25 Novembre, 2023
Ultimo aggiornamento: 25 Novembre, 2023
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Dietro il nome degli svedesi Final Strike c’è l’ex cantante di Twilight Force e NorthTale Christian Eriksson, che ha deciso di fondare questo gruppo portandosi dietro i fidi Jimmy Pitts e Patrick Johansson; si sono poi aggiunti il chitarrista Martin Floberg (che Christian aveva visto in un video) ed il bassista Jan Ekberg. Trovato un contratto con la label tedesca Reaper Entertainment, ecco arrivare il debut album con questo ottimo “Finding pieces”, fulgido esempio di come si possa suonare nel 2023 del classicissimo Power Metal ispirato ai grandi nomi della scena scandinava, ma senza essere banali né scontati, risultando anzi decisamente convincenti e coinvolgenti. La voce di Eriksson è ben nota ai fans del genere e ce ne sono pochi di cantanti al suo livello; chi segue i NorthTale conosce anche Pitts e Johansson (batterista anche di gente come Malmsteen, Impellitteri ecc. ecc.) e sa cosa possono combinare questi due musicisti. Piuttosto sono rimasto colpito dal chitarrista Martin Floberg (alla prima esperienza in un gruppo) e dalle sue capacità con lo strumento… evidentemente Eriksson ha capito subito il suo talento! Jan Ekberg, invece, suona in altri gruppi minori, ma il suo compito lo fa in maniera egregia, pur non mettendosi mai troppo in evidenza. L’album è composto da dieci tracce (finalmente un disco senza inutilissime intro!) per poco meno di 42 minuti di durata, segno che il songwriting non è mai prolisso ed i brani sono di durata contenuta, puntando all’efficacia e risultando convincenti da subito e gradevoli da ascoltare. C’è qualche richiamo anche agli Edguy, soprattutto quando il sound diventa più leggero e quasi hard-rockeggiante, ma mai in maniera esagerata, puntando maggiormente al più classico Power Metal; forse l’unico momento più blando lo troviamo in “Heaven's falling down”, canzone più lenta e lunga delle altre e forse, anche per questo, meno brillante e coinvolgente (obiettivamente si tratta del pezzo meno entusiasmante del disco). La band ha già estratto dall’album due singoli con altrettanti video, mentre per la release date del 24/11 è uscito anche un terzo singolo con lyric video; si tratta rispettivamente di “Freedom”, “Finding pieces” e dell’opener “Archers”, probabilmente le canzoni migliori del full-length, assieme alla ruffiana “Restless mind” ed all’ottima “To the north”. “Finding pieces” è solo il debut album dei Final Strike, ma siamo già su alti livelli; si tratta insomma di un ottimo biglietto da visita per un gruppo che, ne sono sicuro, saprà regalarci in futuro altri dischi di livello qualitativo superiore alla media!

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    19 Novembre, 2023
Ultimo aggiornamento: 20 Novembre, 2023
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Tra i tanti dischi usciti a fine ottobre di questo 2023 dobbiamo annoverare anche il secondo album dei brasiliani (parte dei quali ora stabilitisi tra Stoccolma e Londra) Ignited, intitolato “Cradle of the wicked”. Il disco, dotato di piacevole artwork (opera del noto artista Gustavo Sazes), è composto da dieci brani per circa 40 minuti di durata totale e ci presenta un Heavy Metal bello tosto e roccioso, fortemente debitore verso i Judas Priest. Già, non appena fatto partire il lettore, ascoltando la title-track posta in apertura, mi è sembrato di avere proprio a che fare con lo storico gruppo inglese, visto anche il tentativo da parte del cantante Denis Lima di imitare lo screaming isterico del grande Rob Halford (ma non sarà sempre così, come nella suadente “Life goes by”). Le similitudini però non si limitano solo alla voce, dato che anche il sound ricorda non poco quello dei maestri inglesi, soprattutto delle loro produzioni più recenti (da “Painkiller” in poi direi). Strumento protagonista naturalmente è la chitarra dell’ottimo Dalton Castro, autore di assoli di pregevole fattura. La domanda che viene spontanea è: cosa ci può essere di male ad ispirarsi ai propri idoli se la musica che fai è valida? La risposta è: assolutamente niente! Qui non siamo a livello di plagio, ma di semplice ed evidente ispirazione e la musica degli Ignited è sicuramente piacevole da ascoltare per un fan di questo genere di Heavy Metal. Ecco, forse manca quella hit che ti prende immediatamente e che vale da sola l’acquisto del CD, ma tutti i pezzi si fanno apprezzare e sono godibili, senza mettere in mostra canzoni di livello mediocre o momenti di stanca. E’ tutto il disco, infatti, che si lascia ascoltare gradevolmente nella sua interezza, arrivando anche ad avere le carte in regola per convincere anche quei palati (o meglio, padiglioni auricolari) più esigenti. In questo contribuisce non poco l’ottima produzione realizzata da Fredrik Nordström nei mitici Studio Fredman di Göteborg (Svezia), che permette di assaporare tutti gli strumenti e la voce come si deve fare nel 2023! Gli Ignited, infatti, pur suonando ed ispirandosi apertamente ad un Heavy Metal old school, non commettono l’errore (che fanno in tanti) di avere una registrazione “vintage”, ma attualizzano il loro sound utilizzando le moderne tecnologie a disposizione per confezionare un prodotto di tutto rispetto, sotto ogni punto di vista. Forse, anzi direi sicuramente, “Cradle of the wicked” non passerà alla storia dell’Heavy Metal, ma permette agli Ignited di farsi apprezzare per essersi autoprodotti un album sicuramente valido ed anni luce migliore di quelle immondizie musicali da cui siamo quotidianamente ammorbati dal music business internazionale.

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    19 Novembre, 2023
Ultimo aggiornamento: 20 Novembre, 2023
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Gli Ūkanose arrivano da Vilnius in Lituania, dove si sono formati nel 2012; finora non hanno avuto una discografia molto ampia, limitandosi ad un paio di singoli, un EP e due LP, di cui questo “Šiaurum vėjum” è l’ultimo, uscito a metà aprile 2023 per la sconosciuta label Art of the Night Productions, ma pervenutoci solo a fine ottobre, oltre sei mesi dopo la release date. Ma cosa suona il sestetto lituano? Il loro è un Folk Metal che può ricordare lontanamente i nostri Corte di Lunas, anche se è cantato (almeno credo) in lingua lituana, il che rende impossibile comprendere a cosa si riferiscano i testi. Musicalmente lo strumento protagonista è il flauto di Greta Gražulytė che credo sia anche la responsabile delle non eccezionali parti cantate, assieme a Jokūbas Giedraitis; qualcosa anche la si sente dalle due chitarre di Linas Petrauskas e Laurynas Tamaševičius che danno quel tocco più Metal al sound, il che non dispiace affatto, visto che le ritmiche sono spesso blande, forse anche troppo! Mi sarei aspettato di più, infatti, dal batterista Vilius Garba che, invece, si limita spesso ad un compitino di accompagnamento assieme al bassista Margiris Milinis, strumento che è un po’ troppo relegato in sottofondo. Il gioco delle due voci, maschile e femminile, diventa poi spesso alienante ed esagerato, come ad esempio nella troppo lunga “Ten už marių” (pezzo in cui la batteria si fa sentire in blast beat da Black Metal), finendo per non essere particolarmente accattivante, ma anzi finanche rischiando di diventare noioso. L’intero disco è basato proprio su questo dualismo tra voce maschile e voce femminile e, dato che entrambe non mi sono sembrate eccezionali, il rischio è quello di risultare poco convincenti ed accattivanti, mentre credo che il Folk dovrebbe trasmettere allegria e voglia di movimento, cosa che raramente accade con questo disco (direi nella frizzante conclusiva “Plėšikėliai” ed in pochi altri momenti). Il songwriting, infine, andrebbe migliorato e soprattutto snellito: alcuni pezzi, infatti, hanno minutaggi esagerati e finiscono per far venir voglia di skippare alla traccia successiva (oltre alla già citata “Ten už marių”, direi anche “Jievaru žydėsiu” e “Iš prūsų žemės”). Dispiace sempre bocciare un album, anche perché si porta sempre rispetto per la passione e gli sforzi altrui ma, nonostante io sia un fan del Folk Metal proprio non sono riuscito a farmi conquistare dal sound degli Ūkanose e del loro “Šiaurum vėjum”.

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    18 Novembre, 2023
Ultimo aggiornamento: 20 Novembre, 2023
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Ci sono dei gruppi che, nel corso degli anni, hanno saputo costituirsi una reputazione elevata, confermandola disco dopo disco; fra questi vanno sicuramente annoverati gli slovacchi Signum Regis, gruppo che seguo sin dai primi passi (sostanzialmente mi manca solo l’esordio omonimo, uscito nel lontano 2008 sull’indimenticabile Locomotive Records). Ed anche con questo loro settimo studio album, intitolato “Undivided” non fanno altro che confermare quanto di positivo realizzato in passato: semplicemente dell’ottimo Power Metal! L’album è composto da dieci tracce (finalmente un disco senza inutilissime intro!!), per una durata totale di poco superiore ai 50 minuti e ha un artwork molto bello realizzato dall’artista Uwe Jarling (anche al lavoro con Grave Digger e Mystic Prophecy). E’ anche il secondo album con il singer brasiliano Jota Fortinho che, grazie alle sue capacità, ha ormai fatto dimenticare un certo Mayo Petranin. La voce versatile del cantante sudamericano (in grado di spaziare tra vocals melodiche ed altre aggressive senza problemi) si sposa alla perfezione ed esalta il sound orecchiabile della band; le canzoni, infatti, sono tutte molto piacevoli da ascoltare, dando una sensazione di compattezza dell’album che non si sente così spesso. Non ci sono fillers di sorta o brani di livello qualitativo inferiore agli altri, confermando che gli slovacchi ci sanno fare quando si tratta di comporre musica, facendo sempre una notevole attenzione all’efficacia ed alle melodie. Se dovessi scegliere un brano preferito, infatti, sarei in grossa difficoltà dato che tutte sono di qualità elevata; così a getto direi la conclusiva “Shield my soul”, dotata di splendide melodie che a tratti ricordano i migliori Maidens. Strumento protagonista, come sempre, è la chitarra di Filip Koluš che regala splendidi assoli in quantità, ben supportata dalle tastiere di Ján Tupý, mentre il basso del leader Ronnie König si fa sentire eccome, ritagliandosi anche qualche attimo in primo piano; la batteria di Jaro Jančula, infine, detta sempre ritmi frizzanti e veloci, con un sapiente uso della doppia cassa. La produzione è perfetta e, del resto, non c’è da meravigliarsene visto che c’è la firma del mitico Jacob Hansen, da sempre una garanzia di qualità assoluta. Il disco è uscito sotto etichetta Ulterium Records e si tratta di un ritorno, dato che alcuni dei migliori dischi del gruppo slovacco sono usciti in passato proprio sotto l’egida della label svedese. Molto probabilmente non ci troviamo davanti al disco power dell’anno, ma sicuramente questo ottimo “Undivided” conferma i Signum Regis tra i gruppi di punta dell’intero movimento mondiale.

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    18 Novembre, 2023
Ultimo aggiornamento: 20 Novembre, 2023
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Avevo conosciuto ed apprezzato tantissimo i Draconicon con il loro debut album “Dark side of magic”, indubbiamente uno tra i migliori dischi Power del 2021; li ritrovo adesso, freschi di un contratto con la svedese Inner Wound Recordings, con il loro secondo album intitolato “Pestilence”. Alcune cose sono cambiate in questi due anni: in primis è andato via quel fantastico batterista che è Manuele Di Ascenzo e non si sa chi abbia suonato la batteria in questo disco; è inoltre entrato in formazione il bassista dei Nightland, Filippo Scrima, che qui usa lo pseudonimo di Philip Skrim. Ma il cambiamento principale lo troviamo nella collaborazione con Francesco Ferrini dei Fleshgod Apocalypse, che si è occupato di scrivere tutti gli arrangiamenti orchestrali dell’album, dando al sound un impatto molto più violento e massiccio, arrivando (parere del tutto personale) quasi a snaturare il Power Metal eccellente che aveva caratterizzato il primo album. Nella presentazione dell’album si parla di parallelismi con Powerwolf, Sabaton ed Orden Ogan, tutti gruppi con cui si potrebbe, ma alla lontana, trovare qualche similitudine; del tutto campati in aria, invece, i paragoni con Arion e soprattutto con i Kamelot che letteralmente non c’azzeccano niente con i Draconicon! Qualcosa di melodico però c’è ancora ed ecco che le similitudini con Secret Sphere e Temperance potevano essere fatte e si potrebbero riscontrare nell’ottima “Heresy” che, a parere dello scrivente, è il pezzo migliore dell’album. Non hanno convinto, invece, i passaggi più estremi (fortunatamente rari), così come le vocals in scream/growl che ogni tanto fanno capolino in un paio di pezzi, finendo per appesantire in maniera esagerata il sound; sinceramente ho preferito anche i momenti in cui il sempre carismatico singer Arkanfel sfoggia la sua ugola lusingatrice e suadente, rispetto a quando cerca di essere esageratamente aggressivo (come nell’attacco spiazzante di “Faust”); capisco il climax dei singoli pezzi in cui ci possono anche stare vocals veementi ed aggressive, ma (anche qui parere del tutto personale) ho preferito i momenti più melodici e più tipicamente Power. Facendo un paragone con il debut album, qui siamo un bel gradino al di sotto a livello qualitativo, la band ha scelto un percorso più duro e cattivo, ma non condivido la decisione di indurire il sound e mi auguro che, con il prossimo disco si torni su lidi più melodici e più affini al precedente full-length, magari dando maggiore spazio al violino di Simon Borgen (alias Simone Borghetto), un po’ come accade nella dolce ballad “Under the weight of your sin”. Sia comunque chiaro che non ci troviamo assolutamente davanti ad un disco mediocre, le dieci tracce di questo full-length (per una durata totale di poco superiore ai 41 minuti) si lasciano comunque ascoltare sicuramente in maniera gradevole, anche se manca quella hit spettacolare che vale da sola l’acquisto del CD (nemmeno la pur validissima “Heresy” può essere definita tale). I Draconicon con questo “Pestilence” (dotato di spettacolare artwork realizzato dall’artista Dan Goldsworthy) hanno realizzato un album differente rispetto al passato, con una scelta che potrebbe anche non essere vincente, nonostante si stia comunque parlando di un lavoro certamente valido.

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    12 Novembre, 2023
Ultimo aggiornamento: 12 Novembre, 2023
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Alle volte non ci sono spiegazioni sul perché qualche disco “resti indietro” e non sia recensito con puntualità attorno alla release date; è questo il caso di “Sungazer”, debut album dei tedeschi Skull & Crossbones, uscito ad inizio settembre, ma che ho avuto modo di iniziare ad ascoltare solo da qualche giorno a questa parte. Il gruppo è stato fondato nel 2019 da quattro ex membri degli Stormwitch a cui si è poi aggiunto poco dopo il validissimo singer Tobi Hübner (anche nei Forensick); si tratta quindi di gente esperta e navigata, dedita all’Heavy Metal da tanti anni. E questa esperienza si sente eccome nelle dieci tracce che compongono l’album, per una durata totale di poco superiore ai 46 minuti. L’Heavy Metal suonato dal quintetto teutonico è infatti decisamente godibile, ha energia, una notevole attenzione per le melodie ed un songwriting decisamente efficace e mai eccessivo. Rifacendosi agli stilemi classici del genere, il sound risulta comunque fresco e moderno (in questo l’ottima produzione contribuisce non poco), pur non andando alla ricerca di amene innovazioni. Strumento principale sono le due chitarre di Volker Schmietow e Tobi Kipp, che intessono muri di riff e dimostrano buon gusto negli assoli; la sezione ritmica, composta da Jürgen "Wanschi" Wannenwetsch al basso e da Marc Oppold alla batteria, fa il suo dovere senza sfigurare, anche se forse un po’ più di protagonismo non avrebbe guastato. La voce di Tobi Hübner è poi davvero azzeccata, pulita, potente ed acuta, costituisce quel quid pluris capace di esaltare le musiche create dal resto del gruppo. Non ci sono pezzi di livello qualitativo scadente, ma tutti si assestano su standard di eccellenza, persino la ballad “Live your dreams”, che, in un certo senso, ricorda i Def Leppard dei bei tempi, non delude per niente e non risulta mai stucchevole. Ascolto dopo ascolto, questo album mi ha conquistato e non mi sorprende che sia stata niente meno che la Massacre Records a rilasciarlo, dando una sorta di certificato di qualità al lavoro. “Sungazer” è il debut album degli Skull & Crossbones, un gruppo che, continuando a questa maniera, saprà sicuramente regalarci altri ottimi dischi in futuro!

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