Opinione scritta da Ninni Cangiano
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Ultimo aggiornamento: 04 Giugno, 2023
Top 10 opinionisti -
Ero curioso ed impaziente di ascoltare questo disco dei Gloryhammer, gruppo che ho apprezzato tantissimo in passato, perché era il primo senza il cantante svizzero Thomas Winkler che è stato rimpiazzato un paio d’anni fa da Sozos Michael, che avevo avuto modo di conoscere all’epoca della sua militanza negli Helion Prime, gruppo che condivide con gli scozzesi le tematiche fantasy/sci-fi. Oltretutto, il titolo di “Return to the Kingdom of Fife” mi faceva pensare ad un collegamento con il fantastico debut album “Tales from the Kingdom of Fife”, uscito esattamente dieci anni fa. Non so cosa mi aspettassi, fatto sta che questo nuovo disco, composto da dieci tracce per oltre 48 minuti totali, mi ha leggermente deluso; avevo tante aspettative e speravo che Michael (è proprio questo il cognome!) potesse essere all’altezza di Winkler, ma così non è stato. Sia chiaro, il cantante cipriota è indubbiamente validissimo, ma non mi sembra abbia il carisma e la carica che invece aveva il primo ed originale Angus McFife; per amore di precisione, mentre Winkler era Angus McFife XIII, il buon Michael interpreta Angus McFife V, ragion per cui si andrebbe a collocare in un momento storico precedente nell’ambito del concept ideato dal gruppo. Da segnalare anche che mi risulta che le tastiere sul disco siano suonate, come sempre, da Christopher Bowes, mentre la Napalm Records mi indica nella formazione Michael Barber, che invece è il tastierista nei live della band, ai posteri l’ardua sentenza… Tornando all’album, musicalmente siamo sulla stessa scia dei precedenti dischi, non mi pare ci siano particolari novità (fatta eccezione, come detto, per il vocalist) ed il Power Metal proposto dal gruppo scozzese è sempre estremamente godibile ed orecchiabile, oltre che ritmato a dovere, grazie ad un impressionante utilizzo della doppia cassa da parte di Ben Turk che a volte si lascia anche andare al blast beat. Le canzoni migliori credo siano nella prima parte, mi riferisco soprattutto all’accoppiata iniziale “Holy flaming hammer of unholy cosmic frost” (molto “Rhapsodyana”) ed “Imperium dundaxia”, che mi sembrano più brillanti e frizzanti delle altre che, comunque, si mantengono su livelli qualitativi molto buoni. Ascolto dopo ascolto, però, una sensazione di amaro in bocca mi è rimasta, forse perché questo album mi sembra alla lunga non reggere il confronto con i suoi predecessori, specie con quello a cui fa richiamo nel titolo, nonostante obiettivamente le varie composizioni seguano la scia della precedente produzione del gruppo. Tirando le somme, se avete apprezzato i precedenti dischi dei Gloryhammer, anche questo “Return to the Kingdom of Fife” sicuramente farà al caso vostro; se, invece, non avete mai amato la band scozzese, indubbiamente non sarà questo loro quarto album a farvi cambiare idea, dato che personalmente lo colloco un gradino sotto ai suoi predecessori.
Ultimo aggiornamento: 03 Giugno, 2023
Top 10 opinionisti -
I The Dark Side Of The Moon nascono dall’incontro tra l’affascinante Melissa Bonny, cantante svizzera degli Ad Infinitum, con Hans Platz, il chitarrista dei tedeschi Feuerschwanz; a loro si sono poi uniti il batterista degli Amaranthe, il danese Morten Løwe Sørensen, e l’arpista degli stessi Feuerschwanz, la tedesca Jenny Diehl. Questo “Metamorphosis” è il loro debut album, disco dotato di piacevole artwork e composto da undici tracce, per poco meno di 3/4 d’ora di female fronted Melodic Symphonic Metal decisamente piacevole, con una serie di ospiti di un certo calibro (Tom S. Englund e Charlotte Wessels su tutti). La principale fonte d’ispirazione del gruppo europeo sono chiaramente i Nightwish e gli Evanescence, ma i nostri sanno come non essere banali o scontati e sciorinano una serie di canzoni di livello qualitativo elevato che si ascoltano con grande piacere. Sin dall’opener “Legend never die” è evidente che ci si trova davanti a qualcosa di davvero valido e tutto l’album si conferma in compattezza e qualità fuori dal comune. Piacciono molto i duetti con Fabienne Erni degli Eluveitie nella splendida “New horizons”, come anche con Charlotte Wessels nell’altrettanto fantastica “May it be”, non male anche “Misty mountains” dove c’è Tom S. Englund; tre canzoni che da sole varrebbero l’acquisto del disco! Ma le tracce valide non finiscono qui, come detto, infatti, è tutto il disco a convincere e cito semplicemente per gusto personale anche “The gates of time”, la melodicissima “The gates of time” e la folkeggiante “Double trouble / Lumos! (Hedwig's theme)”; curiosamente l’unica che non mi ha entusiasmato particolarmente è la conclusiva “Jenny of Oldstones” (la prima canzone da cui è nata la band), forse per via della presenza del growling che trovo fuori contesto in questo disco così melodico. Ciò non toglie comunque che siamo davanti ad un disco davvero ben fatto, “Metamorphosis” è il debut album dei The Dark Side Of The Moon, un gruppo dalle enormi potenzialità che potranno ancora regalarci in futuro delle gemme di ottima qualità!
Ultimo aggiornamento: 02 Giugno, 2023
Top 10 opinionisti -
I Darklon arrivano da Atene in Grecia dove si sono formati nel 2017 per iniziativa del chitarrista D.K. Kras; dopo il debut album nel 2019, arrivano al secondo full-length con questo “The redeemer”, uscito nel mese di maggio su etichetta No Remorse Records e composto da otto tracce per quasi 35 minuti di durata. Con un artwork (realizzato dall’artista Michael Syrigos) che rappresenta il classico guerriero muscoloso, è facile immaginare che il genere suonato sia un Epic/Power Metal ed infatti i Darklon suonano proprio questo genere, anche se qualche digressione nello Speed Metal non manca. A voler fare dei paragoni, andrei su gruppi americani come Omen e Jag Panzer, a cui evidentemente i greci si sono ispirati; niente di nuovo quindi, ma indubbiamente qualcosa di gradevole da ascoltare. Certo la voce del singer Nikos Migus A. non è delle più “educate” e raffinate, ma anzi è abrasiva ed aggressiva e non convince più di tanto in un sound come questo, ma si tratta di gusti personali che, in quanto tali, sono ampiamente opinabili; personalmente avrei preferito un’ugola più acuta e pulita, ma non posso affermare certo di essere di fronte ad un vocalist inascoltabile. Preferisco anche la prima parte dell’album, quella in cui in cui il batterista Sevan Barsamian pesta di più sull’acceleratore con un buon lavoro alla doppia cassa, trovando i pezzi più frizzanti e convincenti, rispetto alla seconda parte dove, soprattutto sul finale, il ritmo cala notevolmente ed i brani si fanno più pesanti all’ascolto, rischiando in alcuni casi anche qualche sbadiglio. A voler per forza indicare le canzoni migliori, direi sicuramente la triade iniziale con la title-track posta in apertura, la seguente “Rancor and agony” bella ritmata e frizzante (il pezzo migliore dell’album di sicuro!) e la gradevole “I am death”; si tratta, però, semplicemente di gusti personali, dato che comunque è tutto l’album a non essere spiacevole da ascoltare. “The Redeemer” non sarà sicuramente l’album dell’anno e non porta nulla di nuovo (maniaci dell’originalità o dell’innovazione tenersi ben lontani!), ma consente ai Darklon di centrare sicuramente una sufficienza bella piena.
Ultimo aggiornamento: 02 Giugno, 2023
Top 10 opinionisti -
Wild Steel (al secolo Andrea De Stefanis) è un pezzo di storia del Metal italiano; con i suoi Shadows of Steel ha scritto pagine memorabili del Power Metal tricolore, mentre con il suo progetto personale, denominato appunto Wild Steel, erano ben dodici anni che non si faceva sentire. Qualche settimana fa, su etichetta Elevate Records, è stato rilasciato il terzo album di Wild Steel, intitolato “Age of steel”, registrato agli storici New Sin Studio di Loria (TV) e composto da undici tracce per una durata totale di circa 48 minuti; si tratta di un concept album basato su una science-fiction story ambientata nell'anno 7707, in cui la società è completamente automatizzata e l'umanità sembra essere scomparsa, solo una donna guerriera combatterà contro un esercito di cyber-soldati ed il concept è appunto incentrato sulla relazione tra uno dei soldati e la donna. Musicalmente, per chi non conosce Wild Steel (grave mancanza!), ci muoviamo sempre sulla falsariga dei precedenti dischi, con un Power Metal ricco di melodie in cui le tastiere di Franz Ekurn hanno un ruolo determinante, protagoniste molto di più delle due chitarre della coppia Rinaldi/Di Pane. Wild Steel si è sempre circondato di ottimi musicisti ed anche questa volta non ha agito diversamente; oltre ai già citati musicisti, infatti, abbiamo Fabio Gremo al basso e niente meno che Francesco La Rosa dietro le pelli (Extrema, Mastercastle e Denial, tra le tante bands con cui ha suonato). Come detto, in questo album l’attenzione per le melodie è notevole, forse finanche troppa; cerco di spiegarmi meglio: su una tracklist di undici tracce, due delle quali assimilabili a mere brevi intro strumentali (sulla cui utilità possiamo sorvolare), avere ben quattro brani lenti (“Live again”, “Restless” e l’accoppiata finale “Away with you” ed “Odyssey”, che mi ha ricordato vagamente “Starman” di David Bowie) è forse un po’ troppo. Passi per la dolce “Live again” piazzata intelligentemente a centro disco, ma metterne altre tre nella seconda parte dell’album, intervallate solo da un brano veloce (“Final battle”), non mi sembra una scelta azzeccata e magari sarebbe stato meglio toglierne un paio ed affidare la conclusione dell’album ad un pezzo più energico e robusto. Essendo però nel campo delle opinioni, opinabili in quanto tali, sono pronto a scommettere che saranno in molti a pensarla diversamente. Per quanto mi riguarda, mi gusto canzoni spettacolari come la tiratissima “Don’t tell me” (di gran lunga il pezzo migliore dell’album!), o anche “Come along” e l’orecchiabile “Queen of spades”, scelta per la realizzazione di un singolo; tutti brani che fanno parte della prima metà dell’album, obiettivamente migliore della seconda. Era ora che Wild Steel tornasse a farsi sentire, a noi fans del Power Metal italiano è mancato tantissimo e questo “Age of steel” è un valido ritorno, anche se si poteva far ancora meglio; adesso speriamo in un nuovo album degli Shadows of Steel al più presto possibile!
Ultimo aggiornamento: 02 Giugno, 2023
Top 10 opinionisti -
Gli Shadows arrivano da Santiago del Cile e, dopo un EP nel 2021 (uscito solo in audiocassetta e digitale), tagliano il traguardo del debut album con questo “Out for blood”, edito dalla californiana Sentient Ruin Laboratories. Il disco è composto da dieci tracce e non dura nemmeno 33 minuti; un songwriting quindi molto conciso, con diverse tracce che sono semplicemente assimilabili a dei brevi intermezzi strumentali, sulla cui utilità ritengo sia meglio sorvolare. A fare tutto negli Shadows è il leader John Shades (pseudonimo di Cristian Silva); è infatti lui ad occuparsi di suonare basso, chitarra e tastiere, oltre che provare a cantare. Uso il verbo “provare” perché il buon Cristian farebbe meglio a trovarsi un cantante degno di tal nome, dato che la sua prestazione al microfono è quasi sempre semplicemente insoddisfacente. Accanto a lui c’è il solo Michael Mist (immagino un altro pseudonimo, ma non è stato reso noto il vero nome), che si occupa degnamente della batteria. Il sound degli Shadows affonda le proprie radici nell’Heavy Metal con atmosfere orrorifiche degli anni ’80/’90; ecco, quindi, che la principale fonte d’ispirazione sono King Diamond ed i suoi Mercyful Fate, solo che il paragone con il vocalist danese è purtroppo davvero impari. A livello musicale siamo molto vicini al sound della band di Kim Bendix Petersen ed, in alcuni casi, si sfiora quasi il plagio; va bene omaggiare i propri idoli, ma ogni tanto un po’ di personalità in più non guasterebbe. Se poi aggiungiamo una produzione non proprio eccelsa, ma alquanto old style ed il fatto che alcune canzoni semplicemente non funzionano o sono troppo ripetitive (la noiosa “Sacrifice” ne può essere un esempio), capirete il motivo della votazione non eccelsa. Qualche spunto interessante comunque lo si può individuare, mi riferisco ad esempio all’opener “Nightstalker”, ritmata a dovere ed anche cantata decentemente da Shades (mi chiedo per quale motivo non l’abbia fatto a questa maniera per tutto il disco!?!?) e, tutto sommato, anche alla conclusiva “Alissa”, onirica ed evocativa a dovere. Dispiace dirlo, ma in giro c’è molto di meglio di questo “Out for blood” e gli Shadows avranno bisogno di crescere ancora parecchio, magari con una band vera e propria accanto al proprio leader, per avere qualche speranza di farsi notare in positivo.
Ultimo aggiornamento: 29 Mag, 2023
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Gli Intöxicated arrivano dalla Germania e sono attivi dal 2009; erano però dieic anni che non si facevano sentire, dopo il debut album del 2013 “Röck’n’roll hellpatröl”. Li ritroviamo in questo mese di maggio che rilasciano il loro secondo full-length su MDD Records, dal titolo “Sadistic nightmares”, composto da otto pezzi per una durata breve, di poco superiore ai 30 minuti, e con un artwork che sinceramente non mi ha entusiasmato. Ma cosa suonano questi Intöxicated si starà chiedendo qualche lettore? Bene, prendete i Motörhead, date una bella accelerazione al loro sound, metteteci qualche piccola dose di Thrash ed avrete questi tedeschi. E’ evidente che il singer è innamorato di Lemmy Kilmister, visto quanto cerca di imitarlo; purtroppo per il buon Mariano, però, di Lemmy ce n’era solo uno, unico ed inimitabile, e gli altri possono solo mettersi l’anima in pace perché non riusciranno mai ad essere come lui! Ed anche Mariano risulta solo una copia sbiadita e poco incisiva, anzi in alcuni casi direi persino fastidiosa. Lo Speed Metal della band, infatti, a patto di dimenticare l’originalità, sarebbe anche piacevole da ascoltare e sicuramente avrebbe una riuscita migliore con un tipo di cantante differente, magari con una voce completamente diversa, acuta ed isterica ad esempio. C’è però da fare i conti con i propri idoli ed anche gli Intöxicated non riescono a smarcarsi da questo; ecco quindi che alla fine l’ascolto diventa derivativo, poco soddisfacente e quasi per nulla convincente. Fortunatamente la velocità imposta dal batterista AC ci salva in corner, facendo risaltare lo Speed Metal; non male anche le parti soliste delle due chitarre e la solidità del basso, ma purtroppo non bastano. Tutti i pezzi, infatti, si assomigliano molto tra loro, dando certamente compattezza all’album, ma anche non presentando alcuna variazione sul tema, in una sorta di immobilismo compositivo. E’ evidente che il gruppo tedesco suona per la passione verso i propri idoli (e già solo per questo merita ogni rispetto), ma è altrettanto evidente che c’è molto di meglio in giro e questo “Sadistic nightmares” consente agli Intöxicated solo di avvicinarsi alla sufficienza senza raggiungerla.
Ultimo aggiornamento: 28 Mag, 2023
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I Tardigrade Inferno arrivano da San Pietroburgo in Russia, dove si sono formati nel 2016; finora hanno realizzato un EP, una manciata di singoli ed un full-length (a noi purtroppo sconosciuto), prima di realizzare questo secondo EP intitolato “Arrival of a train”. Il disco è autoprodotto in maniera perfetta, ha un simpatico artwork che richiama il titolo ed è composto da quattro pezzi per una durata totale purtroppo di nemmeno 17 minuti. Ho usato il termine “purtroppo” perché il Metal che ho ascoltato in questo quarto d’ora è semplicemente pazzesco, originalissimo e decisamente godibile. Se dovessi fare un paragone per farvi capire il sound dei Tardigrade Inferno sarei in estrema difficoltà, potrei tirare in ballo solamente la musica grandguignolesca dei Viza, un qualcosa che su una base folkeggiante si dipana verso sonorità estremamente particolari, molto teatrali ed eleganti, ma sostanzialmente folli. C’è chi lo chiama “Avant-garde Metal”, loro stessi si definiscono “Dark Cabaret Metal”; qui c’è la fisarmonica, c’è il kazoo, ci sono sonorità estremamente particolari ed originali assieme ad una marea di effetti sulla voce dell’ottima Darya Rorria, un qualcosa insomma che potrebbe essere definito pane per i denti di chi cerca originalità ed innovazione a tutti i costi! Ma queste sonorità sono talmente particolari che, alla fine, risultano anche estremamente godibili anche per un vecchio metallaro come il sottoscritto, bisogna solo avere la capacità di non prendersi sul serio ed avere la mente aperta. E’ come andare ad un circo degli orrori (citazione cinematografica, decisamente azzeccata in questo caso), quello dei clown assassini e dei freaks, per mettersi ad ascoltare un’alienante colonna sonora Metal e farsi trasportare in un’altra dimensione, in un mondo tutto strano e particolare. I quattro pezzi vanno presi tutti assieme, iniettati come una dose letale di morfina per il nostro cervello malato, accompagnandolo verso la follia ed il delirio. “Arrival of a train” sarà per me il disco del 2023 o molto vicino a questa posizione e sorprende come ancora nessuna label si sia accorta del valore assoluto di questa band; spero solo che la loro origine russa non abbia a che fare con questa assurda purga. Il trip alienante è iniziato, non perdete la fermata del treno dei Tardigrade Inferno, perché vi perdereste qualcosa di unico ed inimitabile!
Ultimo aggiornamento: 27 Mag, 2023
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Avevo conosciuto i greci The Silent Rage all’epoca del loro debutto nel 2016, trovando la prestazione del cantante dell’epoca un po’ sopra le righe; scopro adesso, a distanza di sette anni, che la band ha un nuovo singer (tale Michalis Rinakakis) e sforna il proprio secondo album con questo “Nuances of life”, edito dalla nostrana Scarlet Records. Partiamo subito proprio dalla novità principale: il cantante. La voce di Rinakakis è alquanto sporca ed aggressiva, in alcuni momenti mi ha ricordato persino Hansi Kürsch e Lore dei Folkstone, anche se Stu Block degli Into Eternity (che, guarda caso, è ospite nell’album) credo che sia il paragone più azzeccato; diciamo che possiamo tranquillamente affermare che, rispetto al passato, il gruppo ha avuto un netto miglioramento, dato che questo cantante non esagera nelle parti estreme come purtroppo accadeva al suo predecessore. Bisogna segnalare che, oltre a lui, sono entrati nella formazione anche un nuovo bassista (George Haniotakis) ed un nuovo chitarrista (Nikos Sarbanis) ad accompagnare il leader Nikos Siglidis. Anche il sound è leggermente cambiato, dato che il Power/Thrash degli esordi ha lasciato il posto ad un Power più melodico e leggermente più lontano dalle contaminazioni Thrash del passato; per questo anche il batterista Stamatis Katsafados è più moderato ed evita il blast beat e parti più estreme. Certo, non siamo ancora al Melodic Power che viene indicato nella presentazione del disco, ma ci attestiamo su un Power Metal bello robusto e massiccio che, comunque, può ancora lontanamente far pensare agli Iced Earth. L’album è bello compatto e non ci sono canzoni che spiccano né in senso negativo, ma nemmeno che ti fanno saltare dalla sedia immediatamente; diciamo che la qualità media è sicuramente buona ed i vari ascolti sono stati sempre gradevoli. In conseguenza di ciò, non mi sento di indicare canzoni preferite rispetto ad altre, perché comunque tutte le dodici tracce si fanno apprezzare (durata totale di quasi 55 minuti), segno che il songwriting è efficace e conciso. Oltre al già citato Stu Block, bisogna segnalare la presenza di altri ospiti di calibro internazionale, come Harry “The Tyrant” Conklin (Jag Panzer) ed il polistrumentista Bob Katsionis, sorta di istituzione del Metal greco ed europeo. “Nuances of life” non passerà alla storia del Power Metal, ma è per i The Silent Rage un passo avanti rispetto al passato e, tutto sommato, sicuramente una buona prova.
Ultimo aggiornamento: 26 Mag, 2023
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Gli Elegant Weapons nascono per iniziativa del chitarrista dei Judas Priest Richie Faulkner il quale, qualche tempo fa, sentì il bisogno di creare un supergruppo assieme ad alcuni suoi amici; ecco quindi che alla sua idea hanno aderito il cantante cileno Ronnie Romero (Rainbow, Michael Schenker Group e Coreleoni, tra i tanti), il bassista degli Uriah Heep, l’inglese Dave Rimmer, e l’americano Christopher Williams, batterista degli Accept. Insomma, tutta gente di un certo livello artistico e di comprovata esperienza che arriva al debut album con questo “Horns for a halo”, edito niente meno che da Nuclear Blast Records. Il sound è un Heavy Metal molto variegato che va a pescare sia dall’Hard Rock degli anni ’70 (Black Sabbath su tutti), ma anche dalla tradizione della NWOBHM degli anni ’80 (e naturalmente qui si va a parlare dei Judas Priest), con qualche riferimento (fortunatamente minimo) anche alle sonorità degli anni ’90 (si sente qualche tocco di Grunge). Questa varietà, alla lunga, diventa però un’arma a doppio taglio, nel senso che, per accontentare tutti, si rischia di scontentare tutti; insomma, il classico “colpo al cerchio e colpo alla botte” qui non funziona a dovere. Personalmente, ad esempio, adoro canzoni come l’infuocata accoppiata iniziale di “Dead man walking” e “Do or die”, così come l’ottima “Lights out”, esempi di Heavy robusto e tirato, in cui compare anche un po’ di doppia cassa. Al contrario, canzoni fin troppo leggere (ed anche un po’ ripetitive) come “Ghost of you”, “Bitter pill” o la stessa title-track “Horns for a halo”, non mi hanno per niente entusiasmato, ma anzi hanno rischiato di scatenare più di uno sbadiglio. Nel mezzo si trovano gli altri brani, che non sono male, ma nemmeno fanno impazzire; mi riferisco quindi a “Blind leading the blind” (piacevole la parte iniziale) ed al trittico finale “Dirty pig” (discreta, ma un po’ ripetitiva), la lunga “White horse” (con un paio di minuti in meno, sarebbe stato meglio) e “Downfall rising” (abbastanza sabbathiana e con piacevoli parti soliste). Mi pare insomma sia piuttosto evidente che questo album vive di luci ed ombre, soffrendo di poca compattezza e con un troppo ampio raggio di sonorità differenti tra loro; è indubbio che la qualità dei musicisti è di livello superiore (le parti soliste di Faulkner sono spettacolari!), ma purtroppo ciò non basta a fare di questo “Horns for a halo” un disco memorabile. Sufficienza ampiamente meritata, ma non oltre; in giro c’è molto, ma molto di meglio!
Ultimo aggiornamento: 21 Mag, 2023
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I Premortal Breath arrivano dalla Germania e sono attivi sin dal 2010 per iniziativa del cantante Thomas Greulich che, pian piano, ha reclutato attorno a sé i vari musicisti che hanno suonato in questo maxi-EP o breve LP (fate voi), intitolato “Of angels and wolves”, autoprodotto a settembre 2022. Il disco è composto da sette tracce per poco più di mezz’ora di durata totale, un po’ poco per essere considerato un full-length, un po’ tanto per essere catalogato come EP, insomma una sorta di ibrido. Ed anche ibrido può essere considerato il sound della band che, partendo da sonorità Modern Metal, va a toccare il Thrash e l’Heavy più canonico, mettendo su un qualcosa che lontanamente potrebbe persino ricordare gli americani Iced Earth, se solo non ci fosse il cantato spesso quasi ai limiti del Metalcore del leader della band. Con uno stile canoro differente e meno aggressivo, infatti, questo sound così massiccio credo possa avere una riuscita ancora migliore… ma qui entriamo nel campo minato dei gusti personali, in quanto tali ampiamente opinabili, e se a Thomas Greulich piace urlare la sua rabbia senza soluzione di continuità, chi siamo noi per criticarlo? Di certo, i vari pezzi di questo disco hanno energia da vendere e sono belli tosti, con le chitarre compresse ed in ottima evidenza e la batteria a dettare ritmi spesso sostenuti, con il basso che ricama a dovere in sottofondo, ma mai relegato in secondo piano. Artwork piacevole e produzione perfetta, contribuiscono alla riuscita di questo “Of angels and wolves” che permette ai Premortal Breath di farsi notare in positivo, strappando una più che meritata ampia sufficienza; il gruppo tedesco, infatti, riesce a raggiungere un giusto compromesso tra le amenità sonore moderne ed il vero Heavy/Thrash che piace a noi vecchi e truci metallari.
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