Opinione scritta da Ninni Cangiano
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Top 10 opinionisti -
Gli Asterise sono un gruppo greco/polacco, nato dall’incontro tra il polistrumentista Bartlomiej Mezynski ed il giovane tastiere Dionysis Maniatakos, entrambi ispirati da gruppi come Avantasia, Stratovarius e Gamma Ray. Dopo aver realizzato l’interessante debut album “Two worlds” nel 2022, con il fido batterista polacco Slawomir Siwak ed una lunga serie di ospiti (fra cui artisti da Gloryhammer e Terra Atlantica), hanno rilasciato in questi giorni di inizio dicembre 2024 su Inverse Records il secondo full-length, intitolato “Tales of a wandering soul”. Il disco, dotato di piacevole artwork realizzato dalla Dream Visual Productions, è composto da 11 tracce (compresa la solita inutilissima intro ed un’altra traccia strumentale) per una durata totale di 54 minuti circa, con diversi brani che superano abbondantemente i 5 minuti di durata. Il songwriting, infatti, non è così scorrevole e facilmente fruibile, sia per un minutaggio a volte eccessivo, ma anche per una certa variabilità dei pezzi che non sono sempre ancorati totalmente al power metal a cui la band si ispira. Se le prime due canzoni sono classicamente power, con la chitarra che si erge a protagonista con assoli di ispirazione neo-classica, già la ballad “Raven” si presenta alquanto oscura (oltre ad essere un po’ troppo prolissa, specie nella parte centrale strumentale) e con passaggi sinfonici che fanno pensare a gente come Epica e Nightwish. La successiva “Wicked dream” ha le tastiere ottime protagoniste, per un brano che non sfigurerebbe nella discografia degli Stratovarius; alquanto neo-classica si presenta invece “Drifting into darkness”, altro pezzo che sarebbe stato più efficace con un paio di minuti in meno, pur presentando un’ottima parte solista del basso (ritengo dell’ospite Lubomyr Kosakovsky). Arriva il turno della title-track una ballad acustica, dalle tonalità agrodolci, quasi malinconiche; dopo di che gli Asterise ci spiazzano con “Golden land”, con quelle tastierine quasi dance in apertura del brano che poi, per fortuna, si trasforma in un pezzo molto easy e leggero, con uno dei cantanti che si avventura su tonalità altissime, rischiando di risultare quasi ridicolo e comunque poco convincente. Dopo l’altra breve strumentale “Call of whispers”, ci troviamo nella parte conclusiva con “Awaken”, altro brano eccessivamente lungo, quasi prog-oriented in alcuni momenti, dal ritmo moderato e che ho faticato ad apprezzare, se non fosse stato per parti vocali ricche di espressività e per gli ultimi due minuti in cui finalmente il pezzo decolla. L’ultima traccia è “Farewell”, l’ennesima ballad del disco, forse la meno melodrammatica (nonostante le classiche parti parlate in chiusura), anche questa ricca di parti soliste di chitarra forse finanche eccesive. Se il debut album ci aveva mostrato una band molto promettente, in questo nuovo “Tales of a wandering soul” gli Asterise hanno fatto un passo indietro, mettendo troppa carne al fuoco, con un songwriting troppo complesso ed ondivago, oltre che eccessivamente lungo, con il risultato di un disco poco compatto e non del tutto convincente. Per il futuro, forse sarebbe meglio badare più al sodo ed evitare di esagerare, concentrandosi sull’efficacia dei singoli componimenti e non sulla loro magniloquenza.
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A ben 7 anni di distanza dal discreto “Return from the shadows”, tornano a farsi gli slovacchi Within Silence, gruppo che nel 2015 aveva esordito con il fantastico “Gallery of life”; rispetto ad allora sono rimasti solo il talentuoso cantante Martin Klein ed il chitarrista Richard Germanus, mentre il bassista Viktor Varga era già presente solo nella formazione del secondo full-length; su questo LP fanno il loro debutto il batterista Peter Pleva (entrato in gruppo nel 2020) e l’altro chitarrista Majo Gonda (in formazione dal 2021). Il disco, intitolato “The eclipse of worlds”, è dotato di piacevole artwork realizzato dall’artista Jan Yrlund (al lavoro anche con Delain, Korpiklaani, ecc.) ed è composto da 9 tracce per una durata totale di oltre 50 minuti, sui quali incide la lunga suite finale “When worlds collide” con i suoi 12 minuti abbondanti. Il sound è radicato su un power metal nella sua versione più melodica, con forti innesti di heavy metal alla Iron Maiden; “The mist” in questo è emblematica, canzone che non sfigurerebbe affatto in un lavoro come “Brave new world”, se non fosse per la doppia-cassa utilizzata sapientemente da Peter Pleva, il cui stile è nettamente diverso da quello del mitico Nicko McBrain (che la doppia-cassa non l’ha praticamente mai usata). I vari ascolti dati a questo full-length sono sempre stati piacevoli grazie al fatto che tutte le canzoni sono di livello qualitativo superiore alla media e si lasciano ascoltare con facilità, a causa di un songwriting ben fatto ed efficace. Naturalmente strumenti protagonisti sono le due chitarre con assoli a profusione, ben supportate dal basso, con la batteria che impone spesso e volentieri ritmi frizzanti. Se dovessi indicarvi dei brani preferiti rispetto ad altri sarei in difficoltà dato che, come detto, sono tutti di ottima qualità ed è proprio l’album nella sua interezza ad essere convincente; così, di getto, potrei indicare la già citata “The mist” (proprio perché mi ricorda gli Irons), stesso discorso si potrebbe fare anche per l’attacco dell’ottima “Battle hymn”; mi sono piaciute anche la trascinante title-track “The eclipse of worlds” e la suddetta suite finale “When worlds collide” (anch’essa con numerosi richiami ai Maiden, ma anche agli Avantasia) ma, lo ripeto, è proprio tutto il disco ad essere oltremodo gradevole da ascoltare. Dopo il mezzo passo falso del precedente LP, i Within Silence sono tornati ai fasti del debut album con questo “The eclipse of worlds” che conferma la band slovacca tra le migliori nel settore più melodico del power metal europeo.
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Seguo i tedeschi Accuser (o meglio, Accu§er) sin dagli esordi negli anni ’80, con dischi fantastici come “The convinction” e “Who dominates who?” di cui gelosamente conservo ancora i relativi vinili; nel corso degli anni, accanto al leader, il cantante/chitarrista Frank Thoms sono cambiati i vari musicisti, ma ciò che sostanzialmente non è cambiata è la musica e per fortuna! Il thrash molto tecnico ed aggressivo c’è ancora oggi, anche in questo tredicesimo album, intitolato “Rebirthless”, il primo con il nuovo chitarrista Sascha Stange che quando usciva il primo disco della band aveva circa 1 anno! Il full-length è dotato di meraviglioso artwork (che è un particolare del quadro “La révolte des enfers contre le ciel” di Antoine Joseph Wiertz) ed è composto da 9 tracce per la breve durata di 37 minuti e mezzo, segno che la band adesso bada al sodo con pezzi concisi e convincenti (in passato non era così), grazie ad un songwriting che punta sull’efficacia e non si dilunga mai oltre il necessario. Come tradizione, il groove sulle chitarre è molto marcato e la voce di Thoms poco o nulla concede alla melodia, con il tipico approccio aggressivo ed abrasivo che da sempre lo contraddistingue. Le canzoni scorrono piacevolmente e danno energia in quantità, facendosi ascoltare senza difficoltà e facendo sempre venire voglia di sbattere su e giù il capoccione martoriando le cervicali. Sarebbe difficile indicare le migliori, dato che sono tutte sullo stesso alto livello e nessuna è inferiore alle altre; così, di getto, direi l’opener “Violent vanity” e “When desperation scorns”, ma semplicemente perché sono quelle che mi sono più piaciute durante l’ultimo ascolto, ma sono certo che, se pigiassi ancora il “play”, potrei indicarvene altre. Ho sempre apprezzato gli Accuser ed anche questo “Rebirthless” non fa altro che confermare le loro qualità fuori dal comune; dispiace che il gruppo tedesco abbia sempre raccolto meno di quanto meritasse, speriamo che questa volta i fans del thrash metal possano accorgersi di questo ottimo album!
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I KingCrown sono la band dei fratelli Amore, Joe (voce) e David (batteria), entrambi ex-Nightmare, che inizialmente era nota come Öblivïon (nome con cui fu realizzato l’album “Resilience” nel 2018); li avevo conosciuti all’epoca dell’ottimo precedente lavoro “Wake up call”, uscito nel 2022, dopo l’esordio del 2019 (“A perfect world”); sono passati dunque due anni dal precedente disco ed eccoci a parlare del terzo full-length, intitolato “Nova Atlantis”. L’album è dotato di splendido artwork, è composto da 11 tracce per la durata totale di quasi 48 minuti e viene rilasciato dalla torinese Rockshots Records in questi ultimi giorni di novembre. In questo nuovo lavoro del gruppo francese, la componente melodica appare più accentuata ed il ritmo non è sempre così frizzante il che, comunque, non compromette la fruibilità dell’ascolto. Del resto, ci troviamo davanti a musicisti esperti e navigati (alcuni di loro militano anche nei Galderia) e le capacità non sono certamente in discussione; come sempre anche l’impostazione sporca e ruvida di Joe Amore è singolare e caratteristica; personalmente non amo particolarmente questo genere di cantanti, ma anche qui le capacità non sono in discussione e si parla solo e soltanto di gusti personali (ampiamente opinabili in quanto tali). Il songwriting è efficace e convincente e la band non si spinge mai oltre il dovuto, badando al sodo ed evitando di perdersi in inutili esibizioni tecniche, tipiche di altri generi di musica metal. Le canzoni scorrono via piacevolmente, anche se ho preferito quelle più ritmate: l’opener “The magic stone”, “Real of fantasy” aperta da un basso magnifico e molto orecchiabile, “Guardian angels”, “Souls of traveler” e l’accoppiata finale “When stars are aligned”/“Endless journey”. Ci troviamo davanti comunque ad un album ben fatto, in grado di conquistare i favori dei fans della parte più melodica dell’heavy metal; “Nova Atlantis”, insomma, conferma le qualità più che buone dei KingCrown.
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I Die for my sins sono il nuovo progetto (creato nel 2022) dei fratelli Calluori quando non sono impegnati con gli Heimdall; a fine novembre è arrivato grazie alla label svedese ViciSolum Productions al debut album, intitolato “Scream” e dotato di piacevole artwork. Attorno ai due musicisti campani ci sono diversi ospiti, in primis il mitico Ralph Scheepers che impreziosisce con la sua meravigliosa voce 8 delle 9 canzoni della tracklist; sulla mancante (la sesta traccia) c’è un certo Ian Parry, altro mostro sacro dell’heavy metal. Con due cantanti del genere la qualità è assicurata, ma ci vuole anche la musica ed ecco che Fabio e Nicolas si sono avvalsi di Luca Sellitto (già sentito con i Magic Opera) per le parti soliste di chitarra e del fido Carmelo Claps (con loro negli Heimdall) per gli assoli della settima traccia. Il songwriting venuto fuori dal talento di Fabio Calluori è di livello qualitativo fuori dal comune e tutte le 9 canzoni (durata totale di poco inferiore ai ¾ d’ora) sono ben strutturate, convincenti, concise ed efficaci, oltre ad essere estremamente piacevoli da ascoltare. Il genere suonato è naturalmente un heavy metal tosto e frizzante, con qualche richiamo al power metal (come è normale che sia, vista l’estrazione musicale del duo); se proprio dovessimo cercare dei paragoni, credo che quello con i Primal Fear sia tra i più calzanti e non solo per la presenza dello stesso immenso vocalist. I vari ascolti dati a questo full-length sono stati sempre piacevoli e sarei in imbarazzo se dovessi scegliere le canzoni migliori da suggerire, perché sono tutte ben fatte ed estremamente gradevoli, oltre che ricche d’energia e ritmo; naturalmente non ci sono filler di sorta ed anche quando il ritmo rallenta (come con “In the sing of the cross” che ricorda non poco i maestri Iron Maiden) l’ascolto non è mai problematico, grazie ad un livello qualitativo sempre molto alto. Nel mese di novembre 2024 sono usciti tanti dischi di valore e questo “Scream”, debut album dei Die for my sins, è sicuramente tra i migliori in assoluto, non fatevelo sfuggire!
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A tre anni di distanza dal discreto esordio omonimo tornano a farsi sentire gli spagnoli Knightsune con il loro secondo full-length intitolato “Fearless”, uscito in ottobre per la valenciana Art Gates Records. L’album, dotato di piacevole artwork ricco di dettagli (di cui purtroppo non ne è stato reso noto l’autore), è composto da 10 pezzi per la durata totale di circa un’ora, un’infinità che sembra non finire mai; uno dei difetti principali di questo disco, infatti, sta proprio qui: ad ogni ascolto mi ritrovavo a chiedermi “ma quando arriva la fine?”, segno che il songwriting non è proprio dei più scorrevoli ed i pezzi sono spessi appesantiti da inutili orpelli che “allungano il brodo” senza apportare alcun vantaggio. A titolo esemplificativo, citerei la lunga “The island”, quasi 9 minuti che sembrano infiniti e che annoiano l’ascoltatore già dopo 3-4 minuti, anche a causa di un ritmo che stenta a decollare (lo fa solo a centro brano). L’altro problema dei Knightsune, come già si era avuto modo di evidenziare nella recensione del debut album, è la voce del cantante Victor Alcalá "Kendoru"; rispetto al primo album è anche migliorato, ma i limiti restano evidenti, soprattutto in espressività sulle note più basse. Per un genere come il power metal suonato dalla band (di ispirazione nord-europea), serve un cantante con una voce potente e squillante, acuta ed espressiva, caratteristiche che il pur volenteroso Alcalá non ha avuto da madre natura. Dispiace, perché a livello prettamente musicale, con qualche sforbiciata nella durata, i pezzi sarebbero anche piacevoli e trascinanti, grazie soprattutto ad un ritmo spesso frizzante dettato dall’ottimo lavoro alla batteria di Rubén Castrillo (prendete ad esempio la conclusiva “Not over”, probabilmente la migliore della scaletta). Da annoverare la presenza di ospiti di un certo livello, tra cui l’indimenticabile Elisa C. Martín (5 minuti di vergogna per chi non conosce questo mostro sacro del metal spagnolo!) o il tedesco Herbie Langhans (presente proprio sulla suddetta “Not over”, creando un impietoso confronto con il singer della band). I Knightsune hanno ancora molto da migliorare se vogliono avere una speranza di uscire dall’underground, in primis puntando all’efficacia delle loro canzoni (rivisitando quindi il metodo di songwriting che a questa maniera funziona poco) e magari cercando un cantante più dotato dell’attuale; in queste condizioni, infatti, diventa difficile strappare più di una sufficienza.
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Ci sono dischi che quando li ascolti per la prima volta pensi “Wow!” e poi ti viene subito voglia di ascoltarli ancora ed ancora e comprendi di avere tra le mani un album che ha tutte le carte in regola per entrare nelle posizioni più alte della tua top 10 delle migliori uscite dell’anno. E’ questo che è successo a me con “Utopia”, terzo full-length della carriera dei greci Silent Winter, guidati dal chitarrista Kiriakos Balanos (che, oltre a scrivere musiche e testi, ha persino realizzato il piacevole artwork). Si tratta di un album pieno zeppo di canzoni fantastiche che sarebbero in grado di far ricredere coloro che sostengono che il power metal non abbia più niente da dire! Gli si potrebbe far ascoltare l’ottima “Hellstorm”, la cadenzata e pesantissima “Hand held high” (in cui mi pare di ascoltare un ospite al microfono…) degna dei migliori Feuerschwanz, oppure ancora la ruffiana “Reign of the tyrants”, per non parlare della meravigliosa “Heart is a lonely hunter”, che potrebbe essere una guida per come deve essere una canzone di melodic power e che forse è il brano più bello da me ascoltato in questo 2024. Ma è tutto l’album ad essere convincente e compatto, 8 canzoni (per una durata totale di quasi 48 minuti) che scorrono via che è una bellezza e conquistano immediatamente, per poi far scoprire altri particolari pian piano che si procede con i vari ascolti finendo per vincere ogni resistenza; anche quando il minutaggio sale (alcuni pezzi superano i 6 minuti) non ci sono problemi di alcun genere, segno che il songwriting è sempre efficace e vincente. Quando poi hai in formazione un cantante come il greco Mike Livas (Bloodorn, Prydain, ecc.) che mette a disposizione il suo talento per una performance eccezionale, allora tutto diventa più facile; bisogna anche ricordare che è il primo disco in cui c’è l’affascinante tastierista Maria Mosxeta, presenza grazie alla quale il leader Balanos può così dedicarsi solamente alla sua chitarra. Se ancora credete che il power metal abbia sparato le sue migliori cartucce da tempo, mettetevi all’ascolto di questo “Utopia” dei Silent Winter e vi renderete conto che nell’underground ci sono ancora talenti smisurati in grado di tirare fuori dischi semplicemente stupendi, come questo qui!
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I Fellowship arrivano dall’Essex nel Regno Unito e sono attivi da ormai 5 anni, periodo in cui hanno rilasciato un paio di singoli, un paio di EP ed un full-length nel 2022, prima di questo “The skies above eternity”, uscito in questi giorni di fine novembre per la nostrana Scarlet Records. La loro caratteristica principale è che usano costumi di scena fantasy ma, a differenza di altri gruppi simili (Gloryhammer, ecc.), non utilizzano pseudonimi, ma i loro nomi veri. Il loro è un power metal molto melodico che ricorda non poco i Trick or Treat (soprattutto per le chitarre) o i Twilight Force, con qualche digressione nel sinfonico (Rhapsody docet), che possiamo far rientrare nella categoria del cosiddetto “happy metal”, dato che il loro sound è decisamente ruffiano e scanzonato (come, del resto, anche i loro video ed il loro approccio in genere). E’ quindi un piacere ascoltare e riascoltare questa musica, decisamente orecchiabile, coinvolgente e convincente! Quello che non mi ha mai conquistato è lo stile del cantante Matthew Corry; sia chiaro c’è molto di peggio in giro, ma la sua voce non è nemmeno lontanamente paragonabile a quella di mostri sacri come Alessandro Conti o Fabio Lione (tanto per rimanere nel nostro suolo italico) ed in alcuni tratti sembra anche leggermente “nasale”. Si tratta comunque di pignoleria di questo recensore innamorato di certe vocalità dato che, come detto, indubbiamente c’è molto di peggio in giro. C’è da segnalare che questo è il primo disco con il nuovo bassista Ed Munson che ha preso il posto di Daniel Ackerman, uscito dal gruppo poco dopo la pubblicazione del debut album. Il disco ha un artwork piacevole realizzato dall’artista Peter Sallai (Sabaton, Powerwolf, Feuerschwanz) ed è composto da 9 tracce (compresa una breve sorta di outro strumentale in chiusura), per la durata totale di circa 41 minuti, con tutte le canzoni che si assestano tra i 4 ed i 5 minuti, segno che anche il songwriting è conciso ed efficace. Brani piacevoli ce ne sono in quantità, farei prima ad affermare che non vi sono filler di sorta o canzoni di livello qualitativo sotto l’eccellenza; se qualcuno mi chiedesse quali sono le mie preferite, risponderei di getto l’accoppiata frizzante “Victim”/“The bitter winds”, ma anche l’orecchiabilissima “Eternity” e la magniloquente “A new hope”, ma si tratta solo di impressioni del momento; come detto, infatti, sono tutti i brani ad essere convincenti, finendo per creare una compattezza non così comune, ma indubbiamente vincente. Ritengo inutile aggiungere altro, “The skies above eternity” è sicuramente uno dei migliori dischi di power metal, nella sua versione più happy, usciti in questo 2024 e conferma i Fellowship come una delle bands più promettenti del panorama internazionale.
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Avevo conosciuto il progetto Empires of Eden del chitarrista australiano Stu Marshall nel 2012, all’epoca del terzo album “Channeling the infinite”; ne avevo perso le tracce in questi 12 anni, scoprendo solo ora che è stato registrato anche un quarto full-length (“Architect of hope” nel 2015), prima di questo “Guardians of time”, uscito in questi giorni niente meno che per la Massacre Records. Come in passato, anche questa volta Marshall ha reclutato tanti artisti in giro per il mondo (ma principalmente nella sua Australia) facendoli cantare o suonare nelle sue canzoni, in cui naturalmente lo strumento protagonista è la sua chitarra; tra questi artisti i più famosi sono Rob Rock degli Impellitteri e John Gallagher dei Raven (entrambi nella title-track), John Cavaliere dei Black Majesty (sulla bonus-track) ed il mitico Mike LePond dei Symphony X (sulle tracce 3 e 11). Come per il passato il sound è basato su un power metal molto melodico, alquanto easy-listening; sarà però per il fatto che ogni canzone ha un cantante diverso e si perde in compattezza, sarà perché forse Marshall si trova meglio a comporre brani veloci e riempie l’album di canzoni più lente, sarà per chissà quale altro motivo, fatto sta che ogni volta, al termine dei vari ascolti, non ne rimanevo particolarmente impressionato e la voglia di premere ancora il tasto “play” non era così forte… come per il precedente disco da me recensito, infatti, anche questa volta non ho trovato alcun brano che mi conquistasse del tutto e che potesse valere da solo l’acquisto del cd. Sia chiaro, dal punto di vista tecnico, non c’è assolutamente nulla da dire; Stu Marshall è un mostro con gli strumenti, ma pare quasi che tante volte le canzoni siano solo un modo per dare sfogo alla sua tecnica, una via per esibire le sue capacità, perdendo di vista la struttura dei vari componimenti e la loro efficacia (emblematica in tal senso la strumentale “Arabian nights” che di arabo non mi pare abbia niente). Va meglio quando ci sono canzoni più veloci (“Mortal rites” su tutte, ma anche “The inner me” e “Baptise this hell” in entrambe le sue versioni), mentre quando il ritmo rallenta non sono rimasto particolarmente impressionato, quasi come se il songwriting sia in difficoltà e tenda ad essere ripetitivo, rischiando di diventare noioso in alcuni casi (come, ad esempio, in “August runs red”, forse il punto più basso a livello qualitativo del disco). L’album ha un piacevole artwork realizzato dall’artista Alex Yarborough ed è composto da 10 canzoni, cui si aggiunge la solita inutilissima intro ed una seconda versione come bonus-track della già citata “Baptise this hell”, per una durata totale di circa 52 minuti. Tirando le somme, Stu Marshall con il suo progetto Empires of Eden ha sfornato un altro album non proprio entusiasmante, con pezzi che funzionano meglio di altri, ma comunque non particolarmente esaltanti; mi dispiace, ma questo “Guardians of time” non è in grado di strappare la sufficienza, dato che c’è obiettivamente di meglio in giro.
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Dietro il nome Mystyc Blade si cela il musicista francese Christophe Danjon che ha messo su questo suo progetto personale nel 2023, rilasciando inizialmente un EP nello stesso anno, arrivando poi a metà ottobre 2024 a rilasciare, grazie alla nostrana Wormholedeath Records, il proprio debut album intitolato “The master is inside”. Il full-length ha un piacevole artwork che credo raffiguri Ganesha (divinità indiana della saggezza e dell’acume, colui che difende le buone azioni e crea difficoltà ai malvagi) ed è composto da 11 tracce per la durata totale di quasi 63 minuti, segno che le singole canzoni non sono brevi. E questa particolarità alla lunga può essere anche un difetto: spesso, infatti, ci sono tracce che sembra si ingolfino su sé stesse, quasi ci sia una sorta di voglia di strafare dell’artista che gli fa perdere di vista la struttura stessa del brano e la sua efficacia; molti pezzi avrebbero miglior sorte e sarebbero più convincenti con diverse sforbiciate di qualche minuto, in modo da tenere la durata non oltre i 4-5 minuti al massimo. Emblematico il caso di “Song of butterflies” che ha una specie di intro che dura quasi la metà del pezzo che inizia a decollare solo dopo 3 minuti abbondanti, oppure quello di “Forever alone” che sembra letteralmente un collage fra due brani differenti di breve durata, uniti al centro da una parte strumentale di quasi un paio di minuti sostanzialmente inutile. Se, insomma, nulla si può obiettare (e ci mancherebbe, dato che Danjon ha studiato al Music Academy International di Nancy!) sulla tecnica strumentale e canora, ci sarebbe da rivedere il songwriting che risulta alla fine alquanto prolisso sacrificando l’efficacia delle singole canzoni sull’altare del auto-compiacimento del musicista. Non abbiamo ancora accennato al genere musicale suonato da Mystyc Blade: il suo è un heavy metal dai forti influssi power, con qualche inserto di sonorità orientaleggianti e neoclassiche, che tutto sommato non dispiacerebbe per niente, se solo avesse evitato di “allungare il brodo” in maniera eccessiva. Non è stato reso noto chi si sia occupato di suonare basso e batteria (immaginiamo qualche ospite o lo stesso Danjon), ma naturalmente lo strumento protagonista è la chitarra del leader, mentre gli altri sono solo da contorno per esaltare al meglio la prestazione del chitarrista. Tirando le somme, questo “The master is inside”, debut album della one-man band Mystyc Blade, ci permette di ascoltare un discreto heavy-power che sicuramente poteva essere ancora migliore; speriamo, quindi, per il futuro che Christophe Danjon presti maggiore attenzione all’efficacia dei singoli pezzi riducendone drasticamente l’eccessivo minutaggio.
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