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Opinione scritta da Ninni Cangiano

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    21 Febbraio, 2020
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Come una sorta di appuntamento fisso, eccoci a parlare dell’ennesimo live album dei Kreator, questa volta intitolato “London apocalypticon – Live at The Roundhouse”, disco che riporta il concerto fatto dalla storica band tedesca il 16.12.2018 appunto al The Roundhouse di Londra. Facendo un rapido calcolo, nell’ultimo decennio, i Kreator hanno rilasciato solo due album da studio (“Phantom antichrist” nel 2012 e “Gods of violence” nel 2017) e la bellezza di sei live album (i due “Terror prevails” nel 2010 e 2012, “Dying alive” nel 2013, “Live antichrist” nel 2017, “Live at Dynamo Open Air 1998” l’anno scorso, prima di questo qui). Sarebbe forse stato opportuno fosse il contrario, anche perchè sinceramente ci sarebbe anche da esserne stufi di registrazioni live. Certo, brani storici come “Phobia” e “Pleasure to kill” non possono mancare in ogni data live, ma nei live album se ne potrebbe ormai anche fare a meno, dato che anche in ogni disco vengono puntualmente riproposti. L’unica novità rispetto ai vari live album dell’ultimo decennio sta nel ripescaggio della meravigliosa “Awakening of the Gods”, canzone risalente allo storico primo album “Endless pain”. Ci sono poi alcuni pezzi estratti dall’ultimo lavoro in studio, fra cui cito “Fallen brother” semplicemente perchè viene dedicata agli scomparsi Vinnie Paul e Dimebag Darrel dei Pantera, nonché a Fast Eddie Clarke, Philty The Animal Taylor e Lemmy Kilmister dei Motörhead. Nulla da dire sulla registrazione, pressoché perfetta, sorvoliamo sui gridolini che ogni tanto escono a Mille Petrozza quando è lontano dal microfono, restano due parole da spendere sull’opportunità di una simile trovata commerciale. Sono un fan dei Kreator sin dai loro esordi ed attendo sempre con piacere un nuovo album da studio; altrettanto non posso più dire per i live album, dato che cominciano davvero ad essere troppi! Questa edizione viene presentata, oltre che in cd, anche in numerosi altri formati, fra cui anche un triplo-cd con la registrazione di altri due live rispettivamente in Cile ed al Masters of Rock. Il voto è la media tra quello per il contenuto (comunque un 4) e quello per l’operazione commerciale (un 2 è anche fin troppo generoso!).

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    20 Febbraio, 2020
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Gli Oniromantic nascono nel 2009 dall’incontro tra il chitarrista Andy Soresina ed il batterista Mattia Sciutti. Durante la loro carriera hanno dapprima realizzato il debut album “The white disease” nel 2012, seguito da “Eudemonic” nel 2016 e da questo “Chaos frames”, uscito a gennaio 2020 per Buil2kill Records e dotato di splendido artwork. Non conoscevo questo gruppo, così mi sono messo all’ascolto con curiosità, scoprendo che il loro sound è basato su un gothic ricco di atmosfere, su cui si innestano varie influenze, come doom, prog e qualcosa dell’indimenticabile dark wave degli anni ’80. Messa a questa maniera sicuramente qualcosa di estremamente interessante, ma non è tutto oro quello che luccica. In primis devo evidenziare che quasi tutti i pezzi hanno durate superiori ai 5 minuti, fino agli 8 di “Colourless”, durate importanti non accompagnate dall’efficacia; in alcuni casi, infatti (mi viene in mente “December” ad esempio), sembrerebbe che la band abbia cercato di “allungare il brodo”, finendo per rischiare di rendere noioso il pezzo e non semplice l’ascolto. In questi casi, ritengo molto meglio un minuto in meno ed un songwriting più efficace e diretto. C’è poi da aggiungere la voce di Mauro Mazzara che non mi ha convinto per nulla, risultando per i miei canoni troppo acuta e poco profonda. Mi spiego meglio: se non sei Robert Smith, forse è meglio evitare di cercare di somigliargli. Credo anzi che il singer riesca molto meglio nelle parti più basse e teatrali, dove la sua prestazione dà spessore ai pezzi. Forse per un genere simile avrei visto meglio un vocalist dallo stile completamente differente, più cupo e profondo, alla Andrew Eldritch magari, ma si tratta di un parere puramente personale che, in quanto tale, è ampiamente opinabile. Le atmosfere romatico-decadenti permeano tutto il lavoro, rendendolo sicuramente affascinante ed adatto a tutte le anime oscure della notte. Sono certo che gli Oniromantic abbiano tutte le carte in regola per fare meglio di così in futuro; per adesso “Chaos frames” supera l’esame, ma non va oltre la sufficienza.

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    20 Febbraio, 2020
Ultimo aggiornamento: 20 Febbraio, 2020
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Annunciato da una splendida copertina che fa pensare al mito di San Giorgio e il drago, ci accingiamo a recensire “The last knight”, settima fatica dei Serenity. Il disco è uscito a fine gennaio e mi scuso con la band se questa recensione arriva in ritardo, ma purtroppo ascoltare un disco in streaming per chi, come il sottoscritto, è quasi tutto il giorno in giro in macchina per lavoro, è decisamente complicato. Ma questa è la scelta della Napalm Records e tocca farsene una ragione. Ma veniamo al disco. 11 brani più la consueta intro (il cui traumatico distacco dalla successiva traccia spero sia solo un errore dello streaming e che su cd non ci sia) compongono l’album. Per chi segue i Serenity dall’inizio della loro carriera, sappiate che il prog-power dei primi dischi è pressoché scomparso, nel 2020 la band italo-austriaca suona un gradevolissimo power metal sinfonico. Quando poi si ha un cantante di qualità assoluta come Georg Neuhauser in formazione, tutto diventa più facile, dato che la classe di questo vocalist è qualcosa di fuori dal comune (da brividi nell’acustica posta in chiusura del disco!). Ogni tanto compare qualche parte in growling, da parte del chitarrista Chris Hermsdörfer, che ho trovato un po’ fuori posto, un inutile voglia di indurire una musica che non aveva assolutamente bisogno di questo. Il sound in generale, infatti, è molto più soft che in passato e, pur mantenendo sempre eleganza ed orecchiabilità, il ritmo è spesso meno tirato. Certo, non mancano brani frizzanti e più tosti (“Invictus” e “Wings of pride” ne sono ottimi esempi), ma è la parte più melodica a venire fuori con prepotenza. Purtroppo, tra i vari problemi dovuti allo streaming, non sono riuscito ad ascoltare come si deve l’album più e più volte, ma l’impressione che ho avuto è comunque che i Serenity con questo “The last knight” abbiano realizzato ancora una volta un gran disco, probabilmente non il migliore della loro carriera, ma sicuramente un lavoro che si ascolta con piacere e che si distingue in positivo dalla massa.

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    15 Febbraio, 2020
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In occasione del concerto tenuto al Rock’N’Roll Club di Rho (Milano) il 17 gennaio 2020, i Mesmerize hanno rilasciato il quarto capitolo della loro raccolta di pezzi, intitolato “Scrape of the barrel”. Anche questa volta troviamo qualche brano live, qualche versione particolare di canzoni della loro carriera, qualche cover e qualche nuova traccia. Partiamo proprio da queste ultime, poste in apertura di cd. “The shimmer” è una vera sorpresa, è stata registrata durante lo scorso inverno negli Octopus Studio (se non erro di proprietà del batterista Andrea Garavaglia) e si tratta di un nuovo pezzo composto interamente dal bassista Andrea Tito. Se, dopo tanti anni di silenzio, i Mesmerize dovessero ricominciare a comporre musica, spero partano proprio da questo brano, dato che si tratta di una vera e propria bomba di heavy/power; ritmata, ricca di energia, con melodie di gran gusto, un basso splendido protagonista e cantata alla grandissima (Folco Orlandini è sempre una garanzia in tal senso!), “The shimmer” ha tutto per diventare un must nei prossimi concerti dei Mesmerize. La seconda canzone inedita, invece, risale all’omonimo demotape “Tregenda”, nel quale aveva un testo interamente in italiano; successivamente fu realizzata questa versione con testo in inglese per il debut album “Tales of wonder”, ma non fu poi inserita nella scaletta; si tratta di un brano molto cadenzato ed oscuro, abbastanza lontano dallo stile attuale dei Mesmerize. La cover questa volta è dei Trust, famoso gruppo hard rock francese; il pezzo “Préfabriqués” faceva parte di un tribute album uscito per la Axe Killer Records nel 2001. Vi sono poi due brani, “It happened tomorrow” e “Overdoze” che sono pre-produzioni le quali poi finiranno, fatte le dovute migliorie, rispettivamente sul singolo “One door away” del 2007 e sull’album “Off the beaten path”. Immancabile la traccia live dal concerto di Gaggiano del 1998; questa volta c’è la meravigliosa “Hell on wheels”, forse uno dei pezzi migliori che i Mesmerize abbiano mai scritto. Chiude il disco una versione recentemente remixata dal batterista Andrea Garavaglia di “Chains of life”, presente sull’album “Vultures paradise”; la band spiega, infatti, che la versione originale non li aveva mai convinti pienamente, così l’anno scorso si è deciso di apportarle delle modifiche e remixarla interamente. L’ultimo pezzo è “Within without”, presente sull’ultimo disco in studio “Paintropy” del 2013 (troppo, troppo tempo fa ragazzi!); questa versione è stata registrata in acustico quando la band era ospite in una trasmissione di Radio Lombardia. Cos’altro aggiungere? Il desiderio di ascoltare un nuovo full-lenght dei Mesmerize è sempre più forte, soprattutto alla luce dell’ottima qualità dell’inedito “The shimmer”; nel frattempo, i fans della band potranno ingannare l’attesa più che degnamente con questo “Scrape of the barrel Vol. 4”.

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    15 Febbraio, 2020
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Lo ammetto: sono affezionato agli Athlantis, la prima band che ho recensito sulle gloriose vecchie pagine di powermetal.it, nell’ormai lontano 2003 all’epoca del loro debut album omonimo. Di conseguenza, ogni loro nuovo lavoro è per me una sorta di “dovere morale”, nel bene o nel male che tutto ciò comporta. Per mia fortuna, anche questa volta Steve Vawamas ha fatto tutto come si deve ed i vari ascolti di questo “02022020” (ispirato evidentemente dalla data palindroma) si sono sempre rivelati più che piacevoli. Lo stile della band è ormai consolidato, un heavy/power metal melodico con qualche digressione in territori hard-rockeggianti; si sente la similitudine con il sound dei Mastercastle (altra band in cui militano sia Vawamas, che il chitarrista Pier Gonella), anche se la voce roca ed aggressiva di Davide Dell’Orto (dei Drakkar) marca la differenza rispetto all’altro gruppo connotato dalla presenza di una delicata voce femminile. Ho notato con piacere il ritorno del talentuoso batterista Christian Parisi (assente proprio dal citato debut album) che ha dato il suo più che valido apporto; molto importante anche il lavoro in sottofondo del tastierista Stefano Molinari che in alcuni passaggi mi è sembrato prendere ispirazione dal maestro Simonetti. Accanto al leader Steve Vawamas ed al suo basso c’è poi Pier Gonella che, con la usa chitarra, è strumento protagonista, regalandoci parti soliste di gran gusto e tecnica; non mi soffermo ulteriormente su di lui, dato che è notorio essere tra i più talentuosi chitarristi del nostro paese. Ma veniamo alle singole canzoni. Dopo l’opener che è un discorsetto “pepato” (nell’intervista Steve ce ne spiegherà la motivazione), parte “Life in your hand” che mette subito in chiaro cosa aspettarci: ritmi frizzanti, una notevole attenzione alle parti melodiche ed energia a profusione. Questo standard rimarrà consolidato anche nel resto del disco, pur se ogni tanto il ritmo rallenterà leggermente (“Light of love” o “The fly of the eagle”, la più vicina al sound dei Mastercastle) o si strizzerà l’occhio maggiormente all’hard rock (“Dancing shadows” e “...Anche questo è rock and roll”). Il disco si chiude alla grandissima con la splendida ballad “Someday love will come my way” (in cui è ospite il chitarrista dei Ruxt Stefano Galleano, autore anche delle musiche) e con la frizzante title-track “02022020” che, per i miei gusti, è la migliore traccia del lavoro. Un ottimo suggello, quindi, per un disco decisamente convincente per una band, gli Athlantis, che sono ormai una garanzia di qualità fuori dal comune.

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    09 Febbraio, 2020
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Arrivano dall’Ohio negli USA questi Ironflame, band fondata dal singer e polistrumentista Andrew Della Cagna che, per l’occasione, usa il cognome D’Cagna. A lui si accompagnano i due chitarristi solisti Quinn Lukas e Jess Scott. “Blood red victory” è il terzo album della band, ma purtroppo non siamo in grado di fare paragoni con i suoi due predecessori, non avendo avuto la fortuna di poterli ascoltare (cercheremo di rimediare!). L’album è composto da 8 brani (finalmente un disco senza inutilissime intro!!), cui si aggiungono nella versione in cd altri due tracce come bonus tracks, che purtroppo non abbiamo avuto a disposizione per la recensione. Ma cosa suonano gli Ironflame? Il loro è un canonico heavy/power di scuola nord-europea, molto veloce e frizzante e decisamente ruffiano ed orecchiabile. I vari pezzi si lasciano ascoltare molto piacevolmente, sia perchè sono registrati davvero bene (immagino che Della Cagna non abbia avuto a disposizione un budget economico infinito, è quindi encomiabile in tal senso il lavoro fatto), ma anche perchè sono suonati e cantati in maniera eccellente. Il buon Andrew, infatti, esprime tutto il suo talento sui vari strumenti, ma anche dietro al microfono, con una voce espressiva e squillante, dimostrando di saper adattare la propria prestazione a seconda delle necessità del singolo componimento. Anche il songwriting è bello compatto, con brani che si assestano tutti quanti tra i 4 ed i 5 minuti di durata, senza avere inutili fronzoli ed orpelli, ma badando solo al sodo ed all’efficacia. Grazie a tutte queste qualità, “Blood red victory” è sicuramente piacevole e non è stato assolutamente uno sforzo dedicarsi ad ascoltarlo ripetutamente. Certo, non è qui da ricercare l’originalità o l’innovazione, qui c’è solo tanta passione ed energia, oltre ad un gusto notevole per le melodie. Promuovo quindi gli Ironflame e mi metto alla ricerca dei loro precedenti lavori. Se vi piace questo genere musicale, date loro una chance!

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    08 Febbraio, 2020
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Gli Hounds nascono nel 2016 come cover band dei Savatage, per iniziativa di Massimo Ventura, Marco De Fabianis ed Enrico Cairola; solo successivamente, con l’ingresso degli altri 2 membri, nasce l’idea di creare musica propria, principalmente ispirata dagli stessi Savatage ed in genere dal power americano, ma anche dall’hard rock (aggiungo io), soprattutto dei primi Guns’n’Roses. Dopo l’EP omonimo, uscito nel 2017, arriva la firma per la Punishment 18 Records ed, a fine gennaio, il rilascio del debut album, intitolato “Warrior of sun”, dotato di un artwork non proprio esaltante. Altrettanto non esaltanti purtroppo sono stati i vari ascolti che ho dovuto dare a questo lavoro, composto da 8 pezzi, cui si aggiunge la solita inutilissima intro. Tralasciando il discorso sulla poca originalità della proposta musicale (obiettivamente in tanti hanno suonato questo tipo di metal prima degli Hounds), mi addentro su quelli che ritengo siano stati i motivi della mia delusione. In primis la voce di Massimo Ventura, sporca ed acida (e fin qui ci potrebbe anche stare, se non fosse che per certo metal trovo meglio un’ugola acuta e pulita), ma soprattutto abbastanza monotona, nel senso che non si fa notare per varietà ed espressività, ma si limita ad urlare tutta la propria rabbia e, quando cerca di essere più pacata (tipo in “Hero’s fate”), non convince né conquista. C’è poi la registrazione che mi è sembrata un po’ troppo cupa ed old-style; probabilmente si poteva fare meglio, magari con qualcosa di più attuale. Di positivo, ho trovato le parti soliste delle due chitarre ed anche il lavoro del basso che, come questo genere richiede, non si limita ad un ruolo di accompagnamento, ma è spesso piacevole protagonista. Le qualità ed il talento insomma si intravedono appena, la passione è evidente e magari in futuro, con un cantante differente, gli Hounds potranno far sicuramente meglio di così. Per ora, infatti, non credo siano in grado di raggiungere la sufficienza e questo “Warrior of sun” non è stato in grado di farsi ascoltare piacevolmente.

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    07 Febbraio, 2020
Ultimo aggiornamento: 07 Febbraio, 2020
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I Serious Black probabilmente sono ricordati dai più per il fatto che sono stati fondati da Roland Grapow (Masterplan ed ex-Helloween) assieme a Mario Lochert (ex-Vision of Atlantis) nel backstage di un festival spagnolo nell’estate del 2013. Dopo il debut album “As daylight breaks” del 2015, Roland lasciò il gruppo che invece è stato portato avanti da Mario, assieme a Dominik Sebastian (chitarrista degli Edenbridge, tra gli altri) ed Urban Breed (ex-Bloodbound e Tad Morose, tra gli altri), cui si è aggiungo da un paio d’anni il batterista Ramy Ali (ex-Freedom Call, tra gli altri). Con questa formazione a fine gennaio è stato pubblicato da AFM Records il quinto album della band, intitolato “Suite 226” e composto da 10 canzoni (finalmente un disco senza inutilissime intro!!!). Il sound dei Serious Black è pressoché rimasto invariato, con il classico power metal di scuola nord-europea (Gamma Ray e Freedom Call in primis) che strizza l’occhio ogni tanto (non troppo per fortuna) all’hard rock, un po’ come fanno da tempo gli Edguy. Niente di originale quindi, tutto sommato però comunque poco più di ¾ d’ora di musica orecchiabile e godibile, suonata bene, cantata altrettanto validamente (Urban Breed è una garanzia in tal senso!) e registrata ottimamente. Alla fin fine, quello che si cerca quando si va ad ascoltare un disco è di trovare musica piacevole, in grado di suscitare in noi emozioni positive e gradevoli ed è esattamente quello che succede in questo caso, con buona pace dei maniaci dell’originalità che non troveranno in questo lavoro ciò che agognano. Canzoni che funzionano in questo album ce ne sono diverse, partendo dalla fine con la lunga suite conclusiva che dà il titolo al full-lenght, passando per le frizzanti “We still stand tall” o “Way back home”, come anche “When the stars are right” o l’opener “Let me go” (scelta anche per un video). Certo non tutti i pezzi funzionano alla stessa maniera ed ogni tanto il songwriting è un po’ più debole e ripetitivo (“Fate of all humanity” e la lenta “Come home” sono obiettivamente un gradino sotto gli altri) L’intento dei Serious Black però, sin dalla loro creazione, è stato quello di comporre musica power metal melodica ed anche in questo “Suite 226” ci sono riusciti sicuramente; non abbiamo davanti un disco che passerà alla storia o che faccia gridare al miracolo, ma un discreto lavoro che i fans del power più melodico potranno apprezzare.

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    07 Febbraio, 2020
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Sono passati 8 anni dal discreto “386 High Street North: Come Back To Eternity” e tornano i friulani Revoltons con il loro quinto full-lenght che è un tributo alla loro terra natia (sono del Vajont) ed alla tragedia che la colpì il 9 ottobre 1963, quando la diga tracimò a causa di una frana investendo il paese sottostante. Per farlo sono andati a scomodare il loro capolavoro, “Underwater bells” del 2009, di cui questo disco vuole essere un’ideale seguito con il titolo “Underwater Bells Pt.2: October 9th 1963 – Act 1”. Notevole anche l’artwork realizzato dall’artista Simone Zimon Sut. E’ anche il primo disco senza lo storico singer Andro (uscito dalla band lo scorso anno), ottimamente sostituito da Andrea Csàszàr (che usa il nome d’arte Andras Csaszar), dotato di voce più pulita e squillante, credo anche più adatta allo stile heavy-power della band. Questo nuovo capitolo della carriera dei Revoltons si lascia ascoltare più che gradevolmente, ma soffre di un songwriting che alterna pezzi eccezionali (l’accoppiata iniziale “Danger silence control“, di cui è stato realizzato un lyric video, e “The stars of the night before” è semplicemente strepitosa!), ad altri un gradino sotto a livello qualitativo (soprattutto nella parte centrale). Questi ultimi, sarà per il pathos e la drammaticità che vogliono trasmettere visto ciò che descrivono (parlano appunto del momento della tragedia), ma non hanno lo stesso “tiro” e la stessa energia e violenza dei brani migliori. Anche nella parte finale del disco, ritroviamo grandissime tracce che risollevano le sorti del disco, come ad esempio “The powerless wrath” e “Criminal organism”, o la strumentale conclusiva “Through the years”. Da segnalare, inoltre, la presenza di Blaze Bayley sulla suite “Grandmasters of death “. Personalmente avrei evitato quelle backing vocals in growling (degno del brutal più estremo) che compaiono ogni tanto e trovo non c’entrino nulla con il contesto; ma si tratta di gusti puramente personali e, come tali, ampiamente opinabili. Resta comunque il fatto che i Revoltons sono tornati con un disco sicuramente migliore del suo predecessore, un disco che vuole raccontare una storia, una tragedia che ha segnato non solo le popolazioni della zona, ma tutta l’Italia e già solo per questo “Underwater Bells Pt.2: October 9th 1963 – Act 1” merita rispetto e considerazione; se poi ci aggiungiamo che alcune canzoni sono semplicemente fantastiche, capirete perchè l’esame è ampiamente superato.

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    02 Febbraio, 2020
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I Ravenword nascono nel 2007 a Milano per iniziativa del tastierista Davide Scuteri; il nome della band è ispirato dal racconto “Il corvo” di Edgar Allan Poe. Dopo diversi anni di attività, nel 2016 la formazione viene completata con l’ingresso del grande Michele Olmi alla batteria (ormai uno dei migliori batteristi in assoluto sulla scena italiana ed internazionale), il polistrumentista Cesare Ferrari e la cantante Chiara Tricarico. Grazie a Rockshots Records, la band sforna a fine gennaio il proprio debut album, intitolato “Transcendence”, con splendido artwork di chiara ispirazione gotica. Ma cosa suonano i Ravenword? Il loro è un symphonic melodic metal, con qualche atmosfera tipica del gothic e la voce femminile che spesso e volentieri si diletta (purtroppo) in liricismi e gorgheggi. Quel “purtroppo” non è dovuto ad un eventuale incapacità della Tricarico, tutt’altro! La cantante lombarda infatti ha notevoli qualità ma, a mio parere, canta addirittura meglio quando non si va a cacciare nella lirica; oltretutto, in un panorama inflazionato come quello delle female fronted symphonic metal band, avere una singer che evita di rincorrere i liricismi più arditi potrebbe essere una carta vincente per distinguersi dalla massa. Fortunatamente non sempre la Tricarico si tuffa nella lirica, ma molto spesso ci delizia con la sua voce “normale”. Il disco, infatti, inizia benissimo, con canzoni splendide come l’opener “Blue roses” o la seguente “Life is in your hands” (ma saranno parecchie le tracce valide nel corso dell’album!); è con la lunga “Purity” che si affacciano pericolosamente le parti liriche che appesantiscono un pezzo lungo, zavorrato anche dal non proprio orecchiabile cantato in italiano. Il disco è davvero ben fatto, Cesare Ferrari dimostra di saperci fare alla grande sia con la chitarra che con il basso, dando pari importanza ad entrambi gli strumenti, il leader Davide Scuteri intesse trame sinfoniche molto interessanti, mentre Michele Olmi connota il tutto con il suo inconfondibile drumming, potente e poliedrico. A voler essere pignoli, forse ci sono troppi pezzi con minutaggio “importante“ (quasi la metà si assesta sopra i 6 minuti) e magari qualche sforbiciata qua e là avrebbe giovato alla fruibilità del prodotto. Nonostante ciò, questo disco mette in mostra una band dalle grandi potenzialità che, con piccoli accorgimenti, potrebbe essere in grado la prossima volta di sfornare un album strepitoso. Già adesso siamo comunque su livelli non comuni di eccellenza, dato che ho ascoltato più e più volte questo “Transcendence” con grande piacere, aspetto i Ravenword al prossimo appuntamento, certo che sapranno far ancora meglio!

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