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Opinione scritta da Daniele Ogre

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3.5
Opinione inserita da Daniele Ogre    18 Gennaio, 2019
#1 recensione  -  

Non è semplice rimanere sempre costanti e sulla cresta dell'onda quando hai una carriera lunga ormai 30 anni e lo sa bene Phil Fasciana, da tre decadi alla guida dei Malevolent Creation, Death Metal band statunitense da considerare sicuramente tra le leggende del genere, capace di sapersi inventare ogni qual volta si denota un minimo calo. Per usare un termine cinematografico, il nuovo reboot dei Malevolent Creation lo si è avuto nel 2017 con la line up totalmente rinnovata: rimasto il solo Fasciana, ha chiamato a sé tre nuovi musicisti, ossia il cantante/chitarrista sudafricano Lee Wollenschlaeger, il bassista Josh Gibbs ed il batterista Philip Cancilia. In tal modo Fasciana ha anche preso un mano quasi in esclusiva il songwriting della band, con risultati che possiamo sentire in questa loro tredicesima fatica chiamata non a caso "The 13th Beast". Col chitarrista e fondatore alla guida del processo di scrittura - coadiuvato da Wollenschlaeger -, il sound dei Malevolent Creation si fa più lineare rispetto al passato, con quel Death Metal che ce li ha fatti conoscere a cavallo tra lo stile floridiano e quello più brutale, per certi versi, di NY, in cui è sempre riconoscibile quella venatura slayeriana che da sempre contraddistingue soprattutto le chitarre dei nostri. C'è da dire che "The 13th Beast" si presenta con quella che è probabilmente la copertina più brutta nella trentennale carriera dei Malevolent Creation, ma anche che fortunatamente questo è il solo unico punto negativo di quest'opera, dato che l'album riesce a scorrere in maniera abbastanza fluida, con la sola "Born of Pain" che avrebbe avuto bisogno di una piccola sforbiciata a momenti che sembrano essere quasi dei semplici riempitivi; per il resto funziona tutto, specie nei brano dalla durata più breve, in cui i Malevolent Creation concentrano tutta la loro furia distruttiva, grazie anche al buon affiatamento delle tre new entries con il vecchio leader. E riguardo questo, da menzionare la buona prova dietro al microfono di mr. Wollenschlaeger, col suo growl duro ma anche ben comprensibile - che il nostro sia ispirato principalmente dal buon Peter dei Vader? -.
"The 13th Beast" non è un disco destinato ad entrare nell'Olimpo del Death Metal, ma nonostante ciò è comunque un album che non sfigura rispetto alle altre release del colosso statunitense. I fans dei Malevolent Creation potranno procurarsi questa loro ultima fatica senza patema alcuno, visto che di sicuro non ne rimarranno delusi affatto.

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4.0
Opinione inserita da Daniele Ogre    17 Gennaio, 2019
#1 recensione  -  

Compito non semplice quello degli americani Cognitive, chiamati a far meglio - o quanto meno rimanere sullo stesso piano - del loro secondo album, "Deformity"; e ci provano con questa loro terza fatica a nome "Matricide", secondo album sotto le insegne di Unique Leader Records. Ed alla fine, "Matricide" è tra le migliori uscite della scorsa annata per la label americana.

Il quintetto del New Jersey si presenta ai nastri di partenza con un nuovo drummer - Armen Koroghlian al posto dello storico Mike Castro - ed un nuovo vocalist - Shane Jost al posto di Jorel Hart -, ma a parte questo cambia poco: la proposta dei Cognitive è sempre un Technical Death moderno, in cui alle influenze dei 'soliti' Suffocation e Dying Fetus si appaiano aperture più moderne, per l'appunto, figlie dei vari Job for a Cowboy o Thy Art is Murder. Troviamo dunque un buon gusto per la melodia nel lavoro dei Cognitive, così come è presente un groove incisivo, il tutto ad intersecarsi con violente bordate brutali in cui i nostri si lanciano a briglia sciolta. Questa varietà sonora permette di tenere sempre alta l'attenzione durante l'ascolto di questo disco e dei suoi 40 minuti di durata; un disco in cui i Cognitive non concedono un singolo attimo di respiro, partendo a tutta già dall'opener "Omnicide" e togliendo il piede dall'acceleratore solo al termine di "Denouement": nel frattempo i nostri passano da vere e proprie cannonate come la title-track o per la maggiormente 'deathcoregiante' "With Reckless Abandon". Una menzione a parte la meritano i due neo-entrati, con Koroghlian che si dimostra essere lo schiacciasassi di cui i Cognitive hanno bisogno e con Jost che risulta essere il vocalist azzeccato per la proposta dell band statunitense, in virtù del fatto di provenire dal Deathcore.

Probabilmente quello dei Cognitive è un lavoro - ed uno stile - che potrà piacere maggiormente agli amanti della sfera più nuova del Death Metal; quello che abbiamo con loro non è un Technical Death tout court, data la massiccia presenza di groove, melodie e breakdown tipicamente -core. Ma d'altra parte non mancano ovviamente momenti più estremi e diretti: ed è proprio questa eterogeneità a rendere il lavoro dei Cognitive così interessante.

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2.0
Opinione inserita da Daniele Ogre    16 Gennaio, 2019
#1 recensione  -  

Negli anni scorsi il nome dei tedeschi Deathrite era accostabile ad un Death Metal senza compromessi che, figlio di influenze derivanti dall'old school Swedish Death e dal Grind, avevo il proprio punto di forza in una ferocia d'esecuzione che pochi potevano pareggiare in Europa. Il buon lavoro svolto negli anni ha portato i Deathrite sotto l'egida niente meno che di Century Media... ma il problema è che forse questa è l'unica buona notizia, visto che questo loro nuovo album, "Nightmares Reign", ci restituisce una band mutata. E non so quanto in meglio.

I Deathrite dell'Anno Domini 2018 infatti hanno abbandonato la ferocia dei primi lavori, facendo fuori fondamentalmente quello che era il loro marchio di fabbrica. E' un approccio molto più vicino ai vari Celtic Frost e Hellhammer quello che troviamo in questo loro quarto disco - e non solo per i ripetuti "UH!", come nelle prime due tracce "When Nightmares Reign" e "Appetite for Murder" -. Il sound di fa più cupo, le ritmiche più 'vintage' andando per l'appunto a prendere spunto dal Thrash/Black di metà 80's, ma col cambio di stile sembra che i Deathrite abbiano perso in efficacia: in "Nightmares Reign" manca del tutto il mordente, quasi come se la band teutonica si stesse ancora abituando alla nuova direzione. Il risultato finale è un disco che magari potrebbe destare l'interesse dei fans di Tom G. Warrior e soci, ma nemmeno più di tanto: non si fa in tempo ad arrivare a metà disco, che già con la quarta traccia sopraggiunge un senso di noia abbastanza elevato. Figuratevi come dev'essere stato doverlo ascoltare più volte...

"Nightmares Reign" è semplicemente un album che non funziona: i brani annoiano tutti, compresa la più breve "Bloodlust". Senza contare che ognuno dei pezzi assomiglia fin troppo agli altri, tanto che se non fosse per le durate diverse quasi non ci si accorgerebbe della differenza. I Deathrite dovranno in futuro aggiustare alcune cose, altrimenti ci ritroveremo definitivamente con una band che ha gettato alle ortiche un grandissimo potenziale. Speriamo per il futuro e che questo "Nightmares Reign" possa essere solo un incidente di percorso.

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4.5
Opinione inserita da Daniele Ogre    16 Gennaio, 2019
#1 recensione  -  

I francesi Gorod sono uno di quei gruppi dei quali, se siete amanti del Death più tecnico e dalle tinte progressive, è praticamente impossibile farne a meno. Attivi dapprima dal 1997 al 2005 col nome Gorgasm, i nostri hanno cambiato il monicker nel 2005 in concomitanza con l'album "Neurotripsicks" per evitare confusione con la celeberrima band statunitense. Da allora, guidata dal chitarrista Mathieu Pascal e dal bassista Benoit Claus - quest'ultimo recentemente entrato nella line-up dei The Great Old Ones -, la band transalpina ha pubblicato sei album (e due EP), di cui "Æthra" è l'ultimo.

Uscito lo scorso ottobre su Overpowered Records, "Æthra" segue di tre anni il buonissimo "A Maze of Recycled Creeds", proseguendone perfettamente il percorso. Nel corso degli anni i Gorod hanno sicuramente 'ammorbidito' le loro sonorità, spingendosi man mano in questo Death dai fortissimi connotati Progressive che possiamo ascoltare oggi - cosa che ha portato loro anche diverse critiche -; ed è proprio da lì che ripartono i Gorod, con un album estremamente tecnico e duro, ma che sa dare le giuste atmosfere e sa ammorbidirsi dove deve, dimostrando un dinamismo enorme oltre che una maturità stilistica innegabile. I nostri sono riusciti anche ad affinare la propria tecnica ed a perfezionare il proprio songwriting: rispetto al passato anche più recente, i brani che compongono "Æthra" risultano essere decisamente più fluidi e scorrevoli, senza che si abbia quella sensazione di spezzettatura tra le ottime parti ipertecniche e le sfuriate più marcatamente Death; esempio di ciò lo possiamo ritrovare sicuramente nella doppietta di pezzi "The Sentry" + "Hina", perfetto sunto di quanto, nonostante i Gorod siano attivi da un ventennio - contando anche gli anni precedenti al cambio di nome, ovviamente - siano una band ancora in evoluzione.

"Æthra" sembra essere un passo decisivo nella carriera dei Gorod: il disco gode di un songwriting estremamente maturo ed incredibilmente preciso, cui segue un'esecuzione dei brani chirurgica. Aiuta anche una produzione potente e cristallina che permette di godersi ogni attimo dei quasi 3/4 d'ora dell'album, nella sua più minima sfaccettatura. Le similitudini con gruppi come Obscura e Beyond Creation - l'incipit di "Bekhten's Curse" ricorda quello di "Algorythm" dei canadesi - sono ovviamente tante, ed è infatti ai fans del Progressive Death nella più pura accezione del termine che quest'ultima opera del quintetto francese è più che consigliata.

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4.0
Opinione inserita da Daniele Ogre    16 Gennaio, 2019
#1 recensione  -  

Non è mai semplicissimo riuscire a destare un enorme interesse alla propria primissima uscita, soprattutto nel caso si tratti di un EP; ci sono però ovviamente le eccezioni, ed i parigini Geostygma rientrano in pieno in questa categoria grazie al loro "The Die is Cast". Bastano 20 minuti di un Death ipertecnico al quintetto transalpino per mettere tutte le loro carte in tavola, con un lavoro scritto ed eseguito egregiamente, supportato da una produzione a dir poco ottima. Ciò che colpisce da subito è la tecnica individuale di ognuno dei musicisti coinvolti, capaci di passare da un Death più roccioso a lunghi passaggi progressivi con estrema naturalezza, passando anche per fraseggi Jazz/Fusion à a Cynic o Atheist - è il caso dell'opener "Enqweentine 2.0" -. Partono da questa traccia di Geostygma e non si fermano più fino alla conclusione dell'EP, passando per le buonissime "Fanatic's Chant" e la conclusiva "Formatted Brain", ma soprattutto per "Withering Breath", pezzo a dir poco clamoroso, tra spettacolari intuizioni prog, sfuriate feroci ed un finale spezzacollo in cui i nostri non fanno mancare il loro 'tocco'. Con intricati arabeschi chitarristici ed una sezione ritmica pressoché perfetta - il tutto condito dal buonissimo lavoro al microfono di Kevin Lopez -, i Geostygma ci regalano un lavoro dal sound sì complesso ma anche perfettamente comprensibile, facendo sì che i nostri si presentino al pubblico con un biglietto da visita decisamente di tutto rispetto.

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Opinione inserita da Daniele Ogre    13 Gennaio, 2019
#1 recensione  -  

Era il 2013 quando una Death Metal band tedesca a nome Sulphur Aeon faceva conoscere il proprio nome con un esaltante debut album, "Swallowed by the Ocean's Tide", disco in cui gli abissi degli scritti lovecraftiani trovavano nuova valvola di sfogo grazie a questa band nata relativamente da poco; passano poi due anni prima che i Sulphue Aeon confermino quanto di buono fatto col debutto con l'altrettanto ottimo "Gateway to the Antisphere": l'orrore e la pazzia di Lovecraft ancora una volta trova terreno fertile nella musica della band teutonica, che con quest'album richiede già definitivamente il proprio spazio di fianco agli australiani Portal, seppur con uno stile diverso. Il Blackened Death dei Sulphur Aeon è votato all'assalto totale, traendo ispirazione da gruppi quali Immolation ed Incantation. E' quindi con estrema fiducia che ci si è avvicinati a "The Scythe of Cosmic Chaos", terzo lavoro su lunga distanza della band fondata per volere del cantante M. e del chitarrista/bassista T.: e ci siamo ritrovati con una band che non ha voluto sedersi sugli allori, ma è mutata per il cosiddetto "bene superiore" - o "Male superiore" in questo caso. C'è più attenzione alle melodie in questo nuovo lavoro dei Sulphur Aeon, ma soprattutto una conversione verso un lato più doom, per così dire, con un occhio di riguardo che viene dato in primis alle atmosfere oniriche degli scritti del Solitario di Providence. In "The Scythe...", infatti, è proprio il lato più atmosferico del sound dei nostri a trovare un maggiore spazio, riuscendo a dare all'ascoltatore stesso quella sensazione di tensione crescente che si ha nel leggere i racconti di HPL. Ogni cosa in questo disco è scritto ed eseguito con precisione chirugica, senza che la minima cosa non vada a finire precisamente al proprio posto; un paio di esempi possono esser presi subito da "The Summoning of Nyarlathotep", le cui intricate melodie del solo sono un briciolo di boccata d'aria dopo il claustrofobico orrore che pervade il brano, così come la seguente "Veneration of the Lunar Orb", in cui troviamo la summa dei Sulphur Aeon in tutti questi anni. Ma è con la più lunga - ma estremamente affascinante - "Sinister Sea Sabbath" che i Sulphur Aeon calano il proprio asso: un brano che proprio grazie alla sua lunga durata - nove minuti e mezzo circa - ci permette di vedere il quintetto tedesco spargere la propria venefica luce tra cupe atmosfere e taglienti accelerate.
E' cosa nota che il terzo album è quasi sempre il più importante per una band, specie dopo che i primi due sono entrambi di ottima fattura. Ebbene, con "The Scythe..." i Sulphur Aeon mostrano come la loro ascesa non si è minimamente fermata ed anzi sono riusciti a portare all'interno della propria proposta nuove soluzione che permettono loro di evolversi ulteriormente e di tirare fuori un lavoro che non solo è la definitiva conferma della bontà della loro proposta, ma che in un'analisi finale possiamo definire come il miglior lavoro dei nostri fino ad oggi. E ho come l'impressione che non sia ancora tutto qui, visto che dopo un lavoro simile è lecito aspettarsi ancora di più dai Sulphur Aeon. E difficilmente i nostri sapranno deluderci.

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Opinione inserita da Daniele Ogre    13 Gennaio, 2019
Ultimo aggiornamento: 03 Febbraio, 2019
#1 recensione  -  

"Across the Human Path" segna l'esordio discografico dei parmensi Bölthorn, band formatasi due anni fa per volere del polistrumentista Ironcross, cui si aggiungeranno poi il cantante Drake ed il chitarrista Röb. Tralasciando la solita inutile (per me) Intro, dai primi secondi di "Sentinel" si riconoscono le coordinate intraprese dai nostri, fautori di un Viking/Death Metal fortemente devoto a gruppi quali Amon Amarth (soprattutto), Unleashed e Månegarm, con sonorità che, alla fine dei conti, possiamo definire estremamente derivative. Eppure "Across the Human Path" è un disco il cui ascolto procede nonostante tutto spedito, grazie alla passione del trio emiliano ed alla dovizia con cui hanno eseguito gli insegnamenti dei gruppi succitati; una passione che dunque permette di passare oltre ad una (si spera attuale) mancanza di personalità, grazie anche a brani che fanno a pieno il loro dovere come ad esempio la già citata "Sentinel" che trova il proprio punto di forza in un refrain con clean vocals che non poco ricordano quelle di Vratyas Vakyas dei leggendari Falkenbach (semplicemente la miglior band Viking Metal al mondo, non cosa da poco), cosa che possiamo riscontrare anche in "Midgaard", così come colpiscono la malinconica quanto epica "Warriors" e l'altrettanto ottima "Curse of Time". risultano invece sì interessanti ma senza esser per nulla memorabili brani come "The Lair of Beast" o, soprattutto a mio avviso, "For Honor": sarebbe un buon brano se non fosse così troppo marcatamente 'amonamarthiano' (più di tutti gli altri, almeno).
I Bölthorn non ci portano assolutamente nulla di nuovo, ma va comunque apprezzata la passione che ci mettono in quello che fanno; se siete amanti del Viking, più precisamente degli Amon Amarth della seconda metà della prima decade degli anni 2000, allora con il trio parmense potreste facilmente trovare pane per i vostri denti.

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Opinione inserita da Daniele Ogre    11 Gennaio, 2019
#1 recensione  -  

Attivi da poco più di 10 anni, con svariati demo sulle spalle ed un debutto datato 2016, "We Rot Within", arrivano a pubblicare il secondo album i finlandesi Refusal: "Epitome of Void", edito da Great Dane Records. Una mezz'ora circa di Death Metal fortemente devoto alla vecchia scuola svedese, con quelle sfuriate tra il Death ed il Punk'n'Roll che ha fatto le fortune dei vari Dismember, Entombed, Evocation... e più recentemente dei nostri Coffin Birth. E sono proprio questi ultimi il termine di paragone perfetto per il quintetto finlandese: tanto per sonorità quanto per la produzione è facile trovare similitudini tra loro ed il supergruppo italo-maltese. Poco più di trenta minuti di riff taglienti e roccioso e di sezione ritmica incessantemente martellante, in un vortice di violenza sonora in cui i Refusal si muovono totalmente a loro agio, tra sfuriate assassine, up-tempos spaccacollo e pesantissimi rallentamenti, il tutto a fare da perfetto tappeto all'ottima prestazione vocale di Niikka Lius. Pezzi come l'opening track "Suffocate" o ancora "Disgust", "Slaves" e "Bound" sono un vero e proprio manifesto delle intenzioni dei nostri di non voler fare prigionieri da parte di una band il cui affiatamento è ampiamente conclamato dalla prestigiosa prestazione in questo disco - quattro componenti su cinque sono insieme dalla fondazione della band -.
Se avete recentemente apprezzato l'ottimo lavoro dei Coffin Birth e, più in generale, siete soliti ascoltare questo particolare stile di Death Metal, allora i Refusal potranno essere per voi una piacevolissima scoperta. "Epitome of Void" è, per chi vi scrive, un disco ampiamente promosso e la prima grande sorpresa di questo 2019.

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Opinione inserita da Daniele Ogre    11 Gennaio, 2019
#1 recensione  -  

Abbiamo già incontrato due anni fa i tedeschi Nailed to Obscurity, rimanendo favorevolmente colpiti dall'album "King Delusion": c'era tanto di buono in quell'album e si prospettava un buon futuro per il quintetto teutonico, a patto che mettessero più del 'loro' nel sound, troppo legato agli Opeth del medio periodo. Ebbene, futuro radioso è stato visto che i NtO hanno lasciato l'Apostasy Records per accasarsi niente meno che sotto lo stendardo di Nuclear Blast! La band si avvale quindi di una produzione praticamente perfetta e la loro quarta fatica, "Black Frost", è un album tutt'altro che brutto... ma ancora una volta le sonorità dei nostri sono totalmente devote agli Opeth della prima metà degli anni 2000. Prendete uno qualsiasi degli album da "Blackwater Park" a "Ghost Reveries", confrontatelo con quanto possiamo ascoltare in "Black Frost" dei NtO e vi accorgerete come la band tedesca non sia riuscita nemmeno lontanamente a scrollarsi di dosso lo spettro del colosso svedese. E questo è davvero un gran peccato, perché appunto i Nailed to Obscurity non suonano affatto male, il vocalist Raimund Ennenga si dimostra a proprio agio sia con un growl cavernoso che con espressive clean vocals, dandoci sette brani che presi singolarmente sono tutti di pregevole fattura... Ma per l'appunto, più si va avanti più si ha la sensazione di ascoltare un giovane clone della ben più nota band scandinava.
I Nailed to Obscurity hanno in passato dimostrato un grandissimo potenziale che sarebbe dovuto esplodere definitivamente adesso, con il passaggio a Nuclear Blast. Potenzialità che invece sono rimaste in parte inespresse per via di un lavoro che sa troppo di derivativo, cosa che alla fine porta ad una mezza delusione: "Black Frost" meno della sufficienza non merita ed è appunto il voto che si porta a casa, ma era lecito aspettarsi molto di più.

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Opinione inserita da Daniele Ogre    10 Gennaio, 2019
#1 recensione  -  

Provenienti da Kolbotn - la città d'origine dei Darkthrone - i death metallers Obliteration sono arrivati alla pubblicazione del loro quarto album con questo "Cenotaph Obscure", edito dalla label loro connazionale Indie Recordings, confermando ulteriormente quanto di loro è stato detto e scritto dagli addetti ai lavori in passato. Se agli esordi i nostri erano palesemente disciplinati alunni di maestri come Autopsy et similia, gli obliteration di oggi hanno il loro modo avanguardistico di vedere il Death Metal: hanno sostanzialmente tenuto come base quel Death old school marcio e duro come ossidiana, ma nel contempo il loro sound si è col tempo evoluto in qualcosa di totalmente spiazzante in cui possiamo ritrovare follie progressive à la Pestilence o passaggi schizoidi che possono ricordare i Morbus Chron - band che per inciso vi suggerisco di spizzare qualora non lo conosciate -. Con "Cenotaph Obscure" gli Obliteration toccano una nuova vetta in quanto a maturità stilistica, mettendo sul piatto un disco privo di qualsivoglia punto debole, con una varietà di stili che s'intersecano alla perfezione tra loro: si va dalla più 'classica' title-track che apre il disco alla psicotica "Tumulus of Ancient Bones" arrivando poi, dopo l'inquietante breve strumentale "Orb", a "Eldritch Summoning" che è invece la summa dei due brani precedenti, con sprazzi - soprattutto nella parte centrale - di Death/Black su cui sembra averci messo mano il drummer Kristian Valbo, date le assonanze con il suo solo-project Void Eater. Colpiscono poi il feeling delle due asce Sindre Solem ed Arild Myren Torp - insieme anche nei Nekromantheon - e la perfetta prova vocale dello stesso Solem, una garanzia sia con cavernose growlin' vocals che folli - ed altamente teatrali - urla. Detto che la sola "Eldritch Summoning" vale da sola l'acquisto del disco e che anche i restanti tre brani non sono affatto da meno (con un occhio di riguardo a "Detestation Rite"), c'è da aggiungere anche che appare decisamente azzeccata la scelta degli Obliteration di non sforare i 40 minuti di durata, mantenendo "Cenotaph Obscure" nei limiti di quanto è accettabile in quest'ambito (dischi più lunghi alla lunga possono stancare nella seconda metà).
Dopo 25 anni di carriera possiamo ben affermare che gli Obliteration si sono fatti grandi: non c'è più bisogno di accostarli a qualche altro gruppo, visto che il loro sound è ormai un marchio di fabbrica, riconoscibile al primo ascolto e riconducibile immediatamente a loro. E questa è una cosa in cui solo i grandi gruppi riescono.

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