Essendo un fan dei Motorhead sin dal lontano 1980 potete solo lontanamente immaginare quale sorta di “ansia” abbia creato in me la calata in Italia di Phil Campbell e dei suoi tre figli bastardi assieme al cantante Neil Starr. Fortunatamente tutto è andato per il meglio e così ecco il resoconto di una fantastica serata. Ero pronto a pagare il biglietto d’ingresso come faccio per tutti i concerti che mi interessano ma grazie all’Eagle Booking, agenzia organizzatrice della serata al Campus Industy Music di Parma assieme a Campus Industry Music e Titty Twister, e dell’altra data al Druso Club - Ranica (BG), ho avuto la possibilità di avere un accredito e, come sa chi mi conosce bene, in questi casi è garantito il live report dell’intera serata. Arrivo ed entro in un locale ancora semideserto. Il tempo di scambiare poche impressioni con Mattia e Alessandro, chitarra e voce dei Beggars On Highway che sono giustamente tesi, salutare qualche faccia nota, e poi comincia il mio “lavoro”. Proprio i Beggars on Highway, da Parma, sono il primo gruppo a salire sul palco.
Lo show comincia con “Soap Maker Woman”, un classico che non può mancare, e prosegue con l’omonima “Beggars on Highway”. I suoni sono da subito nitidi e questo gioca a favore sia del gruppo che del locale (ampio e accogliente). Poche le canzoni in scaletta ma il gruppo si esprime ad un buon livello anche se la tensione è palpabile. Avendoli visti altre cinque volte so di cosa sono capaci e come suonano. Sudore, Hard Rock e Metal, sono gli ingredienti di un set che vede l’anthem “Drunk Tonight” chiudere la prestazione. Naturalmente, durante il pezzo, Mattia non ha rinunciato a scendere in mezzo al pubblico come fa sempre, continuando a suonare la suonare la chitarra. Il feeling al pubblico è arrivato e i Beggars On Highway hanno assolto il loro compito come era logico aspettarsi da musicisti che calcano il palco da un bel po’ di tempo; basti pensare al bassista Dimitri Corradini che suona anche nei Distruzione. Breve sosta e chiacchiere in quantità, era da un pezzo che non salutavo così tanta gente, fatte In un Campus che si andava man mano riempiendo con volti noti, vecchi e nuovi, che cominciavano ad intrecciare aneddoti. Salgono sul palco i Chained.
Il gruppo è noto come tribute band degli Alice In Chains ma è in procinto di pubblicare un C.D. con brani propri così, non conoscendo il quintetto non so cosa aspettarmi. Una formazione giovane con due chitarristi che potrebbero essere i miei figli; o Dio i due terzi dei musicisti della serata potrebbe esserlo, che fa sfoggio di una buona padronanza strumentale. Il genere è ascrivibile a certo “alternative” moderno contaminato ma, per semplificare le cose e renderle più chiare, si potrebbe dire che Chained suonano Heavy Rock. Dal palco arriva una buona “pacca” con suoni bilanciati che si sentono anche se chi ascolta è al lato dello stesso. Il cantante Alberto Stagni cerca di caricare i presenti che, alla fine dei pezzi, rispondono con applausi e si sa; con le band di apertura non è una cosa scontata. I chitarristi Alberto Bottioni e Luca Pettenati sembrano invece concentrati sui loro strumenti. Le canzoni scorrono via veloci senza troppi fronzoli ma, d’altra parte, il tempo è tiranno per/con tutti i gruppi. Dopo i Chained nuovo giro, nuove chiacchiere tra “vecchi “ Motorheadbangers (grazie Gioppa e Massimo) e salgono sul palco i Racket.
Il quintetto è improntato ad un suono Heavy classico e il cantante Stefano Mini, già nei National Suicide, sarà per il berretto e alcuni tratti somatici, mi riporta alla mente Udo Dirkschneider. Sarà per empatia verso il genere proposto; un Heavy Metal puro con twin guitars, ma il breve set proposto dai Racket è risultato convincente. Il Cantante e il batterista Fabio Sebastiani non sono dei ragazzini e i chitarristi che si scambiano le parti se le giocano bene. Anche in questo caso il suono, limpido da ogni parte, regge il gioco e facilita la prestazione. Qualche moina, la spiegazione dei titoli in italiano, un’attitudine concentrata sì ma al contempo “giocosa”, mi porta a dire che i ragazzi ci sanno fare e si divertono. Si torna a girovagare per il salone del Campus Music Industry dove le presenze sono consistenti, 200 persone circa, e arriva il momento tanto atteso.
Ecco The Bastard Sons assieme al cantante Neil Starr poi arriva Phil Campbell con tanto di maglietta di Don Henley (Eagles). Inutile dire che i presenti non vedono l’ora di circondarlo d’affetto visto che la madre è di nazionalità italiana ma, sopra a tutto, visto ciò che hanno rappresentato, e rappresentano, i Motorhead per molti di noi. Un set che parte con “Big Mouth”: uno dei cinque pezzi pezzi dell’E.P. in uscita il 18 novembre dal suono tipicamente Hard Rock e parzialmente distante da quello dei Motorhead, e prosegue con “Deaf Forever”. Le mazzate tirate dai figli di Phil vanno a segno mentre la voce di Neil fatica un poco e sembra leggermente sotto tono; probabilmente è colpa del vinello italiano o dell’umidità fuori dal Campus. C’è spazio per i “Nothing Up My Sleeve”e per “Spiders”, altro pezzo dal nuovo E.P., ma è con “Ramones” che comincia lo show del pubblico. Pogo selvaggio, circle pit, un poco di massacro al quale tento con successo di sfuggire ma anche tanta voglia di divertirsi e dimenticare un mondo oppressivo. I pezzi originali si intervallano con le covers come ad esempio “Sharp Dressed Man” degli ZZ Top in una esecuzione tutto sommato buona nonostante qualche cedimento o “inciampo” degli strumentisti mentre la voce si fa più “calda”. Un ospite accompagna il gruppo durante “Born To Raise Hell” proprio quando il pogo si fa più pressante. Un boato saluta la cover di “Sweet Leaf” dei Black Sabbath resa in maniera veramente pesante e satura e poi arriva il pezzo che tutti aspettavano. Partono le note di“Ace Of Spades” e non vi dico tra gente che urla le strofe, circle pit affollato, “anziani” come me che tornano giovani, cosa si prova all’interno del Campus Industry Music. Si prosegue con il classico “Eat The Rich”; ricordo ai più recenti fans dei Motorhead che esiste un film dallo stesso titolo dove potete vedere Lemmy alle prese con la recitazione e poi, un poco a sorpresa per il sottoscritto, viene rispolverato il classico degli Hawkwind, prima band importante di Lemmy, “Silver Machine”. Psichedelia - Rock e occhi dei più attenti ascoltatori che brillano, mentre altri ascoltano domandandosi chi sia l’autore del pezzo. Si va avanti con un pubblico che non sembra esaurire le energie, anzi! Arriva così “Going To Brazil” che, stranamente, vede un furioso movimento nel circle pit (oramai conclamato e attivissimo). Dopo “Rock Out”, ribattezzata “Cock Out”, inizia un breve siparietto tra Phil e Neil che mettono al centro dell’attenzione una coppia davanti alle transenne e le dedicano “Heroes” di David Bowie. Siamo quasi al finale e mentre molti aspettavano “Overkill”, arriva invece “Killed By Death” che, ancora una volta, accende l’entusiasmo dei presenti. Dopo di ciò finisce il sogno e si torna alla realtà. Potete chiamare Phil And The Bastards Sons una buona cover band dei Motorhead, un gruppo di ribelli del Rock and Roll o come volete, ma rimane un dato di fatto; Phil Campbell ha accompagnato con i suoi riff di chitarra gli anni di vita di molti di noi e questo lo rende degno del massimo rispetto. Dopo il concerto comincia il D.J. set di Melissa Hasser ma io, dopo qualche istante, volo fuori per cercare di consegnare un piccolo regalo a Phil; cosa che di persona non mi riesce. A tal proposito, ringrazio Saverio e Benny per avere fatto da intermediari. Si fanno le due di notte e, per me che come al solito viaggio da solo, svanisce anche il sogno di avere un paio di plettri dalle mani di Phil Campbell; probabilmente l’ultimo a scendere dopo che gli strumenti vengono caricati sul furgone. Mi “accontento” di una foto con un Neil Starr che, rubizzo, mi chiede: “With the middle finger?” Alla mia risposta “How do you want” viene fuori uno scatto che sembra quello fra due amici. Ottima serata!