Opinione scritta da Ninni Cangiano
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Top 10 opinionisti -
I Löanshark arrivano da Barcellona e si sono formati nel 2017; tra loro milita anche il cantante e chitarrista sardo Lögan Heads (nome d’arte evidente, ma non ci è nota la reale identità). In questi anni ha rilasciato solo un EP nel 2018, una compilation ed una manciata di singoli, prima di questo “No sins to confess”, uscito a San Valentino niente meno che per la ROAR/Rock of Angels. Il disco è composto da 10 brani (finalmente nessuna inutilissima intro!), due dei quali erano anche presenti sulla predetta compilation (le tracce 2 e 10), per la durata totale di poco meno di 40 minuti; tra essi annoveriamo anche la cover dei Marseille, un gruppo storico della NWOBHM, attivo principalmente tra gli anni ’70 ed ’80 ma, teoricamente, ancora in essere (l’ultimo disco risale però a 15 anni fa). Da questo potrete comprendere che i Löanshark amano l’heavy metal old-style, quello degli anni ’80, come anche evidente dall’artwork dell’artista Stanislav Atanasov, in pieno stile retrò. Fortunatamente la registrazione non è vintage (come spesso accade a gruppi simili), ma è al passo coi tempi e permette di assaporare degnamente i vari strumenti. Naturalmente, con simili premesse, è inutile cercare originalità o innovazione, concetti che evidentemente non interessano per niente ai Löanshark che suonano per la loro passione ed il loro amore verso questo tipo di heavy metal e già solo per questo meritano il massimo rispetto. Le varie canzoni si lasciano ascoltare gradevolmente e non sono pochi i richiami anche all’hard rock ed allo speed metal, soprattutto quando il batterista Ángel Smolski (niente a che vedere con il più famoso Victor) pesta per bene sulla doppia-cassa, anche se il nome dei Judas Priest è quello che maggiormente viene in mente come musa ispiratrice della band. La voce del cantante sardo Lögan Heads non è niente male, acuta a dovere ed anche versatile e si sposa alla perfezione con il sound della band. Manca forse quella hit che ti fa saltare dalla sedia e da sola vale l’acquisto del cd ma, tutto sommato, ci troviamo comunque davanti ad un buon album. I Löanshark non passeranno alla storia con questo “No sins to confess”, ma hanno realizzato un disco che può far passare 40 minuti in spensieratezza, mettendoci tutta la loro passione ed il loro talento! Se poi siete appassionati di queste sonorità old-style, fateci un pensierino…
Ultimo aggiornamento: 12 Aprile, 2025
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I Phear sono un gruppo canadese formatosi una decina d’anni fa; prima di questo “Save our souls” autoprodotto a febbraio (e distribuito dalla statunitense Golden Robot Records), la band dell’Ontario aveva rilasciato un LP nel 2015 ed un EP nel 2017, sempre in autoproduzione. Il nuovo album, con un artwork contraddistinto dalle due mascotte Phred e Regan (presenti su tutti i dischi del gruppo), è composto da 9 tracce per la durata totale di circa 58 minuti. Il sound è un robusto heavy/thrash, carico di groove sulle due chitarre (che sono gli strumenti principali), che può ricordare qualcosa dei Megadeth (almeno quelli più recenti). Nella bio di presentazione si parla anche di Metallica, Judas Priest, Iron Maiden e Dream Theater, tutti gruppi che probabilmente hanno influenzato i Phear ma che, di fatto, c’entrano poco o nulla con il loro sound. Già l’uso pesante che viene fatto della batteria, con doppia-cassa in piacevole evidenza, da parte di Mike Harshaw (nel frattempo uscito dal gruppo e sostituito da Andrew Suarez), basterebbe per contraddistinguere il sound dei Phear da quello di tre dei quattro gruppi predetti; tengo fuori i Metallica, perché effettivamente le mitragliate di chitarra e batteria possono ricordare anche qualcosa da “And justice for all” e perchè le prime note di "On thin ice" fanno pensare a "Welcome home (Sanitarium)". Piuttosto, come termine di paragone, andrei a scomodare gli Heathen ed i Forbidden, ma soprattutto i Nevermore e non a caso la quarta traccia è proprio una cover del gruppo di Jeff Loomis, tra l’altro resa non troppo difforme dall’originale. Le altre canzoni (di cui una live registrata a Toronto, anche presente sul debut album nella versione da studio) si lasciano ascoltare molto piacevolmente e donano energia a profusione; sono tutte di qualità superiore alla media e non ci sono fillers di sorta. La voce di Patrick Mulock è pulita e ricca di energia, ma anche molto versatile ed espressiva e non fatico ad affermare che lo ritengo tra i migliori vocalist thrash mai ascoltati, tanto da costituire un vero e proprio “quid pluris” per la band, che si distingue così dalla massa di gruppi con voci tutte uguali isteriche ed aggressive; c’è anche del growling (probabilmente del bassista Chris Boshis) piazzato qua e là, spesso in sottofondo, senza dare particolare fastidio e senza essere mai eccessivo o invadente. Come sempre, fatico a capire perché dischi di valore e gruppi di simile talento vengano costretti all’autoproduzione, mentre veniamo continuamente ammorbati da immondizie musicali, ma questo è il music business…. Sta a noi metalheads sostenere i musicisti più validi ed i loro dischi ed è indubbio che questo “Save our souls” dei Phear meriti ogni attenzione! Peccato che sia uscito solo in versione digitale e non anche su cd…
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Ed eccoci al nuovo capitolo della saga degli Elvenking, questa volta il titolo è “Reader of the runes – Luna”, con un nuovo fantastico artwork e 10 brani uno più bello dell’altro. Già, perché anche questa volta il gruppo italiano si è superato, regalando ai propri fans una vera e propria gemma di folk/power metal, diventando (fa quasi paura affermarlo) il gruppo di punta a livello mondiale dello specifico settore, con buona pace dei detrattori del metal tricolore. Potrei già chiudere qui la recensione, perché obiettivamente c’è il rischio di diventare stucchevoli nel decantare le lodi del gruppo friulano che da ormai 28 anni a questa parte si mantiene sempre su livelli qualitativi non comuni, riuscendo però sempre a rinnovarsi e senza mai essere uguale al passato e con la rara qualità che tutti i dischi sono contraddistinti da un’anima propria, leggermente diversa dai predecessori. Anche questo “Reader of the runes – Luna” ha in sé qualcosa di diverso; in primis la band strizza l’occhio al power metal maggiormente rispetto al passato, con sonorità in alcuni casi decisamente ruffiane. Ma non si limita solo a questo, prendiamo un brano come “Stormcarrier”, in cui l’ospite Mathias ‘Vreth’ Lillmåns (dei finlandesi Finntroll) si fa sentire con un growling che dona un’aura di cattiveria, tra il viking ed il melodic death metal. Personalmente non ho apprezzato questa scelta ed il brano in questione è per me il meno riuscito dell’album, ma si tratta di gusti personali (e, come tali, sempre ampiamente opinabili) dovuti al fatto che questo tipo di cantato aggressivo mi ha stancato da tempo. Spero, solamente, che si tratti di un episodio e che la band non voglia in futuro seguire questa strada, perché rischierebbe di snaturare la propria anima ed apparire come una specie di imitazione dei tanti gruppi viking scandinavi. Come detto, l’album è pieno zeppo di canzoni di livello qualitativo elevato, prendiamo ad esempio il trittico iniziale con tracce splendide che raggiungono il sublime con “Gone epoch”, tra le migliori in assoluto mai scritte dagli Elvenking! Sempre su livelli di eccellenza anche la tellurica “Throes of atonement”, per non parlare della suite conclusiva “Reader of the runes – Book II”, semplicemente spettacolare! Lethien al violino è ottimo protagonista (“Starbath”), assieme alle due chitarre del leader Aydan e dell’ormai affiatato Headmatt, Jakob al basso pulsa in sottofondo, mentre Symohn con la sua batteria impone ritmi spesso e volentieri decisamente frizzanti, grazie anche ad un uso sapiente della doppia-cassa, lasciandosi ogni tanto andare anche con il blast-beat. C’è poi Damna, sul quale ormai si sprecano gli aggettivi, con il suo stile cattivo e perverso, ma sempre decisamente attraente, suadente, ammaliante e convincente e già mi immagino sotto al palco ad urlare assieme a lui i vari cori che infarciscono l’album. Credo di essermi dilungato fin troppo, bastava poco infatti per affermare, senza ombra di smentita, che gli Elvenking con questo “Reader of the runes – Luna” hanno ancora una volta fatto centro con uno di quei dischi che sarà sicuramente tra i migliori dell’anno.
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Tornano a farsi sentire i Mentalist, gruppo svedese/tedesco arrivato con questo “Earthbreaker” al quarto album della carriera; la band, che annovera nella propria formazione il mitico Thomen Stauch alla batteria (10 minuti di vergogna per chi non conosce questo mostro sacro del metal!), è diventata ormai una garanzia per chi ama la frangia più melodica del power metal. Questo album, dotato di affascinante artwork realizzato niente meno che dal maestro Andreas Marschall, è infatti pieno zeppo di ottime canzoni che non possono far rimanere indifferenti i fans di questo specifico genere musicale. Già dall’intro (curiosamente chiamata proprio così), si capisce che il livello qualitativo è di quelli elevati, dato che non abbiamo il solito inutilissimo breve insieme di note, ma una piacevole traccia da meno di un minuto che non merita di essere skippata. Ci sono poi canzoni davvero belle (sono 11 in totale, per la durata di circa 53 minuti), come la title-track, “March on legionnaire” ed “Event horizon”, che completano un trittico iniziale di tutto rispetto, ma anche “All for one” (classica cavalcata power metal) e “Mistress of pain” (dall’inizio molto Blind Guardian!). A livello musicale, le due chitarre di Peter Moog e Kai Stringer recitano da protagoniste, mentre il buon vecchio Thomen impone spesso e volentieri ritmi frizzanti come sa fare da sempre; c’è poi la voce squillante e potente di Rob Lundgren, cantante molto conosciuto in campo power metal, soprattutto per chi lo segue su YouTube. Ho ascoltato e riascoltato sempre con molto piacere questo disco, ma ciò è possibile soltanto non andando a cercarvi innovazione o originalità, concetti dei quali ai Mentalist importa evidentemente ben poco! Se non siete tra coloro che sperano di trovare nel power metal, sia pure nella sua versione più melodica, qualche novità, allora questo “Earthbreaker” sicuramente merita la vostra attenzione, perché è un album davvero ben fatto.
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Avevo conosciuto il progetto australiano On My Command nel 2018, all’epoca del debut album “Apparition”; lo ritrovo adesso con un nuovo full-length (il terzo della carriera) intitolato “Conquer”, in cui il leader Sean Mackay continua ad occuparsi di tutto, lasciando però la batteria all’ospite americano James Knoerl. E’ indubbio che il buon Sean ci sappia fare eccome con chitarra e basso e lo si sente in tutto il disco (composto da 9 canzoni per circa 36 minuti di durata totale); ciò che continua a non convincere è la sua prestazione canora. Mi spiego meglio: c’è molto di peggio in giro e Mackay non è poi così malaccio, ma per il power metal che suona servirebbe una voce più squillante, potente ed espressiva, tutte caratteristiche che non ho avuto modo di notare nella prestazione del musicista australiano. E’ chiaro che, essendo un progetto personale, come in quasi tutte queste attività, il main-man si occupa di tutto per dare sfogo alla propria passione, ma forse sarebbe meglio rendersi conto che si può fare di più e meglio, magari chiamando qualche ospite per cantare (o duettare). Musicalmente parlando il power metal del progetto è indubbiamente piacevole, i vari pezzi sono ben strutturati, convincenti e coinvolgenti; di certo non brillano per originalità, ma i fans di questo specifico genere musicale di sollito non cercano particolari innovazioni, ma solo e soltanto la propria amata musica, ben suonata ed orecchiabile. Ho ascoltato e riascoltato sempre con piacere questo disco e credo che possa sicuramente andare incontro ai favori dei fans della scuola tedesca; a voler cercare dei parallelismi, infatti, direi che dovremmo andare a scomodare gente come Blind Guardian (primi due/tre dischi) e soprattutto Grave Digger. Da segnalare, infine, che il meraviglioso artwork ambientato all’epoca dell’impero romano (che si ricollega ai testi del disco) è opera del maestro Andreas Marschall e che l’ottima registrazione (contrariamente a quanto accaduto con il debut album!) è opera di Andy Kite negli Against the Grain Studios. Sean Mackay con il suo progetto On My Command questa volta ha fatto centro e questo “Conquer” supera abbondantemente la sufficienza.
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Formatisi nel 2023 per iniziativa del cantante Terje Fiskvatn, i canadesi (da Toronto, Ontario) Breaker arrivano in questo inizio aprile a rilasciare, grazie alla nostrana Wormholedeath, il loro primo disco, l’EP omonimo composto da soli 3 pezzi per la durata totale di una decina di minuti. Occorre precisare che il lavoro, dotato di artwork davvero minimale (ma farsi fare una copertina decente era così dispendioso?), era inizialmente uscito a luglio 2024 come autoproduzione solo in digitale, per poi essere stampato su cd dalla label emiliana. Ma cosa suonano i Breaker? Il loro è un’heavy/speed metal old-style, molto frizzante, chiaramente ispirato alla scena della seconda metà degli anni ’80 che in Canada vide gli Exciter e gli Anvil tra i gruppi principali, anche se immagino che il nome del gruppo derivi dall’omonima canzone storica degli Accept. Per un genere simile è fondamentale il lavoro della batteria e Rider Johnson se la cava egregiamente imponendo sempre ritmi brillanti; naturalmente è protagonista anche la chitarra di Caleb Beal (che si occupa anche del basso, immagino in attesa di trovare un quarto membro per suonare live) che sciorina riff ed assoli di buona qualità. C’è poi il leader Fiskvatn che ha una voce acuta ed isterica, giustissima per questo tipo di musica e che non dispiace affatto, dimostrandosi anche versatile ed espressivo. La registrazione è mediamente decente, anche se appare evidente che sia stata eseguita in momenti differenti, tanto che l’ultima traccia (“Liberty”) è più “old-style” delle altre proprio per via della registrazione più “amatoriale” (passatemi il termine), che la penalizza alquanto, creando un impasto sonoro non proprio esaltante. Per essere un debutto discografico, i Breaker promettono molto bene, adesso si tratta di tenere duro e proseguire su questa strada per regalare ancora ottima musica ai fans dello speed metal.
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Tra le tante bands al mondo con il nome Predator, oggi parleremo di quella proveniente dalla zona di Los Angeles in California, attiva addirittura dal lontano 1984, ma con all’attivo finora una manciata di singoli e demo, oltre al debut album rilasciato nel lontano 1986 (“Easy prey”), prima di questo secondo disco intitolato “Unsafe space”, uscito nel mese di marzo per la sempre attiva label spagnola Fighter Records. La band fu fondata dal chitarrista Jeff Prentice che si occupa anche di cantare e, per essere sinceri, non lo fa in maniera particolarmente convincente… se, insomma, la chitarra è strumento protagonista e si apprezza notevolmente, altrettanto non si può dire per il cantato, soprattutto quando Prentice cerca di raggiungere le note alte del pentagramma, dove madre natura non gli consente di arrivare agevolmente; meglio, quando si mantiene su livelli meno elevati, come ad esempio nella mosheggiante “Sons of liberty” (non a caso tra le canzoni migliori del disco). Jeff si occupa anche di programmare la batteria al computer e lo fa anche bene, dato che spesso e volentieri i ritmi sono belli frizzanti, proprio come la ricetta vincente dello speed metal (il genere suonato dai Predator) richiede. L’album è composto da 12 canzoni per la durata totale di poco superiore ai 40 minuti, segno che il songwriting è conciso e non si dilunga inutilmente; fra le varie tracce devo anche segnalare la cover della mitica “California dreaming” (canzone degli anni ’60 che fu tradotta anche in italiano), metallizzata a dovere in maniera estremamente godibile. E sono godibili anche la maggior parte delle altre tracce, tanto che non è mai stato un problema ascoltare e riascoltare l’album per questa recensione, anche quando qualche digressione nell’heavy più classico fa capolino (“Winter wars” ricorda non poco gli Iron Maiden, soprattutto per l’ottimo lavoro di Frank Forray al basso). Certo, qualche canzone un po’ ripetitiva e qualitativamente un gradino sotto alle altre ci sta, mi vengono in mente “A new civil war” (forse quella in cui Prentice canta peggio), “N.L.M.” e la conclusiva “The crow upon the cross” (che sa tanto di filler) che non mi hanno entusiasmato, anche se bisogna dire che non sono poi così scadenti. Tutto sommato, comunque, questo “Unsafe space” dei Predator non dispiace affatto, a patto di essere appassionati di certe sonorità old-style, dato che il buon speed metal non è certo un genere particolarmente moderno… Non resta che augurare ai Predator di diventare un quartetto con un vero batterista ed un cantante migliore e, soprattutto, di non dover aspettare altri 39 anni per un nuovo disco!
Ultimo aggiornamento: 05 Aprile, 2025
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Non conoscevo gli australiani Alarum, gruppo attivo niente meno che dal lontano 1992, ma con all’attivo solamente una manciata di singoli e demo, oltre a 4 full-lengths, prima di questo “Recontinue”, uscito a novembre 2024, ma arrivatoci in redazione solo nel mese di marzo di quest’anno. Nella bio di presentazione si parlava di paragoni con Atheist, Cynic e Death ed è proprio con quest’ultima band, almeno stando alla prima canzone “Imperative” (dopo la consueta ed immancabile intro), il paragone più calzante soprattutto per lo stile canoro del bassista Mark Palfreyman che si ispira palesemente al mai troppo compianto Chuck Schuldiner; andando avanti con gli ascolti dei vari pezzi della tracklist, si potrà notare come il vocalist ogni tanto tenda ad esagerare con il growling, rischiando quasi di diventare fastidioso. Musicalmente, invece, se il paragone con i Death di “Human” ed “Individual thought patterns” ci può stare, è evidente che la band australiana trae ispirazione dai Cynic, mescolando il suo thrash ai confini col death, con elementi di fusion e jazz, il che rende l’ascolto sempre gradevole, con sorprese che si affacciano in ogni brano. Obiettivamente, la musica degli Alarum è sempre varia, mai monotona, grazie anche a continui cambi di tempo e ad un utilizzo sapiente e frequente delle tastiere; non entriamo nel discorso meramente tecnico, perché qui abbiamo a che fare con dei veri e propri maestri dei propri strumenti (Palfreyman al basso è mostruoso!), di fronte ai quali bisogna solo rimanere in religioso silenzio, contemplazione ed ammirazione. Ma, torno a dirlo, se la parte strumentale è semplicemente eccezionale, altrettanto non si può dire per le parti vocali; Palfreyman è solo una copia sbiadita di Schuldiner e ritengo anzi che un cantante dallo stile completamente differente (non è obbligatorio usare sempre e solo il growling!) avrebbe potuto giovare ampiamente alla riuscita di questo disco (come accade in "Zero nine thirty", non a caso tra i pezzi migliori del disco!). “Recontinue” è composto da 11 tracce per una durata totale di quasi ¾ d’ora; abbiamo avuto il piacere di ascoltare un disco di ottima qualità, che poteva essere ancora migliore se solo si fosse un po’ diversificato il cantato; ciò non toglie che il talento degli Alarum è smisurato e sorprende come una band di simile qualità debba ricorrere all’autoproduzione, mentre le labels in tutto il mondo ci continuano a sommergere di immondizie musicali…
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Che gli Helloween si fossero trasformati in una sorta di macchina per far soldi era abbastanza evidente dopo la reunion, i lunghi tour, gli innumerevoli live albums, singoli e compilations varie. Mancava effettivamente una compilation fiume che riprendesse tutta la carriera della band tedesca dagli albori ai giorni nostri e, per festeggiare il quarantennale di attività, ecco arrivare “March of time – The best of 40 years”, compilation di ben 42 tracce, divisa tra un triplo-cd, oppure su una deluxe limited-edition in cinque vinili di colore rosso, o nell’immancabile versione digitale. Si tratta di 42 canzoni composte dagli Helloween nel corso della loro storia, rimasterizzate per l’occasione da Sascha “Busy” Bühren (lo stesso ingegnere del suono dell’ultimo album da studio) ma, per il resto, letteralmente identiche agli originali. Troverete quindi brani dai primi storici e meravigliosi album (l’era-Hansen ed i primi due Keeper), altri dai tanto discussi successori (personalmente mai apprezzati), fino ad arrivare ai brani dell’epoca-Deris, per chiudere con i brani più recenti dell’ultimo album dopo la tanto acclamata reunion con Hansen e Kiske. Ecco quindi che, se ancora non conoscete bene gli Helloween (gravissima mancanza per qualsiasi metalhead!), questo disco può essere un buon modo per approcciarsi alla band che ha sostanzialmente inventato il power metal e ha scritto pagine indelebili della nostra amata musica metal con dischi meravigliosi come i primi due Keeper che hanno influenzato miriadi di gruppi venuti dopo. Se, invece, come il sottoscritto conoscete a menadito la storia di questo gruppo ed avete già nella vostra collezione i dischi originali (magari evitando come la peste i due successivi all’uscita di Kai Hansen e precedenti all’arrivo di Andi Deris), i vostri soldini sarebbe utile dirottarli altrove, a meno che non siate collezionisti compulsivi e non volete farvi mancare nemmeno un’uscita targata Helloween. Se, insomma, guardiamo la qualità dei pezzi proposti, è indubbio che questo “March of time – The best of 40 years” merita considerazione; ma, considerando la mera operazione commerciale, ecco che sarebbe meglio non esprimersi per non dire cattiverie…. Me la cavo con una sufficienza e lascio a voi decidere se si debba premiare la qualità della musica (qui indubbiamente alta) o punire la pessima speculazione commerciale che c’è dietro a questa ennesima compilation.
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I Midnight Vice arrivano dagli USA e fanno parte della scena underground della NWOTHM (New Wave Of Traditional Heavy Metal) di Tampa in Florida; formatisi nel 2020, rilasciano il loro primo disco, con questo lavoro omonimo, inizialmente uscito nel luglio 2023 come autoproduzione e successivamente pubblicato, con l’aggiunta di una traccia (la settima), dalla label greca ROAR/Rock of Angels in questo mese di marzo 2025. Il disco è composto da 7 pezzi per la durata totale di 28 minuti esatti, a voi la scelta se definirlo un LP breve o, come indicato su metal-archives.com, un EP… forse sarebbe più calzante definirlo un mini-LP, definizione che ultimamente è alquanto caduta in disuso. Ma veniamo alla musica. I Midnight Vice si ispirano all’heavy metal degli anni ’80, con forti iniezioni di speed metal; ecco quindi che i richiami a certa discografia dei Judas Priest sono abbastanza evidenti. Ma le fonti di ispirazione del quartetto americano non finiscono lì, dato che sicuramente dobbiamo annoverare anche altri mostri sacri dell’heavy metal come Iron Maiden e Savatage, non a caso è stata scelta come ultima traccia una cover tratta dal meraviglioso “Hall of the Mountain King” della band dei fratelli Oliva. Gli ascolti di questo disco sono sempre stati gradevoli, grazie anche ad una buona registrazione che, contrariamente a quanto spesso accade con gruppi del genere, non è old-style ma al passo coi tempi. Lo strumento principale è naturalmente la chitarra elettrica del buon Sam Bean, ottimamente supportata dalla batteria di Dennis O’Sullivan che impone spesso ritmi frizzanti e veloci; il basso di Lakota Stafford fa la sua parte (anche se alquanto in sottofondo), mentre il cantante Tyler Gray non dispiace affatto, grazie ad un’ugola potente ed acuta, che ricorda non poco Olof Wikstrand degli svedesi Enforcer (altro gruppo che potrebbe essere chiamato in causa come termine di paragone). Se cercate originalità ed innovazione a tutti i costi, questi Midnight Vice ed il loro disco omonimo non fanno al caso vostro; se invece non rientrate in questa categoria e vi piace il buon vecchio heavy metal con robuste iniezioni di speed, ecco che potreste apprezzare questo lavoro.
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