Opinione scritta da Ivan Bologna
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Ultimo aggiornamento: 20 Settembre, 2024
Top 50 Opinionisti -
La Norvegia torna a farmi parlare di musica, di quella che gli riesce meglio, nel variegato macrocosmo del metallo: il True Norwegian Black Metal. Una sorta di etichetta, sinonimo di qualità assoluta nella stragrande maggioranza dei casi. Questo è uno di quelli. Progetto nato per mano di Thomas Eriksen nel 2004, i Mork oggi danno alle stampe “Syv”, il loro settimo full-length. Un lavoro che indubbiamente farà parlare molto di sé, grazie ad un’oscura e malsana proposta di elevata qualità, dovuta ad una naturale evoluzione che avvolge la band d’accattivante originalità e che ormai li sta conducendo nel mefistofelico olimpo di chi vuole e sa distinguersi. Fin dagli esordi, nonostante fosse evidente un songwriting fortemente marchiato dall’impronta dei precursori del genere, la band aveva comunque palesato una propria identità ben riconoscibile, che ha contribuito a creare enorme curiosità, nonché aspettative sulla loro metamorfosi evolutiva. “Syv” è a mio parere e senza ombra di dubbio, il figlio legittimo di questa metamorfosi. La fase compositiva di questo lavoro non ha escluso nessuna delle influenze possibili, troviamo all’interno di ogni brano gli umori caratterizzanti del Death, del Thrash, del Doom, del Black ovviamente, ed in alcune occasioni una ricerca strutturale degna del Prog anni '70. La cosa sconcertante (positivamente parlando), è che il tutto risulta dannatamente omogeneo, nonché originale ed assolutamente personale. Il sound, seppure spoglio da inutili ornamenti sonori, risulta funzionale all’economia dei brani, molto bilanciato viaggia su frequenze che enfatizzano l’ottimo lavoro al basso, essenziale all’eccezionale groove dei brani. “I Tåkens Virvel” ha il compito di darci il benvenuto, e da subito ci si accorge quanto sia accattivante il mix di strutture puramente Black Metal con le malsane mistioni sperimentate. I due brani successivi, “Holmgang” e “Heksebål” conquistano l’attenzione grazie alla loro epicità amalgamata a suggestive sonorità che rimandano agli anni '70: due brani sorprendenti. Umori altalenanti e sensazioni contrastanti sono alla base di “Utbrent”, brano molto incisivo che non disdegna momenti riflessivi ed elementi Death style perfettamente fusi con l’essenza più pura della band. La successive “Med Døden Til Følge” e “Ondt Blod” sono forse le tracce dove tutti gli elementi di cui parlavo precedentemente collimano con maggiore equilibrio e perizia e nel farlo ci accompagnano a “Tidens Tann”, brano caratterizzato da una forte personalità evocativa. Arriviamo quasi ai titoli di coda con “Til Syvende Og Sist”, un'inquieta e sognante strumentale che fa da vestibolo ad “Omme”, una perla che ci porta nel cuore di un’antica locanda, dove un talentuoso bardo rapisce la nostra più profonda malinconia. Sicuramente ci troviamo al cospetto di uno dei migliori album del 2024!
Ultimo aggiornamento: 10 Settembre, 2024
Top 50 Opinionisti -
A volte fa dannatamente male, si insinua nel profondo, sussurra alle nostre fragilità d’animo più oscure e recondite, avvolge sotto il suo mantello, cucito di turbamenti emozionali, i nostri sensi, conducendoli tra le terre dei sogni infranti. Alla fine di questo viaggio, il silenzio, ancora inebriato dalle vibrazioni che solo quelle note sanno dare, ci mostra la strada verso l’alba di un nuovo io. Questo e tanto altro, è quello che vi accadrà ascoltando gli austriaci Ellende, una one man band dedita ad un raffinatissimo Ambient Post-Black Metal, fondata nel 2011 dal polistrumentista Lukas Gosch. “Todbringerin” e il suo quinto full-length, (in realtà una riedizione di “Todbringer”, capolavoro ormai introvabile del 2016) e ha l’arduo compito di fare da successore ai precedenti lavori, impregnati di austera bellezza. Il suo cammino artistico iniziava caratterizzato da composizioni viscerali che col tempo hanno ceduto il passo a strutture ed intenzioni più ragionate. Aspetto che caratterizza in lungo e in largo questa preziosa riedizione, che gode tra l’altro, di una registrazione nuova di zecca. La produzione è perfettamente bilanciata ed offre la possibilità di deliziarsi con un equilibrato ascolto di tutti gli strumenti elettrici e classici, presenti nelle varie composizioni. Un languido ma suadente pianoforte inizia a farci socchiudere gli occhi, si tratta di “Am Sterbebett der Zeit”, la prima traccia strumentale dell’album, efficace anticamera che introduce “Ballade auf den Tod”: un affascinante mid-tempo impreziosito da armonizzazioni notevolmente ispirate, che ci conducono nei meandri di questo emozionante brano fino ad una sfuriata di immensa e sofferta bellezza. Una delle caratteristiche vincenti nella scelta stilistica degli Ellende sta proprio nel dosaggio emozionale che viene distribuito nelle varie parti caratterizzanti del brano: più è struggente nel suo lento incedere una parte, più risulta incisivo l’assalto della parte successiva. Emozioni contrastanti che si rincorrono ed abbracciano in un vortice sonoro unico nel suo genere. Aspetto che riscontriamo in brani come “Verehrung” e “Scherben Teil I”. La successiva “Scherben Teil II” è forse il brano più sensibile dell’album, una passeggiata a cavallo immersi nella nebbia fino a giungere allo splendido e commovente strumentale “Versprochen...”: lacrime cadono giù dal cielo, facendo lacrime di noi stessi. La giostra delle emozioni non ha smesso di girare e si procede con “Verachtung”, forse il brano con l’attitudine più sinistra ed una ricerca melodica e ritmica malinconica ed inquieta al tempo stesso. La chiusura è affidata ad “Am Ende stirbst du allein” dove ogni forma d’arte conosciuta diventa note musicali e vibra in eterno anche nel silenzio. Non credo serva aggiungere altro, soprattutto perché ci troviamo al cospetto di un’opera che non può e non deve essere raccontata ma semplicemente vissuta. Non perdetevela.
Ultimo aggiornamento: 30 Agosto, 2024
Top 50 Opinionisti -
Terra dai mille fiordi, patria di vichinghi e troll, musa indiscussa del buon freddo Black Metal: la Norvegia è, senza dubbio alcuno, lo scenario ideale per l’ispirazione di chi vuol trasmettere la primitiva magia del gelo. Inutile sprecare parole sull’indiscussa qualità delle bands del passato alle quali dobbiamo anche il merito di aver indicato la giusta strada a quelle che sono venute dopo, e che ancora dovranno venire. Una scena solida la loro, con origini ben radicate, battezzate col sangue, tra le fiamme. La nuova creatura che si appresta a muovere i suoi primi passi urlando la propria ipnotica ferocia in giro per il mondo, risponde al nome di Avmakt. Il duo che compone la band vede personaggi noti nella scena per aver collaborato con nomi del calibro di Aura Noir, Obliteration e Condor. Si tratta di Kristian Valbo e Christoffer Bråthen e il loro “Satanic Inversion Of” è certamente un lavoro cupo e dall’ interessante gusto misantropico, seppure presenti, a mio avviso, alcuni punti deboli che purtroppo non consentiranno di considerare questo album un must. Innanzitutto l’eccessiva durata dei brani, considerandone la struttura basata su un dinamismo volutamente marcio e stagnante. La progressione di riffing e drumming risulta essenziale all’economia dei malsani intenti del duo e nulla più. Motivo per cui, ritengo che una durata inferiore avrebbe aiutato a rendere più godibile l’ascolto di alcuni brani, soprattutto perché gli episodi accattivanti non mancano, come ad esempio nell’iniziale “Ordinance”, che dopo un inizio dal sapore di zolfo, offre una parte centrale caratterizzata da maligne sfuriate ed interessanti controtempi che danno maggiore impulso all’atmosfera creata. Anche la successiva “Poison Reveal” è basata sull’ amalgama di atmosfere sulfuree ed insalubri sfuriate, ma questa volta si soffre un po’ l’assenza di un maggiore dinamismo, aspetto che purtroppo riveste quasi nella sua interezza il brano successivo, “Sharpening Blades of Cynicism”, che con i suoi dieci minuti di durata sarebbe entrato in cinque, risultando decisamente più convincente. Ne trovo comunque degno di nota il finale, speziato con un alone Doom. “Towing Oblivion” è un anatema carico d’odio che ha il potere di risollevare le sorti di questo controverso lavoro prima di tornare sui sentieri orfani di un dinamismo che credo fermamente la band non abbia voluto ottenere intenzionalmente. Le conclusive “Charred” e “Doubt and the Void” soffrono a causa delle caratteristiche di cui vi ho già parlato, seppure offrano spunti interessanti e delle eteree atmosfere Doom nei momenti iniziali dei rispettivi brani. In definitiva “Satanic Inversion Of” si impone col suo groove color pietra lavica, risultando però difficile da digerire a causa di una scelta strutturale che potrebbe benissimo essere rivalutata per le produzioni successive. Vi aspetto.
Ultimo aggiornamento: 24 Agosto, 2024
Top 50 Opinionisti -
Esprimere totale dedizione ad un culto, lasciare che esso viva attraverso distorte e dissonanti note e che possa riecheggiare in tutta la sua inquieta natura nei tempi a venire. Questa è l’impresa riuscitissima delle bands che hanno eretto le colonne portanti del tempio del Black Metal, ormai più di trent’anni fa. Oggi esistono innumerevoli realtà musicali che continuano a pagare tributo ai precursori, scegliendo il più “comodo” ritorno alle origini, piuttosto che cercare di stravolgere un genere che forse è meglio non sottoporre a sperimentazioni. I francesi Gravenoire debuttano su Season of Mist U.A. con “Devant la Porte des Étoiles”, un EP che presenta tutti gli elementi distintivi della dedizione al culto di cui si parlava prima. La copertina old school, le borchie, le torce, la luna ed una registrazione live in presa diretta che purtroppo non rende giustizia ai pochi momenti davvero interessanti di questo lavoro. Gli elementi coinvolti in questo debutto non sono affatto di primo pelo, ma vantano un passato con bands di prim’ordine della scena transalpina: Anorexia Nervosa, Seth e Hyrgal, giusto per citarne alcune. Questo però non basta a rendere questo lavoro accattivante come avrebbe sicuramente meritato d’essere. Le idee a volte sono molto interessanti e trovo di buon gusto la struggente ricerca melodica, ma i brani non riescono a trasmettere del tutto il loro intento, un po’ a causa della registrazione che sacrifica parecchio le dinamiche degli strumenti, un po’ per delle linee vocali sicuramente evocative ma troppo recitate e poco cantate. Si inizia con “Pavens”, un epico intro strumentale lievemente fuori tema ma che introduce il brano a mio avviso più riuscito: “France de l’Ombre”. Qui si respira davvero la sulfurea atmosfera dell’origine del culto, riffs che ricamano gelide melodie, un drumming preciso e tonante e linee vocali convincenti. “Ordo Opera Cultura”, il brano successivo, ridimensiona quello che sembrava essere una buona partenza e purtroppo, seppure più interessanti, i brani successivi, “Aux Chiens” e “Granit”, non bastano a rendere questo EP un esordio da ricordare. Chiude il tutto l’outro “Gravenoire”: pioggia, un’intensa recitazione vocale ed un piano…. Credo e spero che con una registrazione ottimale ed un’ispirazione differente, il primo full-length di questa band possa davvero essere interessante, del resto le potenzialità ci sono tutte. Ma al momento “Devant la Porte des Étoiles” non ci esalta.
Ultimo aggiornamento: 19 Agosto, 2024
Top 50 Opinionisti -
A volte è difficile spiegare a parole il senso di desolazione interiore. Quel prelibato stato d’animo che vibra tra le tese corde di una rabbia inespressa a causa di un elevato tasso misantropico. Le convenzionali parole non saranno mai sufficientemente incisive da poter trasmettere il variegato e caotico spettro emozionale di questi deliziosi sentimenti impregnati d’ombra. Ci riescono perfettamente i Blaze of Perdition, attraverso la loro musica e lo fanno con estrema eloquenza. Esponenti della malsana ed accattivante scena polacca, giungono con “Upharsin” al loro sesto full-length. Un velenoso concentrato di dissonanze che fanno da colonna sonora al tragico armageddon di un animo lacerato. La voce di Sonneillon è infatti una lama affilatissima in ognuna delle cinque tracce che compongono l’album, tortura l’ascoltatore nella sua isterica narrazione di storie provenienti dai più ignoti meandri del terrore. Musicalmente abbiamo a che fare con delle strutture solo apparentemente immediate ma, in realtà, sono frammenti di un viaggio sonoro molto articolato, spesso caratterizzato da struggenti dissonanze. Il tutto è tenuto in piedi da una sessione ritmica svestita da ogni tipo di inutile fronzolo, grezza… diretta… efficace. Apre questa danza sulle fiamme “W kwiecie rozłamu”: caos e desolazione si avvicendano durante un lungo e tumultuoso abbraccio, ed una glaciale melodia resta tatuata nell’inconscio diventando sinapsi tra le nostre cellule. Inquietudine ed oppressione caratterizzano brani come “Przez rany” e “Architekt” che ipnotizzano l’ascoltatore, rendendo impossibile ogni sorta di distrazione, ogni nota, ogni colpo è nel posto giusto al momento giusto. “Niezmywalne” oltre alle sopra citate atmosfere, presenta anche sfuriate old school che comunque risultano sempre funzionali e ben contestualizzate con le intenzioni della band. La chiusura di questo piacevole calvario sonoro è affidata a “Młot, miecz i bat”, brano sontuoso, eccezionali ed ispirate chitarre tramano melodie incastonate nei freddi ghiacciai della perdizione. “Upharsin” possiede, a mio avviso, un solo difetto: l’eccessiva durata dei brani, che potrebbero esprimere il concetto in maniera più concreta anche con due/tre minuti in meno. L’album è composto da cinque brani, altri due o tre li avrei graditi.
Ultimo aggiornamento: 14 Agosto, 2024
Top 50 Opinionisti -
Ricordo, soprattutto negli anni '90, di quanto l’esterofilia abbia caratterizzato gli ascolti e i criteri di valutazione dei lavori delle bands nostrane. Ogni rutto proveniente dall’estero valeva sempre più attenzioni rispetto al concreto valore delle nostre risorse. Questa fastidiosa caratteristica ha spinto i gruppi tricolore ad un impegno ed una dedizione estenuanti. Perseveranza e costanti mutamenti erano alla base del duro percorso che per fortuna nei decenni è riuscito a cambiare un po’ le cose. I Forgotten Tomb, dopo venticinque anni di attività e undici Full-length all’attivo, credo conoscano piuttosto bene quel tipo di perseveranza di cui sopra. Reduci anche loro da vari mutamenti del loro stato d’animo compositivo, giungono ad un nuovo capitolo con un lavoro, “Nightfloating”, impregnato di suggestioni figlie della dedizione passata, e d’orgoglio che proietta nel futuro la loro accattivante mistione di melodia ed ombra. La passione del loro emotivo Black Metal, in questo nuovo capitolo del loro percorso musicale, gode di una notevole produzione. La potenza di un suono corposo e le nitide strutture rendono giustizia a tutti gli strumenti, l’equilibrio è pressoché perfetto e induce l’ascoltatore in un’immersiva esperienza sensoriale. I due brani d’apertura, “Nightfloating” e “A Chill That You Can’t Taint”, sono un esempio lampante di come si possa essere irruenti conservando una certa sensibilità d’animo. Concetto che ci viene assolutamente sottolineato dall’intensità delle linee vocali, cariche di un dolore che sembra adorare la malinconia della quale è impregnato. “This Sickness Withered My Heart” alterna interessanti episodi ridondanti ad aperture melodiche che ne sventrano l’umore malsano lasciandoci assaporare territori più sognanti ed eterei. La successiva “Unsafe Spaces”, seppur tutelando i principi che contraddistinguono l’album, risulta soggiogata da un'indole più malsana e velenosa, impreziosita da un assolo dal gusto classico. La suggestiva traccia strumentale “Drifting” strega e seduce l’ascoltatore, conducendolo alla conclusiva “A Despicable Gift” che con il suo nero incedere percorre sentieri Black'n'Roll carichi di un apprezzabilissimo groove, dove non si fanno desiderare le puntuali aperture melodiche, sempre pronte a squarciare il buio siderale donandogli quella penombra che lo rende così affascinante. Un lavoro che ci mostra ancora una volta una band in splendida forma, che ha fatto della sua mutevole attitudine il cardine di uno stile che sta iniziando a renderli sempre più riconoscibili.
Ultimo aggiornamento: 10 Agosto, 2024
Top 50 Opinionisti -
Adoro il modo tutto suo che ha di stupirmi il buon vecchio, ma mai troppo, Black Metal. Soprattutto quando lo fa attraverso i veicoli meno blasonati o, comunque, attraverso le bands che non ti aspetti. Mi appresto dunque a parlarvi di uno dei finora più preziosi sigilli neri dello scrigno del Black Metal di quest’anno: “Contagion Zero” dei danesi Horned Almighty, attivi dal 2003 ed arrivati con questo lavoro, al loro settimo full-length. E’ bene precisare che non ci troviamo al cospetto di un capolavoro assoluto, ma ho apprezzato tantissimo il modo con cui nel tempo la band si sia scostata dai cliché di vecchia scuola dei loro primi lavori. Una venefica ricerca di un mutamento che li ha portati a strutture più complesse, che hanno dato vita ad un vortice sonoro corposo e graffiante al tempo stesso, impreziosito qua è là da magnetiche dissonanze che impegnano l’ascoltatore in un reame sonoro che non perdona distrazioni. Si parte con “The Messiah Scourge”, che dopo un inizio molto suggestivo, investe l’ascoltatore con un riffing potente e cadenzato ma non privo di accattivanti e tenebrose melodie. In questo brano, nella seconda metà, è presente anche uno dei riff più belli che io abbia ascoltato ultimamente e che ha il potere di riecheggiare in testa come una seducente nenia. Perfetto e metodico anche il dosaggio delle parti più vorticose con gli episodi d’inquieta atmosfera. Caratteristica apprezzabile in brani come “Gospels of Sickness” o “Vermin on the Mount”. “Ascension of Fever and Plague” è il brano successivo, ipnotica la sua progressione, ti guarda dentro con occhi neri come la pece, esaltato dalle doti di una sezione ritmica molto precisa. L’album è infatti caratterizzato da un drumming molto corposo e dannatamente preciso, impreziosito da un notevole sound di basso, le quali corde frustano l’udito come fosse un peccaminoso schiavo dell’inferno. “Furnace of Sulphur and Fire” si assesta su atmosfere più classiche, riportando alla mente quei fantastici anni '90. L’eruzione sonora di “Darken the World” ci catapulta, invece, dritti nell’intestino di uno dei brani più riusciti e significativi dell’intero lavoro. Qui risulta palese l’idilliaco matrimonio tra il Black e il Death Metal di scuola svedese, seppure la band abbia la spettacolare capacità, e lo si evince dall’ascolto dell’intero lavoro, di non proporre vincenti soluzioni già abbondantemente proposte dai più illustri colleghi, bensì ne esplora sempre di nuove, riuscendo a volte a sorprendermi. In chiusura “Epilogue ... of Hades and of Death”, uno strumentale che serve solo a farci bramare per un successore di questo gran bel capitolo della storia degli Horned Almighty.
Ultimo aggiornamento: 21 Luglio, 2024
Top 50 Opinionisti -
Da quando la musica ha emesso il primo vagito, è stata capace di trasmettere ogni sorta di emozione. Esiste musica per tutte le stagioni, musica per ridere, piangere, amare, odiare. Nel nostro variegato panorama Metal esiste una band che attraverso le proprie note rende il cielo uggioso e le foglie secche iniziano a danzare giù dagli alberi. Signori della nostalgia, maestri della malinconia: gli Alcest tornano sulle scene dopo cinque anni dall’ultimo full-length con “Les Chants de l'Aurore”. Preparate dunque i fazzoletti, l’autunno che alberga nel profondo delle nostre anime troverà qui le vibrazioni ideali per deliziare la nostra più viscerale predisposizione alla romantica decadenza. Fin dal brano d’apertura, “Komorebi”, risulta evidente come la malinconica predisposizione del duo francese sia questa volta illuminata da pallidi raggi di luce. Una speranza immersa per tutta la notte nelle acque di una profonda nostalgia, inizia ad asciugarsi alla luce di un timido sole che filtra tra gli alberi all’alba (che per sommi capi è il significato della parola giapponese che da il titolo a questa canzone). Il sole adesso è più alto e lo capiamo attraverso le rassicuranti note delle due tracce successive: “L'Envol” e la splendida “Améthyste”, capace di far drizzare per l’intera durata tutti i peli del mio villoso corpo. In questo brano troviamo anche delle rare screaming vocals che ormai hanno totalmente lasciato spazio alle emozioni crepuscolari del cantato in pulito dell’ispiratissimo Neige, che come di consueto, anche in questo lavoro ha suonato tutti gli strumenti esclusa la batteria, dove troviamo Winterhalter, il sempre preciso e costante battito di queste emozioni sonore. Si procede con altri frammenti di viscerali sensazioni: “Flamme Jumelle”, forse il pezzo che mi convince meno, precede “Réminiscence”, che dopo un lacrimoso intro di pianoforte, ci lascia totalmente inermi tra suadenti vocalizzi che ci trascinano qua e là negli angoli più remoti dei nostri universi interiori. “L’Enfant de la Lune” arriva quando sembra che il sole abbia asciugato totalmente la nostalgia, ma ci rendiamo conto che fondamentalmente è un po’ come se ce l’avesse cementata addosso, non va via, forse non lo farà mai e la conferma non tarda ad arrivare con la struggente traccia in chiusura: “L’Adieu”….
Ultimo aggiornamento: 09 Luglio, 2024
Top 50 Opinionisti -
Un percorso iniziato nel 1990 e conclusosi nel 2022 quello dei Nifelheim di Per “Hellbutcher” Gustavsson. Un percorso portato avanti attraverso la perfetta simbiosi tra elementi caratterizzanti del Black e del Thrash Metal. Un percorso che evidentemente non aveva ancora raggiunto la sua meta, visto che Per, dopo aver coinvolto membri di assoluto rispetto e valore, torna prepotentemente sulle scene con una nuova creatura rispondente al nome di Hellbutcher. L’omonimo album che ne è venuto fuori, gode dunque del miglior compromesso tra il Thrash di scuola teutonica anni '80/'90 e il Black più velenoso e pestifero, nonché di una formazione che rende efficace ogni momento di “Hellbutcher”: alle chitarre abbiamo Necrophiliac (Mordant) e Iron Beast (Unleashed, ex-Necrophobic), al basso Eld (Gaahls Wyrd) ed alla batteria Devastator (Bloodbath, ex-Opeth). Si inizia con “The Sword of Wrath”, che dopo un’intro molto evocativa ci catapulta nelle atmosfere che caratterizzeranno più o meno tutto il lavoro: uno strepitoso gusto melodico al servizio di un assalto sonoro sempre efficace ed accattivante. Le successive “Perdition” e “Violent Destruction” emozioneranno i più nostalgici, questi due brani, infatti, incarnano appieno l’attitudine che ha reso seminali Venom e Kreator. Uno dei momenti più oscuri, soprattutto nel ritornello, ce lo regala “Hordes of the Horned God”, brano arricchito da episodi solistici dal raffinato gusto Heavy Metal. “Death’s Rider” è una corsa in moto lungo una delle strade più tetre e malsane dell’intero album, anche qui la fusione tra Heavy Metal classico, Thrash e Black è assolutamente perfetta, in alcuni episodi del brano, ho addirittura pensato ai Grave Digger. Il pezzo in cui invece brucia con più efficacia la fiamma del Black Metal è sicuramente la conclusiva “Inferno’s Rage”. “Hellbutcher” è sicuramente un album che non spiazzerà nessuno. Tutte le soluzioni, soprattutto per chi ascolta questo genere da trent'anni, sono sentite e risentite, ma bisogna ammettere che la qualità di cui è intriso, lo rende un ascolto obbligato per chi adora il metallo in tutte le sue variegate sfaccettature.
Ultimo aggiornamento: 28 Giugno, 2024
Top 50 Opinionisti -
Prima di iniziare a parlarvi di questo lavoro, mi sembra doverosa una premessa: non sono mai stato un estimatore dei live album da ascoltare in casa. Per me live significa immersione totale in quel luogo meraviglioso che fa da scenario alle performance delle nostre bands preferite. Il live è uno spettacolo per tutti i sensi, ed è così che lo si dovrebbe vivere. Ho sempre reputato superflue questo tipo di uscite discografiche, anche quando si tratta di bands che adoro o stimo come nel caso dei Cradle Of Filth. Band che seguo da quando per la prima volta il mio stereo ha fatto vibrare nell’aria quelle inquietanti e spettacolari suggestioni dell’appena uscito “V Empire or Dark Faerytales in Phallustein”. Al di là di questa mia personale premessa, posso dire che “Trouble and Their Double Lives” non toglie e non aggiunge nulla agli oramai 32 anni di storia della band. Chi li ama continuerà a farlo, chi li detesta non cambierà opinione. Il repertorio proposto è stato registrato durante vari live tenutisi tra il 2014 e il 2019 (una sorta di antologia live) e ripercorre quasi interamente la storia discografica di Dani e dei suoi vampiri, ad eccezione di alcuni album, tra cui le due pietre miliari che rispondono al nome di “The Principle of Evil Made Flesh” e “V Empire or Dark Faerytales in Phallustein”. Il lavoro di Scott Atkins presso i Grindstone Studios ha reso qualitativamente eccellente il viaggio sonoro nei meandri di ognuno dei brani. Si inizia con l’orrorifica teatralità di “Heaven Torn Asunder”, che insieme alla tetra e dissacrante furia di “Haunted Shores” rappresentano l’essenziale “Dusk… and Her Embrace”. Si procede con la tormentata e spettacolare “Blackest Magick in Practice”, tratta da uno dei loro album più riusciti dell’ultimo decennio: “Hammer of the Witches”. Attraverso l’evocativa “Honey and Sulphur” si passa alla nera eleganza di “Nymphetamine” arrivando ad episodi straordinari con “Born in a Burial Gown” , “Desire in Violent Overture”, “Bathory Aria” e “Saffron’s Curse”. L’album del 2017 “Cryptoriana – The Seductiveness of Decay” trova voce con le due oscure perle “Heartbreak and Silence” e “You Will Know the Lion by His Claw”, che mette fine al vostro cullarvi nel sudiciume. Concludo spendendo due parole sui due inediti contenuti in questo lavoro: “She Is a Fire” e “Demon Prince Regent”. Entrambi i brani viaggiano sui binari che ormai caratterizzano il percorso intrapreso dai Cradle Of Filth. Un approccio chitarristico che basa le sue fondamenta su un Heavy Metal di matrice più classica, magistralmente si impregna delle decadenti e romantiche nebbie che da sempre avvolgono l’essenza stessa della band. Le trame tastieristiche sfoggiano tutto il loro sinistro e seducente potere, mentre la squillante ugola del Nosferatu Dani prende e rasoiate ogni singolo raggio di sole che soltanto provi a diradare la sopracitata nebbia. Andate a vederli dal vivo… ma sul serio.
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