Opinione scritta da Oneiros
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Top 50 Opinionisti -
Sul fronte del black metal farcito di elementi e atmosfere folcloristiche, gli Stati Uniti posso vantare un discreto numero di band veramente grosse come Agalloch, Windfaerer, Falls Of Rauros e Panopticon. È su questa strada già tracciata da altri che, con il loro primo album "The Inanimate Earth", cominciano il loro percorso i Felled. Non si tratta letteralmente di un vero e proprio inizio da zero, per la formazione dell'Oregon, però, perché per il quartetto di Eugene in realtà ha mosso i suoi primi passi all'inizio degli anni '10. Cavan Wagner e Jenn Grunigen hanno messo su i Moss Of Moonlight e pubblicato con quel nome un album e un EP; è stato solo nel 2014 che l'ex duo ha cessato l'attività e ha cambiato pelle, trasformandosi nell'attuale e più completa formazione il cui debutto — avvenuto sotto l'egida della Transcending Obscurity — discutiamo in questa sede.
Tra i principali rischi dell'infilare le mani nel calderone del folk black c'è ovviamente quello di risultare derivativi e poveri di originalità. Dal canto suo, "The Inanimate Earth" non teme i paragoni con gli album chiave del genere, in quanto per sua natura intrinsecamente legato a un approccio e a una visione delle cose sui generis, un po' come il cascadian per i Wolves In The Throne Room. Allo stesso tempo, sfortunatamente, il paragone coi WITTR mette in luce l'unico vero neo del debutto sulla lunga distanza dei Felled: la mancanza di intuizioni grandiose. Quest'anno ci troviamo a fare i conti con l'uscita di un altro disco su queste coordinate che, con molta probabilità, non sarà passato inosservato ai fan del genere, ovvero "...and Again into the Light" dei Panopticon, e a breve farà la sua comparsa anche "Primordial Arcana" della summenzionata creatura dei fratelli Weaver. In una scena simile, circondato da colleghi di così alta levatura, un album come "The Inanimate Earth" non ha chance di far gridare al capolavoro, purtroppo.
Le idee messe in gioco dai Felled, sia ben chiaro, non sono brutte o tanto meno tacciabili di essere derivative, ma le composizioni del quartetto mancano di quel quid tale da portare la band al famigerato livello successivo. I growl, le voci pulite, gli strumenti acustici tradizionali, le trame intricate e articolate, le atmosfere dense, i passaggi dai momenti di più ampio respiro ai riff in tremolo su blast serrati: le basi ci sono tutte, non c'è dubbio, eppure il "ma" resta amaramente in bocca alla fine di ogni ascolto.
Visto e considerato tutto, i Felled si meritano la promozione. Un giudizio nettamente più positivo che negativo dato coscientemente sulla fiducia: perché dopo quaranta minuti di "Inanimate Earth", è palpabile la prossimità del quartetto alla produzioni di grandi cose. Dita incrociate, che il futuro dei Felled non ci riservi brutte sorprese.
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Come la ricca sequenza di riferimenti musicali inserita in descrizione lascia intendere, dagli Xael c'è da aspettarsi un bel po' di epicità. Per nostra fortuna, non si tratta di vane promesse, perché il secondo album sulla lunga distanza della formazione statunitense — alla quale durante lo scorso anno si sono uniti il cantante Josha Niemeyer, il chitarrista Chris Hathcock (anche nei The Reticent) e, guarda caso, Brad Parris dei Nile in qualità di bassista e urlatore provetto — non delude.
"Bloodtide Rising" esce per Pavement Music e continua sulle coordinate fantasy/fantascientifiche in salsa symphonic death tracciate dalla band con il suo primo disco, "The Last Arbiter" (Test Your Metal Records, 2018). Non so se si tratti di un vero e proprio sequel, se di una trama ambientata nello stesso universo narrativo ma separata dagli eventi descritti tre anni fa o se, piuttosto, "Bloodtide Rising" sia uno svarione completamente nuovo; al netto di questo, il fatto che si tratti di un concept album si incastra alla perfezione con la volontà di suonare grossi ed epici degli Xael.
Dalla introduttiva "Suun Rai Aru (Passion Begets Ruin)" alla conclusiva "The Odium and the Contrition", gli Xael ci presentano una spirale evolutiva indubbiamente valida. I tamburi massicci, il cantato quasi ipnotico e le ritmiche tribali influenzate da Wardruna e Heilung preparano il terreno e infiammano gli animi per poi far posto a un death metal grosso e corpulento, nella vena — non c'erano dubbi su questo — dei Nile, addolciti per quanto possibile da alcune movenze sinfoniche tipiche dei Septicflesh o dei nostrani Fleshgod Apocalypse. Gli elementi acustici tipici dell'animo folk del progetto non si concentrano nell'intro o in "The Red Odyssey", ma si ritrovano sparsi anche qua e là a impreziosire gli estremismi distorti presenti nel resto della scaletta, come ad esempio nell'apertura di "The Waste of Dreadrift".
La commistione di tematiche fantastico-fantascientifiche e death sinfonico, come anticipato, produce giocoforza un risultato fortemente epico, ma va sottolineato come sia anche merito delle composizioni e degli arrangiamenti dei brani contenuti in "Bloodtide Rising" a fare la differenza. Certo, non siamo davanti a un album rivoluzionario, ma i nove pezzi proposti si difendono benissimo e compensano l'ovvio debito nei confronti di molte altre realtà ben affermate con idee talvolta molto azzeccate; in questo senso, cito a esclusione di equivoci l'elemento più riuscito del lotto, "Srai – The Demon of Erring", nella quale sembrano coesistere addirittura anche echi dei primi Epica.
Non so cosa riserverà il futuro agli Xael, ma sono molto curioso di scoprire dove andranno a parare, i Nostri. Non ho difficoltà a immaginarmeli in tour con gente di un certo spessore o sotto contratto con un'etichetta più grossa della Pavement, dopo questo "Bloodtide Rising".
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Papà Lemay sarà felice della profonda influenza che la sua lunga carriera coi Gorguts ha avuto sul mondo del death metal mondiale. In Canada, la tradizione legata al metallo della morte è sviluppata e diffusa quanto quella black metal e nuove band spuntano fuori dal sottobosco estremo locale come funghi; non ultimi, in ambito death, i Fumes. Fortemente in debito coi già nominati Gorguts, ma anche coi pezzi grossi della scena di Tampa, Florida, il polistrumentista Daniel Bonofiglio (attivo in Grotesque Mass, Gutvoid, Internal Infestation ed Inverted) e il cantante Brendan Dean (Gutvoid, Pukewraith, Simulacra, Wexler's Prime) hanno dato vita al progetto appena un anno fa, dedicandosi in pieno stile old school alla pubblicazione di singoli, split ed EP come se non ci fosse un domani. Entrati nel radar delle etichette presumibilmente grazie allo split coi Thorn, uscito a gennaio per l'americana Life After Death, i Nostri tagliano il traguardo della prima uscita in CD sotto l'egida di Morbid Chapel Records, che di marciume se ne intende.
È così che arriviamo, finalmente, ad "Assemblage Of Disgust": una compilation di poco più di venti minuti che raccoglie i brani contenuti nei primi due EP dei Fumes — ovvero "Within Mental Ruins" e "Towards Degradation" — assieme a una new entry. "Drain The Ichor", anticipata come singolo, è il pezzo spartiacque della compatta scaletta di questo assemblaggio del disgusto. Un sorbetto all'icore particolarmente gradevole, un po' come gli altri brani della raccolta. Tuttavia, al netto della bellezza da manuale dei riff ciccioni e delle occasionali dissonanze, della voce cavernosa e dei tupa-tupa e blast vari della batteria, "Assemblage Of Disgust" non offre particolari spunti o sorprese. Un dischetto piacevole e senza infamia, certo, ma sfortunatamente anche senza lode. Gradevole e, sì, marcio al punto giusto, ma per ora niente di più per il duo canadese. "Assemblage Of Disgust" è indice del fatto che del fumo c'è: speriamo ci sia anche un arrosto, da qualche parte.
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È dalla Pennsylvania di Black Crown Initiate e Rivers Of Nihil che arrivano — o, meglio, tornano — gli Alustrium. Il quintetto statunitense lascia passare appena un anno dall'uscita del suo ultimo EP "Insurmountable" per pubblicare il suo terzo album in circa un decennio di attività. Proprio così, "A Momentum To Silence" è una pietra miliare nella carriera nemmeno poi così breve dei Nostri, non solo perché ne marca un anniversario importante ma anche perché segna l'approdo del quintetto per la prima volta su un'etichetta degna di nota, la Unique Leader Records.
Nata come Altered Image due anni prima, la creatura di Philadelphia ha assunto il suo attuale nome nel 2010. Da allora ci sono stati diversi avvicendamenti tra le fila della band, ma il nucleo portante, per così dire, composto dal cantante Jerry Martin e dai due chitarristi Chris Kelly e Mike DeMaria, è rimasto intatto. Forse è anche per questo la proposta di "A Momentum To Silence" risulta così bilanciata e stabile: l'alchimia tra i tre, con più di un decennio di collaborazione alle spalle, dev'essere stata tale non solo da consentire la stesura di un'ora e spiccioli di prog death di un certo spessore, ma anche di rendere il tutto tanto articolatamente eterogeneo quanto fluidamente coerente.
I nomi citati in apertura dei Black Crown Initiate e dei Rivers Of Nihil non sono lì a caso solo perché formazioni connazionali degli Alustrium, ma anche e soprattutto perché da un punto di vista musicale non mancano le affinità con gli autori di "A Momentum To Silence". Le tre band, infatti, sono attive più o meno dallo stesso tempo e le discografie di ognuna di loro conta più o meno lo stesso numero di uscite, eppure i nomi di BCI e RON hanno avuto un'eco maggiore rispetto a quello dei Nostri; una discrepanza significativa che, potenzialmente, "A Momentum To Silence" potrebbe contribuire a livellare. I dieci brani inclusi nella sua scaletta, infatti, hanno al loro interno idee tutt'altro che banali capaci di evolversi evitando le soluzioni più semplicistiche, con riff convoluti, voci sporche ottimamente eseguite e architetture di batteria progettate con estrema minuzia.
Pollici in su per il terzo album degli Alastrium, dunque. Che il futuro gli riservi meno problemi e che il successore di "A Momentum To Silence" arrivi prima del 2027. Nel frattempo non mi stupirebbe trovarmi a leggere il nome dei Nostri accanto a quello dei succitati connazionali, degli Allegaeon o degli Arsis in occasione di tour o festival: le potenzialità per farsi un nome di tutto rispetto direi che ci sono tutte.
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Ravenoir è il nome della nuova creatura di Alesh AD, personaggio tutt'altro che nuovo nel sottobosco estremo ceco. Il chitarrista e cantante della neonata creatura al debutto su Gothoom Productions, infatti, serve tra le fila degli storici Root dal '96 e questi venticinque anni di militanza nell'underground estremo si sentono tutti in "The Darkest Flame Of Eternal Blasphemy". A dare manforte al mastermind Alesh, inoltre, troviamo altre figure già invischiate nell'estremo, come il suo collega nei Root Igor Hubík (Equirhodont, Solfernus) al basso e Jakub Maděryč di Debustrol e Hellocaustor alle chitarre; insomma, gente piuttosto navigata.
Già dal titolo, "The Darkest Flame Of Eternal Blasphemy" chiarisce subito dove vuole andare a parare, e sin dal primo ascolto l'intuizione è confermata. Con il loro album di debutto, i Ravenoir ci portano direttamente in un mondo a metà tra black e death metal, fatto di melodie tentatrici e sermoni sulfurei a lode e gloria della più infernale delle oscurità. Il sound dei Nostri non si presenta come uniformemente tendente al black o al death, ma si riconoscono chiaramente le preferenze verso il secondo; da questo punto di vista, "Hellfire's Icon" rappresenta un'ottima sintesi delle intenzioni più malevole del quartetto: non solo perché è una traccia compatta e tiratissima, ma anche perché al suo interno gli insegnamenti dei Rotting Christ sono declinati in chiave squisitamente death metal da Alesh e compari, con risultati molto soddisfacenti.
Non tutti i brani di questo debutto dimostrano la medesima qualità, va detto. Le accelerazioni ferali al limite del thrash necrodeathiano esibite in "Blood Pact" non sono sempre dietro l'angolo e le occasionali aperture atmosferiche (come nella conclusiva e neo-behemothiana "Alter Ego") non conquistano come le sfuriate del quartetto di Brno. Ci sono sì alti e bassi, ecco, ma al netto di questo il giudizio complessivo è tutto sommato positivo. Perché sì, per essere un primo album, "The Darkest Flame Of Eternal Blasphemy" non si presenta affatto male. Non reinventa nulla, non fa gridare al capolavoro, ma nel suo piccolo il primo album dei Revenoir rappresenta un ascolto gradevole per chiunque apprezzi questo tipo di estremismi. Insomma, una piacevole variazione sul più infernale dei temi.
Ultimo aggiornamento: 06 Giugno, 2021
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In tutta franchezza, a un primo ascolto i Dead World Reclamation mi sono sembrati una band intrigante, con una propria identità piuttosto originale nel mondo del deathcore. Tuttavia, dopo tutte le ricerche del caso, è facile rendersi conto che "Aura Of Iniquity" in realtà non è altro che un disco assolutamente standard, quasi al limite dell'album di circostanza.
Inizialmente, l'approccio dei cinque americani mi aveva intrigato, dicevo, specialmente per la vena quasi power all'interno del suo mix di death metal tecnico e deathcore melodico, un po' come se i Children Of Bodom dei primi Duemila si fossero messi a comporre assieme ai The Black Dahlia Murder. Tuttavia, proseguendo con gli ascolti ed esplorando meglio le moderne espressioni di questo frangente di -core, i Dead World Reclamation finiscono per somigliare terribilmente una copia di Inferi, Alterbeast e dei già citati TBDM.
Okay, magari per un secondo album potremmo anche starci. La prova, infatti, isolata dal contesto esterno, non fa completamente pena: forse un po' dispersiva, la scaletta, ma la produzione rende giustizia ai canoni del genere. Il problema, almeno il mio problema, con "Aura Of Iniquity", sta nelle idee. Al primo ascolto, "Ripped From The Grave" non mi ha fatto una cattiva impressione, ma nessuna delle dieci tracce mi ha conquistato; andando avanti con le ripetizioni, però, tutto ha iniziato a ristagnare ed anche la durata uniforme, sempre compresa tra i 4 e i 5 minuti, ha contribuito a rendere i pezzi uno uguale all'altro, alle mie orecchie.
Al netto di tutto, insomma, non benissimo. Le doti tecniche dei Dead World Reclamation sono fuori discussione, ma la loro ispirazione è fragilissima. "Aura Of Iniquity" potrebbe essere un ascolto interessante per l'appassionato del genere costantemente alla ricerca di novità, ma dubito che anche chi bazzichi casualmente il deathcore tecnico e melodico possa finire per legarsi a questo full-lenght. Un gran peccato.
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La pandemia ha obbligato tantissimi progetti a chiudere bottega: non solo piccole realtà underground, ma anche pezzi grossi come gli Anathema si sono trovati schiacciati dallo schifo di questi mesi. Di contro, tra i sopravvissuti, qualcuno ha beneficiato, tra molte virgolette, di questa situazione di stallo: un nome a caso, quello del buon Esa Holopainen. Il fondatore degli Amorphis, infatti, pare abbia approfittato della stasi del 2020 per dare sfogo alla sua passione per il prog, facendosi accompagnare da qualche suo collega vagamente conosciuto nell'ambiente. Molto, molto in breve, questa è la storia della nascita del progetto "Silver Lake".
Armatosi di tanta voglia di fare, Esa ha imbracciato la sua fedelissima chitarra e aver arrangiato i nove pezzi che compongono "Silver Lake By Esa Holopainen" con la solita maestria di sempre. Se però ti aspetti da quest'album una copia carbone delle idee classiche degli Amorphis, ti sbagli. Certo, la presenza di Tomi Joutsen su "In Her Solitude" potrebbe trarre in inganno, così come quella della Van Giersbergen — collaboratrice in diverse occasioni della band di Holopainen — alle voci della penultima "Fading Moon", ma "Silver Lake" non si ferma qui. Come lascia premonire la presenza di Einar Solberg dei Leprous, l'album è in realtà molto più volto verso lidi progressivi e, mi si passi l'espressione, leggeri. Le chitarre acustiche e in clean abbondano, quelle distorte difficilmente sono grosse quanto ci aspetteremmo dal fondatore degli Amorphis, ma ciò non toglie che, seppur seguendo dinamiche tutt'altro che estreme, "Silver Lake By Esa Holopainen" sia un disco assolutamente piacevole.
Alcune piccole perle, a mio avviso, meritano una menzione extra. La mediana "Alkusointu", sulla quale godiamo della voce dell'attore finlandese Vesa-Matti Loiri, è una piccola gioia per gli animi più cupi. Sempre su queste stesse tonalità di nero, poi, si collocano (anche giustamente, direi) le collaborazioni con Jonas Renkse: "Sentiment" e "Apprentice" sono due brani quasi catatonici, in cui la voce perfetta del nostro svedese preferito si adagia sulle trame acustiche tessute ad hoc per lui da Holopainen, aprendo e chiudendo — a meno della strumentale eponima "Silver Lake" — quel cerchio che è la scaletta di "Silver Lake By Esa Holopainen", preludio più che adeguato allo spessore della traccia successiva. Inoltre, e questo è tutt'altro che scontato, i toni prog del resto dell'album mi hanno ricordato non poco quelle degli Ayreon più calmi e pacati, specialmente in certi momenti di "01011001" — alle registrazioni del quale, guarda caso, aveva partecipato anche lo stesso frontman dei Katatonia.
Insomma, approcciarsi a "Silver Lake By Esa Holopainen" aspettandosi di ascoltare l'ennesimo (ottimo) disco degli Amorphis è la cosa peggiore da fare, in questo caso. Se ti incuriosisce il progetto, dai una possibilità all'animo prog di Esa Holopainen e non te ne pentirai. Se, invece, speravi in una prova più estrema, stanne pure tranquillamente alla larga; ti perderai un disco piacevolissimo, però.
Approcciarsi agli Esoctrilihum è... Una sfida. I fans del progetto del solo quanto sconosciuto Asthâghul lo sanno bene, i neofiti lo scopriranno in men che non si dica: la proposta del progetto francese lo è, e non può non essere altrimenti. Tentare di definirla appieno a parole, sperando che queste riescano a coglierne tutte le sfumature e risultino in una descrizione totale e accurata, è utopia, perché dietro la produzione di "Dy'th Requiem For The Serpent Telepath" — come quella di qualsiasi altra opera firmata nell'ultimo lustro dal titano d'Oltralpe — si nasconde una Shangri-La di orrori indescrivibili e meraviglie psicotrope.
I settanta minuti del sesto album della creatura di Asthâghul riprendono ancora una volta il delirante discorso intriso di misticismo e passione per l'occulto lasciato in sospeso dal suo predecessore — in questo caso, l'apprezzatissimo "Eternity Of Shaog" (I, Voidhanger Records, 2020). Ancora una volta in collaborazione con l'etichetta nostrana più attenta agli estremismi meno consueti, ancora una volta seguendo quegli stilemi che ormai sono il marchio di fabbrica degli Esoctrilihum, "Dy'th Requiem For The Serpent Telepath" si presenta all'ascoltatore con una copertina meno concettualizzata e più vibrante delle precedenti, a mio avviso, opera dell'artista slovacca Dhomth — autrice anche degli artwork di "Apotheosis" (I, Voidhanger Records, 2020) degli Ars Magna Umbrae e di "Moksha" (Beyond Eyes, 2020) dei Cult Of Fire. Se anche tu sei rimasto di sasso davanti all'illustrazione in copertina, probabilmente il contenuto dell'opera non deluderà le tue aspettative, che tu sia già fan del progetto o meno.
Atmosfere supermassicce e inverosimilmente dense, strati su strati di chitarre lisergiche e rimtiche tanto articolate quanto fuori controllo sono la materia prima sulla quale il cantato ossessivo di Asthâghul si innesta. Dodici mantra, suddivisi in quattro parti, compongono il nuovo rituale di casa Esoctrilihum. "Dy'th Requiem For The Serpent Telepath" si apre con Serpentine Lamentations of Death, le cui prime "Ezkikur" e "Sahln" cementificano il terreno su cui "Tyurh" innalzerà il ponte per la successiva triade. The Secret Doctrines of Transmigration, quindi, procede con la messa in atto dei rituali di apertura dell'orazione abissale ("From your womb a blasphemous being will be born/I am excited by your beauty, and I'm going to kill you/A marriage of putrid favor, in your mouth, for eternity/And when your sumptuous curve reveals the truth to me/I will come to you to finally see your real dead eyes" da "Αgakuh"), mentre è in The Scarlet Flame of Transfiguration, nomen omen, che questi trovano la loro ragion d'essere. Le ritmiche dell'album, col procedere dell'ascolto, si fanno sempre più ossessive, senza che la proposta del requiem di Asthâghul non ceda neppure di un centimetro sul fronte delle tessiture atmosferiche. È così che si arriva all'ultima sezione, Methempsychosis of the Grand Telepath; la chiusura del cerchio è dietro l'angolo, ma questo non significa che sopraggiungerà in maniera meno dolorosa e irruenta rispetto ai momenti precedenti — specialmente quelli delle "offerte" e delle "invocazioni" rituali (parti II e III), il cui ascolto è decisamente molto intenso. "Nominès Haàr" e "Xuiotg" innalzano gli ultimi canti rivolti all'innominabile entità ultracosmica cui Esoctrilihum ha deciso di offrire i suoi omaggi a questo giro, mentre a "Hjh'at", la prova più breve del lotto, spetta il compito di accompagnare l'ascoltatore oltre. Il viaggio estatico è giunto al termine, il trip è finito, e quello che offre la traccia conclusiva è proprio questo, una summa delle sensazioni distorte dell'intera opera, parafrasate in maniera tale da imprimerne a fuoco il ricordo nella memoria emotiva di chi ha esperito l'opera.
C'è pochissimo altro da aggiungere: Asthâghul l'ha rifatto, in meno di 12 mesi si è assicurato di nuovo il nome della sua band tra quelli più in vista dell'anno. "Dy'th Requiem For The Serpent Telepath" finirà nella mia Top10 personale, così come sono certo non mancherà in quella di molti altri apprezzatori del black di questo tipo. Gli amanti delle follie linguistiche, inoltre, apprezzeranno senza dubbio l'uso dell'alfabeto khmer all'interno del booklet dell'opera edita dalla mai troppo applaudita I, Voidhanger. Proverete di certo a decodificarne il senso, l'ho fatto anche io, ma a quanto pare non c'è modo di gettar luce sul fondo di quell'oceano in tempesta che è l'abisso in cui vivono gli Esoctrilihum: l'unica chiave di lettura per l'opera d'arte totale del grande antico francese è la più lucida follia.
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Licenziato dalla svedese Leviaphonic Records, pubblicato in CD dalla connazionale Grind to Death Records e in vinile e cassetta dalla tedesca Corrupted Flesh Records, "Varþnaþer" è il primo album degli Åskog, duo scandinavo originario di Vänersborg, Västra Götaland. Ora, se il debutto sulla lunga distanza di un progetto, nel 2021, viene prodotto, stampato e promosso con così tanta fretta, a neppure sei mesi dall'uscita della demo "Varg" (autoprodotta nell'ottobre del 2020 e ristampata prima a febbraio da Careless Demo Records in CD e poi a marzo in cassetta da Corrupted Flesh Records), io due domande me le farei.
Dietro il nome apparentemente semisconosciuto, in realtà, si celano due figure discretamente ambientate nel sottobosco estremo di Svezia. Adam Chapman e Lars Hansson, infatti, sono stati parte attiva dei Murdryck fino allo scorso anno; in seguito allo scioglimento del progetto black attivo dal '99, i due si sono armati di santa pazienza e hanno dato vita ai qui presenti Åskog e nel giro di un annetto hanno tirato fuori dal cilindro una prima prova decisamente interessante. "Varþnaþer", difatti, è un album incisivo, dal primo all'ultimo dei suoi quaranta minuti e spiccioli. Nella proposta del duo, per l'occasione accompagnato alla batteria da Rod Nihilist (Grave Malefice, Phantasmagore, Putrid Yell), si avverte prepotentemente l'eco del passato melodic black della migliore Svezia. Nel riffing e nelle soluzioni ritmiche dei nostri non si fatica a rintracciare l'impatto di formazioni conterranee come Vinterland, Sacramentum e Naglfar, eppure a sorprendere è la presenza di un sottotesto norvegese che pure arricchisce le trame della formazione di Vänersborg, in primis di matrice enslavediana.
Da un lato, insomma, potremmo dire che "Varþnaþer" è un disco tagliente e ispirato, devoto alla tradizione, ai cui dei paga adeguatamente tributo. Dall'altro, ahimè, etichettare la proposta degli Åskog come derivativa non sarebbe eccessivamente lontano dal vero. Al netto di tutto ciò, però, episodi come "Vinter, "Varg" e "Korp" coniugano idee e soluzioni troppo azzeccate per non far pendere l'ago della bilancia in positivo per il duo Chapman-Hansson. Un debutto personalmente da promuovere.
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Il melodic black svedese è un trademark della nazione scandinava, sul cui suolo sono nate (e morte) alcune delle maggiori personalità legate alla storia del sottogenere estremo, ed è dalla contea di Västerbotten che arrivano i Wormlight. Il secondo album della formazione di Umeå, intitolato "Nightmother", ha visto la luce qualche giorno fa per la locale Black Lion Records ed è proprio con la tradizione della Svezia che i Wormlight si trovano a dover fare i conti, nel bene e soprattutto nel male.
La seconda prova sulla lunga distanza del quartetto capitanato dal cantante e chitarrista Tiamat Invictuz si scontra fin da subito, come detto, con uno scoglio enorme e difficilissimo da sormontare: l'eredità del melodic black svedese. Infatti, e che sia chiaro da subito, "Nightmother" non è un brutto disco: dall'apripista omonima fino alla conclusiva "By Empty Candles", l’album si presenta compatto e pregno di malignità, grosso nei momenti più epici e tagliente nelle sezioni più esplosive. No, il problema non sta nelle intuizioni proposte della creatura di Umeå quanto, piuttosto, nella tradizione con la quale esse devono tassativamente fare i conti. Se da un lato Lord Belial e Naglfar si celano nell'ombra degli arrangiamenti dei Nostri, dall'altro l’eco mefistofelica e satanassa delle sue atmosfere e dei testi lasciano scorgere il profilo del compianto Jon Nödtveidt e dei suoi Dissection; e qualsiasi tentativo di confronto con nomi di questo calibro, ahimè, è inutile da proporre.
Gli spunti ci sono e la produzione curata da Ronnie Björnström gli rende anche adeguatamente giustizia, ma il pericolo (estremamente concreto) di suonare derivativi è sempre dietro l'angolo, minuto dopo minuto, lungo tutta la durata di "Nightmother". Non posso assolutamente bocciare i Wormlight, perché non se lo meritano — dai un ascolto a "Hounds of Apophrades" e parliamone, se vuoi —, ma dopo aver ascoltato e riascoltato il loro secondo disco mi chiedo: vale davvero la pena indugiare su "Nightmother" quando si potrebbe impiegare lo stesso tempo per godersi un pezzo di storia che certe melodie e certe immagini le ha inventate una ventina di anni fa?
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