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Opinione inserita da Vera    02 Mag, 2021
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Devo dire la verità: l’unico arancione che abbia veramente apprezzato negli ultimi tempi è quello, tendente al rosso fuoco, che domina la cover di “Wild North West”, album con cui i Vreid tingono di epicità questo inizio di maggio.

Sfogliando le note che accompagnano “Wild North West”, si evince subito come questa release intenda realizzare un progetto piuttosto ambizioso: infatti, i Vreid gli hanno dato corpo come un concept album che rappresenti la colonna sonora di un film (la premiere si è tenuta proprio il 29 aprile), il cui protagonista, E., si trova a vivere in prima persona gli eventi trattati nei vari brani. Proprio dal punto di vista concettuale, scorrendo i titoli dei vari brani ci si accorge subito di come non manchi la devozione a certe tematiche che vertono sia sugli elementi naturali selvaggi e aspri tipici di quell’area geografica, sia riferimenti ad eventi bellici, che non sono estranei ai contenuti lirici della band sorta dalle ceneri dei Windir.

Dal punto di vista sonoro, “Wild North West” risulta per certi versi molto variegato, pur rimanendo sempre coeso e senza voli pindarici eccessivi. Per una buona parte del disco troviamo quel sound aspro e selvaggio che caratterizza la scuola black’n’roll norvegese, non senza delle forti tinte epiche: queste sono le sensazioni che ho avuto ascoltando, ad esempio, la title-track introduttiva, ma anche “Wolves At Sea” e “The Morning Red”.

In altri momenti del disco, invece, si respira l’aria più balsamica di una comunione più profonda con la Natura del Nord-Ovest norvegese: a titolo esemplificativo, oltre alla conclusiva "Shadowland", non posso non citare “Into The Mountains”, la traccia del disco che mi ha colpito maggiormente. Si tratta di brano dalle tinte fortemente epiche che risale addirittura al 2002 ed è impreziosito con delle tastiere inedite registrate Terje ‘Valfar’ Bakken; l’unica controindicazione di questo pezzo è che induce nella tentazione di lasciar perdere qualsiasi cosa si stia facendo durante l’ascolto e di fiondarsi in Norvegia.

A mio avviso, in verità tutte le tracce di “Wild North West” rappresentano dei piccoli capolavori che rendono se ascoltate singolarmente, ma ancor di più se si fruisce tutto l’album percependolo come una storia che si dipana man mano che si prosegue con l’ascolto. Queste caratteristiche fanno sì che lo si divori come fosse un cinghiale intero inghiottito da Obelix, senza pensarci troppo e senza rimpiangere di aver premuto il tasto “play”. Un plauso per i Vreid, decisamente.

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Opinione inserita da Vera    07 Marzo, 2021
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Cercando informazioni sui Black Sun Brotherhood, si scopre che questo trio proviene da Sarpsborg, in Norvegia, e sul finire del 2020 ha pubblicato sotto la Metal Blast Records il primo full length, dal titolo “God & Beast”.

Due sono gli elementi fondamentali che mi hanno fatto apprezzare questa release: da un lato il sound corposo e aggressivo, dall’altro la scelta di impiegare testi tratti da una vasta gamma di fonti letterarie, che vanno dal Deuteronomio biblico a Carducci, passando per Arthur Desmond, Baudelaire e così via.

Parlando del primo aspetto, i Black Sun Brotherhood sembrano riprendere in più punti i connazionali Darkthrone nella loro accezione black/punk, soprattutto in alcuni riff, ma la similitudine più ricorrente è quella con i Celtic Frost (mi riferisco soprattutto all’introduttiva “Might Is Right”, ma anche a “Black Sun Rising”). “Leviathan”, invece, mi ha suggerito un parallelismo con l’altra creatura di Tom G. Warrior, i Triptykon, dal momento che ci presenta una prima parte più lenta e solenne, tornando a guadagnare velocità man mano che il brano prosegue.

Altri momenti interessanti ci aspettano quando i Black Sun Brotherhood puntano su ritmi più incalzanti e vicini al thrash, come avviene all’interno di “Vengeance Is Mine” e “Driven By Demons”. Molto riuscita anche la strumentale “Sol Invictus”, che presenta un’apertura piuttosto complessa, quasi post-metal, salvo poi prendere una direzione molto più oscura e tendente al death.

Riuscire a trasformare il “già sentito” e il “già trattato” in qualcosa di personale è un’impresa con cui molti gruppi devono fare i conti. I Black Sun Brotherhood, però, ce l’hanno fatta, consegnandoci un full length di debutto ben fatto e ragionato, di quelli che si ascoltano volentieri anche più di una volta, a ripetizione. Consigliato.

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Opinione inserita da Vera    21 Febbraio, 2021
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Fra le (già assai numerose) uscite che stanno condendo questi primi mesi del 2021, ecco fare capolino “Unohdan Sinut” dei finnici Qwälen, che vede la stampa sotto l’egida della label italica Time To Kill Records. Si tratta del primo full length per il quintetto di Oulu e si configura come una successione di sei tracce condensate in mezz’ora circa di fruizione. Fortunatamente aggiungerei, perché un’esposizione più prolungata alla scarica di misantropia, rabbia e adrenalina a cui ci sottopongono i Qwälen quasi fa apparire il war metal alla stregua della musica da camera.

Non lasciamoci però trarre in inganno dall’etichetta appena affibbiata: “Unohdan Sinut” non è un disco war metal, bensì una serie di mazzate pressoché ininterrotte di black feroce nelle corde dei Bathory meno epici e dei Darkthrone meno glaciali, cui dobbiamo aggiungere una buona dose di crust (qua, come influenza principale, dai Nostri vengono citati i Dӧdsrit), probabilmente dovuta anche al fatto che buona parte dei membri della band abbia già gravitato intorno alla scena punk locale.

La furia forsennata che non ci abbandona praticamente mai durante tutto l’ascolto lascia trasparire delle idee più che valide a livello di riffing, sia per quanto riguarda la chitarra che il basso (merita un plauso il giro introduttivo di “Hän Ei Tule Koskaan”). A questo si aggiunge una batteria tutt’altro che inconsistente, in cui i blast beat regnano sovrani; oer quanto non manchino alcuni interessanti cambi di tempo, come avviene ad esempio all’interno di “Pimeä Tila”, brano che apre “Unohdan Sinut”, forse una distribuzione più capillare delle variazioni ritmiche avrebbe giovato alla fruibilità complessiva del disco.

A mio avviso, tuttavia, i Qwälen danno il meglio di sé quando mostrano nitidamente la componente black e quella rabbia prettamente punk all’interno dello stesso pezzo: a tal proposito, cito la titletrack, dove queste due anime non convivono solo sul piano strumentale ma anche vocale, come dimostra in maniera eloquente la capacità di Eetu di virare dallo scream misantropico più vicino al black alle vocals rabbiose e accorate tipiche, appunto, del punk.

In generale, “Unohdan Sinut” non è un album che rivoluziona il genere né un capolavoro assoluto, però lascia emergere un elemento interessante e tutt’altro che scontato in ambito musicale: i Qwälen non hanno solo buone idee compositive e altrettanto valide capacità nel realizzarle, bensì ci mettono anche la cosiddetta "coratella", elemento imprescindibile per creare una release che non appaghi solo i timpani, ma anche il cuore. Alla luce di questo, propongo due nuove categorie entro le quali suddividere l’umanità: chi riconosce ai Qwälen lo stesso mordente di un velociraptor inviperito, e chi mente.

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Opinione inserita da Vera    12 Febbraio, 2021
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Vado subito al sodo: non essendo stata pienamente convinta da “Shifting.Negative”, inizialmente mi sono approcciata a “Hostile” con una certa apprensione, chiedendomi se la recentissima fatica discografica degli Aborym avrebbe scavalcato l’album precedente. Devo confessare che l'ascolto di “Hostile” ha demolito la mia iniziale diffidenza, dispiegandosi come una release forse non sconcertante dal punto di vista dell’originalità, ma ricca di spunti interessanti.

"Hostile" è un disco dalla durata tutt'altro che contenuta: un'ora abbondante di ascolto, distribuita in ben quattordici tracce. Di fatto, ci troviamo ancora nel mondo freddo e siderurgico dell’industrial (metal), dove ormai ogni paragone degli Aborym con nomi del calibro di Nine Inch Nails e Skinny Puppy si dimostrerebbe inedito come l’ascolto di “Eye Of The Tiger” mentre ci si prepara ad un allenamento.

In tutta franchezza, all’interno di alcune tracce dell’album ho riscontrato una certa prevedibilità, come nel caso di “Proper Use Of Myself” oppure di “Nearly Incomplete”; questi brani, seppur siano eseguiti a regola d’arte e lascino trasparire chiaramente che Fabban e soci non hanno lasciato al caso nemmeno un tintinnio, non hanno dissolto completamente una certa sensazione di “già sentito”.

Attenzione, però: sarebbe un errore affermare che “Hostile” si dirami completamente in questa direzione. Al contrario, all'interno del disco troviamo anche dei brani in cui gli Aborym hanno sovrapposto in maniera convincente diversi livelli, come dei veli che lasciano trasparire suggestioni ipnotiche e meditative più vicine al post-rock (soprattutto in alcuni riff chitarristici), all’ambient, al dark jazz e a qualche sprazzo noise che riesce nell’intento di confondere l’ascoltatore; parlo, ad esempio, di “The End Of The World”, dove appare una sezione meditativa con i fiati, che mi ha ricordato gli Ulver di “Perdition City”. Oltre a questi episodi "atmosferici", non mancano i momenti più intimi e raccolti: una testimonianza lampante è fornita da “Sleep”, dedicata alla memoria del produttore Guido Elmi, che si conclude con una sezione che sembra rievocare il battito cardiaco, rendendo l’ascoltatore ben consapevole della sottile linea che divide la vita e la morte.

Per non farsi mancare nulla, inoltre, gli Aborym sono riusciti a infilare in questo album anche delle tracce che farebbero la loro figura nel palinsesto di una qualsiasi stazione radiofonica che non voglia trasmettere solo trap e pop: in questa categoria, a mio avviso, rientrano “Horizon Ignited” e “Radiophobia”, un pezzo riferito a Chernobyl in cui si ripresentano le chitarre aggressive e degli accenni di blast beat che fanno volare la mente al riuscitissimo “Without Human Intervention”.

Tirando le somme, anzichè ridefinire completamente dei paradigmi musicali già collaudati, "Hostile" sembra volerli piuttosto consolidare, arricchendoli con stimoli che magari non brillano per originalità, ma consacrano questo disco come un album più che valido e meritevole di almeno un ascolto. Approvato.

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Opinione inserita da Vera    30 Gennaio, 2021
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I tolkieniani esperti sapranno sicuramente che “Taur-Im-Duinath” è il nome in Sindarin di una cupa foresta della Terra di Mezzo, situata tra I fiumi Sirion e Gelion. Chi segue la scena nostrana, invece, collegherà questo appellativo alla one man band campana che lo scorso novembre ha pubblicato, sotto l’egida della Cult Of Parthenope, il disco onnicomprensivo “The Burning Bridges”.

Questa release si può definire “onnicomprensiva” perché raccoglie le testimonianze di un percorso che parte dalla demo “Randir”, uscita ormai un lustro fa e rivista per l’occasione, fino ad arrivare alla seconda parte di “The Burning Bridges”, battezzata “Bare Bough”. Si tratta di una suddivisione che incarna in maniera esaustiva due diverse anime del progetto scaturito dalla mente di Francesco Del Vecchio e che emergono con eloquenza durante tutto il disco.

Le prime quattro tracce di “The Burning Bridges” sono quelle appartenenti alla revisione di “Randir”: qui troviamo espresso appieno il lato più “furioso” e intenso di Taur-Im-Duinath, esplicitato attraverso quel black atmosferico e a tratti epico che vi convincerà se non disdegnate nomi come (tanto per restare sul suolo italico) i Blaze Of Sorrow. Fra i brani più convincenti di questa sezione del disco, cito “Fuochi Estinti”, che si dipana con sicurezza tra riff lavici e una sezione ritmica crepitante che si fonde con il cantato in italiano, diventando una specie di brano liberatorio e catartico.

Se la prima parte di “The Burning Bridges” ci mette faccia a faccia con il lato più poderoso di Taur-Im-Duinath, la sezione successiva ci trasporta invece in una dimensione che sembra essere dominata da una contemplazione della Natura che finisce per sembrare quasi ancestrale, diventando poi sempre più malinconica. Assistiamo anche ad un cambiamento linguistico: ai brani in italiano se ne alternano alcuni in inglese.

Proseguendo nella fruizione di questo disco, ci si rende conto che è diifficile ascoltare “Clearing Path” senza venire risucchiati in un vortice meditativo che dà la sensazione di trovarsi in mezzo ad una foresta primordiale, oppure immergersi in “Erinnerung” senza sprofondare in una malinconia che tende sempre più verso lo spleen e la tristezza; oltre ai brani citati, però, tutte le tracce che costituiscono la seconda parte di “The Burning Bridges” sono ugualmente meritevoli e impreziosite da dettagli raffinati che si ritrovano soprattutto negli arpeggi acustici, nelle linee vocali che sembrano invitare alla riflessione dolente e nei dettagli ambient come quelli che si colgono all’interno di “Night Hymn”. Un valore aggiunto a “The Burning Bridges” è costituito anche dagli ospiti presenti all’interno del disco, nella fattispecie Chiara Minniti (Writ In Water), Marco Alfieri (ex Parodos) e Dario Guarini (Aged Teen).

Complessivamente, quella di F. è una prova discografica più che soddisfacente, che ci mostra le diverse sfaccettature che la musica assume anche agli occhi stessi di chi la compone e crea; se amate le sonorità atmosferiche e l'introspezione malinconica rappresnta il vostro pane quotidiano, sarebbe un peccato non dargli nemmeno un ascolto.

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Opinione inserita da Vera    24 Gennaio, 2021
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Ole Alexander Myrholt pubblicherà a breve “Sjelebot”, il prossimo capitolo della sua nutritissima discografia; nel frattempo, per ingannare l’attesa il polistrumentista norvegese ci consegna l’EP “Rettert ing”, uscito per la Screaming Skull Records.

Con “Retterting”, Myrholt riesce nell’intento di prendere due piccioni (anche se, trovandoci in ambito black, dovremmo forse sostituire ai pasciuti volatili due corvi nefasti) con una fava: infatti, il Nostro non solo ha inserito in questo EP tre fra le tracce di“Sjelebot”, ma ci ha schiaffato anche il rifacimento in chiave black di tre brani originariamente non concepiti da artisti appartenenti a questo genere, nella fattispecie Dead Can Dance, Slayer e Black Sabbath.

Come si evince immediatamente da “Rettergang”, che costituisce il punto di partenza di “Retterting”, la rilettura operata da Myrholt non si limita ad una trasposizione in salsa black dei vari brani, ma il titolo è stato anche tradotto in norvegese, mantenendo però il testo in lingua originale. Fra le cover proposte, quella che a mio parere risulta più convincente è “Tegn Fra Universet” (“Symptom Of The Universe” dei Black Sabbath), perché conserva un’allure ruvida e allo stesso tempo quasi prog che cattura sin dal primo ascolto.

Per quanto riguarda invece I brani inediti, Til Hinnoms Dal” costituisce un ulteriore assaggio di come il progetto Myrholt sia ligio alla sua missione di proporre “né più né meno che del black metal norvegese” (come il Nostro sottolinea anche sui suoi profili social): nei riff vibranti e corposi si incarna spesso l’evocazione dei Darkthrone, mentre le sezioni con la voce pulita e una chitarra più melodica e “raccolta” fanno ripensare ai primi Ulver, una vicinanza che, a mio avviso, appare più evidente all’interno dell’acustica “Hamingja”, secondo pezzo inedito offerto da questo EP, che trasporta in una dimensione meditativa e pensosa.
Un altro brano interessante è “Antydninger Fra Kosmos”, che conclude “Rettergang” e sembra incamminarsi su un sentiero di collegamento fra il dungeon synth e la dark ambient che conduce verso atmosfere siderali e misteriose, concludendosi con un accenno sinfonico.

“Retterting” sottolinea come la longevità artistica di Myrholt lo abbia condotto a proporre brani solidi e convincenti, sia quando si tratta di elaborare musica ex novo, sia quando ci si dedica ad una rielaborazione personale di brani altrui già tutt’altro che sconosciuti. Chapeau.

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Opinione inserita da Vera    17 Gennaio, 2021
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Per me i Throwing Bricks sono come quelle crepe sui muri datati che magari sono lì da anni e anni senza che nessuno se ne accorga, poi un giorno saltano all’occhio e, da quel momento, non si riesce veramente a smettere di fissarle, perché possono sembrare grigie e ordinarie, ma nascondono una certa bellezza deteriorata in grado di suscitare uno stato di inerzia disperata.

Fondata esattamente dieci anni fa, la band di Utrecht ha fluttuato nell'underground olandese per qualche tempo, giungendo recentemente alla pubblicazione del suo primo full length, intitolato “What Will Be Lost”. È proprio dalla sensazione di vuoto e perdita di qualcosa evocata dal titolo di questa release che sembra trarre nutrimento la proposta sonora dei Throwing Bricks, che si assestano in quell’area grigia (perché cupa, non certo perché insipida) del post-hardcore mescolato con lo sludge, garantendoci una quarantina di minuti all’insegna della sofferenza esistenziale.

Il quintetto olandese si lancia senza mezzi termini in questi scenari plumbei con “What Will Be Lost/Won’t Happen Again”, brano che sviscera subito l’essenza annichilente dei Throwing Bricks, fatta di riff inesorabili che a volte sembrerebbero quasi sfociare nell’atmosferico e linee vocali allo stesso tempo aggressive e disperate, il tutto poggiato su una sezione ritmica tutt’altro che inconsistente, dove spesso spicca un basso pachidermico e ceruleo (per averne una conferma, basta prestare attenzione a “The Day He Died”).

Quando sembra che siano chiari i fili del discorso orchestrato dai Throwing Bricks, ecco che si inseriscono degli elementi che creano un’interessante virata nel mondo vibrante del drone (“Ceremony”), uniti a momenti apparentemente più riflessivi e malinconici che i Nostri sviscerano all’interno di “Galling”, finendo però per sprofondare nel pantano post-hardcore da cui sembra emergere il gruppo. Possiamo dunque dire che, complessivamente, “What Will Be Lost” gioca su un equilibrio labile (e proprio per questo capace di far presa sull’ascoltatore) tra rabbia, frustrazione e riflessioni oscure: se l’ascolto complessivo dell’album non dovesse convincere in tal senso, basta lasciar scorrere “Ready To Fall”, la traccia conclusiva, per averne un’eloquente dimostrazione.

In sintesi, “What Will Be Lost” sancisce come i Throwing Bricks non debbano essere considerati come una delle tante crepe che modellano quel macigno che è il panorama sonoro tra post-hardcore e sludge; al contrario, si tratta di un quintetto che sa bene il fatto suo e non teme affatto di mostrarsi in tutta la sua cupa rabbia.

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Opinione inserita da Vera    04 Gennaio, 2021
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Dopo un'attesa dovuta a vicissitudini e avversità varie ed eventuali, a un decennio di distanza dal precedente “Arisen From The Ashes” gli Ondskapt tornano con il potente e maestoso “Grimoire Ordo Devus”, disco che, anche a distanza di tempo, mostra che la compagine svedese non ha affatto perso lo smalto. Al contrario, il processo di cambiamento sembra aver portato nuova linfa oscura nelle vene della creatura di Acerbus, che negli ultimi anni ha visto modificare il suo organico: nella formazione attuale alla chitarra troviamo J. Megiddo (Joel Lindholm, attuale bassista dei Marduk e chitarrista degli In Aeternum), mentre dietro le pelli c'è Daemonum Subeunt (Claymords, Sterbhaus).

“Grimoire Ordo Devus” sviscera una carica maligna e demoniaca che rende l’album intenso, vibrante e cupo dall’inizio alla fine, a partire dal riferimento alle arti oscure contenuto nel titolo: infatti, il termine "grimoire" indica uno scritto contenente le indicazioni su come evocare le entità soprannaturali, fabbricare talismani e mettere in atto ogni tipo di sortilegio e incantesimo.

Il disco è introdotto da “Prelude”, intro disturbante costellato da voci stregonesche che sembrano voler dare il via ad una vera messa nera, che trova il suo inizio vero e proprio con “Semita Sinistram” (qui il riferimento è al Sentiero della Mano Sinistra, tipicamente associato alla Magia Nera), dove gli Ondskapt rilasciano pienamente la furia maestosa che accompagna tutto l'album, dall’inizio alla fine, con poche eccezioni, tra cui l’arpeggio acustico che dà avvio a “Paragon Belial”.

Ciascuna delle tracce di cui si compone “Grimoire Ordo Devus” rappresenta un piccolo capolavoro a sé e tende a manifestare un crescendo che si esaurisce gradualmente man mano che si prosegue con l’ascolto. Non è possibile citare solo una manciata di elementi che rendono convincente questa tanto attesa opera degli Ondskapt: tutto sembra funzionare in maniera pressoché perfetta, che si tratti della chitarra che si articola in modo sinuoso tra scale, dissonanze, tempeste di riff aggressivi e diabolici, o che ci si concentri invece sulla sezione ritmica mutevole, in cui sia la batteria che il basso si fanno sentire con il giusto equilibrio e contribuiscono a rendere i brani corposi e inesorabili. A rendere il tutto allo stesso tempo terrificante e solenne contribuisce anche la riuscita prova vocale di Acerbus, che per alcuni versi mi ha ricordato l’Attila di “Daemon”, il disco più recente dei Mayhem.

“Grimoire Ordo Devus” nasconde anche alcune chicche gustose, che vengono svelate durante l’ascolto. Tra queste, troviamo il sample dal film “The VVitch” contenuto all’interno di “Possession” e il momento sinfonico, quasi un anti-coro religioso, che chiude in bellezza “Excision” e sembra riprendere l’opener di “Draco Sit Mihi Dux”, del 2003.

Non ci sono mezzi termini per descrivere al meglio il quarto full length degli Ondskapt: a mio avviso, la band svedese ha forgiato un’opera meritevole di ben più di un ascolto, donandoci un’ora scarsa di black metal luciferino, monumentale e rovente come le fiamme infernali che avvolgono le creature demoniache. In conclusione, dunque, “Grimoire Ordo Devus” rientra a pieno titolo fra le uscite più valide in ambito black che l’infausto 2020 ha portato con sé e costituisce una doverosa aggiunta alla propria collezione se si apprezzano nomi illustri come Watain, Blaze Of Perdition, Deathspell Omega e i Mayhem più recenti.

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Opinione inserita da Vera    29 Dicembre, 2020
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“Veramente vivo in tempi bui” cantavano i Ministri una decina d’anni fa circa. I Tombs potrebbero correggerli, rettificando che ormai siamo condannati a vivere sotto cieli cupi, in particolare quelli evocati da "Under Sullen Skies", che ha visto la luce (si fa per dire) sotto l’egida dell’inossidabile Season Of Mist.

Nel corso di questi tredici anni, la creatura di Mike Hill ha vissuto un processo di sviluppo e rinnovo costante, in cui ogni cambiamento ha comunque messo in evidenza la forza di volontà del musicista statunitense e la sua capacità di proseguire senza arrendersi. In più, il 2020 per I Tombs ha segnato un triplo appuntamento, per quanto riguarda le pubblicazioni: oltre al full length in esame, infatti, sono usciti anche l’EP "Monarchy Of Shadows" e il live album "Abraxas Ritual: Live in Chicago".

“Under Sullen Skies” parte senza mezzi termini con la martellante “Bone Furnace”, un concentrato glaciale di black moderno e melodico che, più che tra I palazzi di Brooklyn, sembra trasportarci più in direzione dei fiordi norvegesi. Tuttavia, ben presto si intuisce che non è solo il black metal a costituire il leitmotiv di questo disco: infatti, i brani si rivelano mutevoli a ogni pié sospinto, andando spesso a esplorare dimensioni ancor più sconfortanti e annichilenti, a cominciare da “Void Constellation”, in cui alla freddezza black si sostituisce il gelo mortifero di sonorità più prettamente doom, creando atmosfere che mi hanno ricordato I Triptykon di “Eparistera Daimones”.

A dire il vero, proprio l'anima doom di “Under Sullen Skies” si fa più evidente nel corso di brani come la breve e cadenzata “We Move Like Phantoms” e “Secrets Of The Black Suns”: quest’ultima tesse atmosfere arcane, come se l’intento fosse quello di far esplorare all’ascoltatore una Natura ancestrale e non necessariamente benevola. A volte, inoltre, queste suggestioni dense di mistero vengono trasmesse attraverso sonorità decisamente tendenti verso la darkwave à la Sisters Of Mercy (per averne una prova, date un ascolto a “Sombre Ruin”).

Che tutto l’album, dunque, sia teso verso l’annientamento interiore e la malinconia? Niente affatto: per non far mancare nulla, Mike Hill e compagni ci regalano anche episodi incalzanti e aggressivi che sconfinano nel death (“Lex Talionis”, dedicata alla proverbiale legge del taglione) e tracce in cui I protagonisti sono dei riff quasi arroventati (cito “Barren”, all’interno della quale è presente anche un pregevole assolo eseguito da Ray Suhy dei Six Feet Under, uno dei numerosi ospiti che hanno collaborato al disco).

In conclusione, “Under Sullen Skies” é una perla che vi può accompagnare degnamente nei momenti in cui il senso di annientamento dovuto allo spasso della nostra era sembra avere il sopravvento.
Non aspettatevi però troppe solide certezze dall’ascolto di questo disco, perché uno degli intenti dei Tombs é quello di eliminare gli accostamenti sonori banali e prevedibili. Anzi, una certezza di fondo rimane: qualunque cosa accada, ci troviamo tutti sotto gli stessi cieli cupi.

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Opinione inserita da Vera    23 Dicembre, 2020
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Ascoltare “The Stench Of Amalthia” dei The Projectionist mi ha fatto un po’sentire come quando, alle superiori, dovevo risolvere un integrale e sacrificavo tutti I miei pochi neuroni per tentare di dipanare la matassa. Se in ambito matematico fallivo sempre, dopo qualche ascolto di questo disco sono riuscita a farlo idealmente mio e a provare a seguirne la ratio.

La band canadese, qui alla quinta prova discografica, in questa sede si imbarca in una missione tutt’altro che semplice: quella di creare un’opera black metal, in cui le sonorità aggressive e demoniache che tutti conosciamo servono per tessere l’oscura vicenda di Amalthia Grahame, ex attrice di film noir ora in isolamento nella sua villa. Scopriamo che la signora Grahame viene affidata alle cure della giovane infermiera Evelyn, inviata dall’oscuro dottor Bandix, ma nella casa iniziano ad aleggiare presenze demoniache e si verificano avvenimenti infernali (una storia che sarebbe pane per I denti di Ryan Murphy). Una premessa del genere è sicuramente bastata per fissare la proverbiale asticella a livelli considerevoli, soprattutto se teniamo conto del fatto che, in particolare quest’anno, ci sono state delle uscite di tutto rispetto in ambito black operatico (cito “Die Lederpredigt” dei Folterkammer).

Devo confessare di essermi approcciata all’ascolto di “The Stench of Amalthia” con una certa acquolina in bocca, aspettando di assaporare quello che Lord Matzigkeitus e I suoi compagni di avventure nei The Projectionist erano riusciti a creare. Purtroppo devo dire che, nonostante le buone intenzioni, a volte, si ha l’impressione che venga messa troppa carne al fuoco e che non sempre ci sia una continuità tra la narrazione e le sonorità che le accompagnano. In questo modo, I riff graffianti e melodici e la sezione ritmica aggressiva che costituiscono alcuni tra I punti di forza della proposta musicale dei The Projectionist finiscono per essere sovraccaricati dalle parti recitate e dalle suggestioni rumoristiche che spesso, anziché arricchire il risultato finale, finiscono per alimentare la confusione. Questo accade soprattutto nella parte iniziale del disco, ad esempio all’interno di “A Startling Housecall”, dove I Nostri, come se nulla fosse, prima accostano improvvisamente al black metal un angosciante telefono che squilla e poi dello spensierato ragtime.

A questi momenti non sempre scorrevoli, se ne sovrappongono invece altri che risultano ben riusciti e che mi hanno fatto pensare soprattutto ai primi Cradle Of Filth: tra questi, il brano forse più azzeccato dell’album (oltre ad essere quello più lungo) è “Forsaken O’Clock”, dove al black melodico si alternano arpeggi quasi post-black e un evocativo scrosciare di pioggia. Tra I brani lodevoli presenti all’interno di questa fatica discografica dei The Projectionist annovero anche “The Weakening”, che vira verso l’heavy e lo stoner, creando sensazioni piuttosto stranianti.

In sintesi, le ombre di “The Stench Of Amalthia” non sono solo quelle che avvolgono la tenebrosa storia di Amalthia, Evelyn e del dottor Bandix; infatti, il quinto album dei The Projectionist mette a dura prova l’ascoltatore e non sempre si pone in modo favorevole verso chi si ritrova a fruirlo. Tuttavia, è indubbio che la band sia comunque riuscita a consegnarci un lavoro personale e non privo di un contorto fascino. Se cercate una colonna sonora rilassante, saltatelo a piè pari; se invece amate le sfide e volete cimentarvi con un ascolto in cui l’immediatezza sia ridotta ai minimi termini, fatevi sotto!

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