Opinione scritta da Sonia Giomarelli
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Top 50 Opinionisti -
Sulla scia di una lunga attività nella scena, i World War Four debuttano su full lenght tramite questo "This Hostile Species", uscito la scorsa primavera. Paul Martin, cantante e chitarrista, fonda i WWF nel 2000 e attraverso alcuni cambi di line up, la band si stabilizza nel con l'innesto di Nathan Waters come bassista e Morgan Timu dietro le pelli, il quale va a sostituire Rene Harvey.
Nel corso di questi ultimi 15 anni, il trio neozelandese ha rilasciato solo un Singolo, "Ghost face", nel 2012 per poi tornare nel silenzo più assordante. Nonostante ciò, la band gode di una discreta fan base nel paese natio e ha comunque condiviso i palchi con nomi importanti della scena Metal internazionale, vedi Black Sabbath, Paul Di Anno e Black Label Society.
"This Hostile Species" è un lavoro che si caratterizza soprattutto per un approccio molto old school per via di una serie di pezzi decisamente non rifiniti. Si vedano ad esempio le linee di chitarra di brani come "Ghost" molto semplici e che richiamano in parte a quelle dei già citati Black Label Society ma anche e soprattutto allo Stoner di stampo americano (Red Fang, Baroness). Se questo tipo di approccio si percepisce in quasi tutti i pezzi del lotto ("Absolution", "One Mad Afro" e "Pet Hate" ad esempio), la ricerca di un sound che renda i WWF originali, si fa abbastanza ardua.
La sensazione di dejavu affiora costantemente e chiaramente durante l'ascolto del disco e non possono non venire in mente gruppi storici della scena Stoner.
Ciò va ad intaccare nel complesso un prodotto valido ma che appunto risulta anonimo, troppo relegato ad una certa tradizione di fare Metal e che i nostri non fanno propria. "This Hostile..." convince solo sul fronte della composizione dei pezzi ma non sul fronte dello stile che non risulta originale.
Ultimo aggiornamento: 28 Giugno, 2020
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L'underground canadese in questi ultimi anni si è fatto notare per una serie di bands valide sul fronte Heavy, nel ribattezzato movimento della "New Wave Of Traditional Heavy Metal". Se i Cauldron hanno guidato il carrozzone, dietro di loro altre realtà si sono imposte portando avanti un certo tipo di stile e atteggiamento proprio degli anni '80. Fra questi ci sono i Graveyard Disciples (Discepoli del Cimitero), fondati nel 2014 nella regione del Quebec. La loro è un'immagine che richiama gli schemi tipici del genere, sia per il nome che per quanto concerne ciò che viene presentato nel disco di debutto "Devil's Night", uscito a fine marzo 2020 (ma arrivatoci solo due mesi più tardi). Disco d'esordio, ma unico perchè i nostri mettono fine al progetto per ragioni personali, lasciando dunque come testimonianza concreta del loro operato questo full-lenght autoprodotto il quale colpisce per un logo e una copertina dichiaratemente Heavy Metal.
"Devil Night" è un lavoro costellato di nove pezzi che vanno a richiamare un sound tipicamente classico e l'influenza dunque di bands classiche come Judas Priest, Iron Maiden e altre realtà dell'Heavy Metal anni '80, si fa sentire palesemente nei tappeti musicali di pezzi come la veloce "Forsaken" caratterizzata anche da un riffing massiccio e oscuro e un uso di linee vocali ai limiti dello scream ("Painkiller" dei Judas Priest) , o la più cadenzata "Mouth Of The Lion". Chours metallici tipici della decade ottantiana fanno capolino nella title-track e l'omaggio al sound classico è presente anche nella successiva "Whats Gets Through".
Poteva essere un progetto interessante, ma purtroppo non è durato perchè la percezione che sia stato portato avanti un po' così tanto per fare, si sente. "Devil's Night" manca di pezzi che potrebbero realmente rimanere impressi e far ricordare il disco, di conseguenza passa in sordina, complice anche un sound fin troppo inflazionato e che nel 2020 non ha più lo stesso impatto, come lo poteva avere sei/sette anni orsono, quando nell'underground si parlava di revival dell'Heavy Classico. Hanno perso un'occasione, un peccato per una band che era sulle scene da sei anni.
Ultimo aggiornamento: 14 Giugno, 2020
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Ritornano alla ribalta gli Sven Gali, per i più attenti questo nome può ricordare qualcosa. Per i più sprovveduti invece occorre dare qualche informazione sulla band in questione che non è proprio di primo pelo.
Nati originariamente come cover band, gli Sven Gali arrivano dal Canada (regione dell'Ontario) e si formano nel lontano 1987, il loro è un sound che fonde Hard Rock ed Heavy Metal ben sapientemente presentato nel disco di debutto omonimo uscito nel 1992 e che ha portato alla band una buona dose di successo, visibilità e premi nel loro paese natale. Nel 1995 i nostri, risucchiati dalla contemporanea scena Grunge, vanno a Seattle a registrare il secondo disco "Inwire", ma il successo non si ripete e la band va in crisi, per poi sciogliersi l'anno dopo.
Nel 2017 gli Sven Gali si riuniscono in concerto e, tra vari annunci, nel 2020 rilascia tramite RFL Records questo Ep intitolato semplicemente "3" che racchiude quattro pezzi nuovi i quali ripropongono in chiave ovviamente più moderna il sound del primo disco. Se quindi l'iniziale "Kill The Lies" (presentata in anteprima in un lyric video) strizza l'occhio a certo Alternative Metal degli anni 2000 (Shinedown), la successiva "You Won't Break Me" si caratterizza per un approccio più oscuro attraverso linee vocali molto pesanti e un ritornello decisamente orecchiabile. "Now" riporta alla mente i gloriosi anni '90 e la scena alternativa/grunge, la finale "Hurt" strizza di nuovo l'occhio al Metal più moderno di chiara estrazione nord americana.
Un biglietto da visita a quella che forse è un'anteprima di un prossimo possibile disco, speriamo il prima possibile. "3" riporta in auge una band validissima del panorama rock canadese che ha saputo a suo tempo regalare ottima musica, anche in tempi sospetti per il Metal. Da specificare che degli attuali Sven Gali sono rimasti i tre fondatori storici, l'ottimo vocalist Dave Wanless, il chitarrista Andy Frank e il bassista Shawn Maher, quindi si sente l'impronta della vecchia guardia e questo fa ben sperare. Bentornati signori.
Ultimo aggiornamento: 08 Giugno, 2020
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Dalle lande rocciose del Colorado arriva una band che sa il fatto suo in termini di Death Metal. Si fanno chiamare Pile Of Priests, vengono da Denver e sono attivi sulla scena sin dal 2009 e si presentato con un logo e un attitudine che sono tutto un programma: innamorati delle sonorità più estreme della scena Metal, la loro è una parabola valida all'interno della scena Underground forte di un sound ancorato agli schemi più classici del Death ma con influenze anche dal Thrash più estremo.
I POP rilasciano il primo disco ufficiale "Void To Enlightenment" nel 2015 e tornano a farsi sentire con ques'ultimo lavoro omonimo uscito lo scorso maggio per la italianissima Extreme Metal Music, etichetta nata da una costola della Rockshot Records e con base a Torino. Registrato agli Unisound di Dan Swanö e la mano del musicista svedese si sente eccome.
L'ultimo lavoro colpisce già per la copertina che raffigura l'interno di un chiesa nel momento della liturgia e con i fedeli e il prete ridotti a cadaveri. Per quanto concerne la musica, il quartetto americano propone un lotto di nove pezzi di stampo Death ma con reminiscenze sul Progressive e sul Dark.
"The Aversion" e "Death Of Paragon" strizzano l'occhio al Death di stampo europeo sopratutto sul fronte del melodico e del progressivo con "Death..." che ricorda molto le linee oscure degli ultimi Insomnium e dei Dark Tranquillity pre "Into The Void". "Exile Unto Divination" pezzo presentato in anteprima, è caratterizzato una ritmica possente e un incedere massiccio, così la successiva "Conjunction Of Souls" che vede una piccola parte in scream femminile cantata da Adrienne Cowan dei Seven Spires la quale troveremo anche nella finale "The Restitution".
Una piccola tregua con la strumentale e atmosferica "The Threshold" per tornare a scuotere la testa con le successive "Deus Delenda Est", "Bloodstained Citadel" e la già citata "The Restitution" le quali vanno a concludere un lavoro decisamente interessante.
"Pile Of Priests" è un lavoro che punta ad essere estremo ma lo fa in maniera equilibrata grazie a pezzi mai caotici ma potenti e brutali quanto basta. In fase di mixaggio chiaramente è stato fatto un ottimo lavoro, tutti gli strumenti trovano giusto spazio nel complesso e anche la voce di Evan Salvador fa la sua figura. E' un album di genere e rimane all'ascoltatore di genere ma come qualità di proposta e approccio ai pezzi, ha le giuste potenzialità per piacere anche a chi non ascolta solo Death Metal.
Ultimo aggiornamento: 31 Mag, 2020
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"Acheron" nella mitologia grecia rappresenta uno dei fiumi del Regno degli Inferi. Nella Divina Commedia l'Acheronte è la linea di confine che separa l'Antinferno dall'Inferno e che simboleggia la transizione delle anime dei defunti dalla vita alla morte. Per i più appassionati troviamo una rappresentazione dell'Acheronte anche in una incisione di Gustave Dorè nella sua personale visione dell'Inferno Dantesco datato 1861.
Parlando più specificatamente di musica, "Acheron" è anche il titolo del primo disco degli Overkind che si ispira alla Commedia Dantesca. Gli Overkind arrivano da Verona e si formano nel 2016 dalle ceneri dei Fatal Destinty, progetto di Prog Metal e di cui esiste solo una release ufficiale, "Palindromia" uscita per la Andromeda Relix nel 2015, stessa etichetta che ha preso sotto la sua ala questa nuova band. Gli Overkind continuano il percorso stilistico che era proprio della band ormai defunta e si impongono sul mercato con questo disco che è un piccolo gioiello della scena Prog nostrana. "Acheron" esce nel 2019 e ci presenta in musica i gironi danteschi attraverso dodici pezzi e un Artwork particolare.
La sensazione che si ha all'ascolto del disco è che qua non ci sono limiti, la band ha sperimentato e ha presentato un sound vario seppur la matrice sia quella del Progressive Metal. Ma parliamo di un genere che di per sè non deve imporre degli schemi e quindi se troviamo pezzi dal sapore Prog come la title-track introdotta da rumori di acqua in movimento e che si caratterizza per soluzioni tipiche del genere come un lavoro in sezione ritmica equilibrato, in altri spunti come la messa in musica della storia d'amore fra Paolo e Francesca ("Love Lies") in cui è il Groove che si impone come caratterizzazione principale.
Il giro di basso iniziale di "Anger Fades" va a strizzare l'occhio a Dream Theater più attuali così nel lotto la band veneta ha cercato di proporre anche un sound più introspettivo come quello del trio "Flames"/"Hollow's Man Secret"/"My Violent Side" con pianoforte e voce.
"All Is Grey" ed "End Of A Souless Thief" sono figlie di un approccio al Prog Metal da parte di una band giovane ma che sa il fatto suo, ma si guarda anche ad un passato ormai cristallizzato nel tempo come il lavoro di pianoforte di "Traitor's Letter" che omaggia i Savatage più sinfonici. La conclusiva "The Fiend - Tales Of Ordinary Madness" chiude le danze in maniera egregia. Ora avere sotto mano un prodotto del genere mi ha confermato ancora una volta lo status attuale della nostra scena musicale e cioè che è in ottima salute nonostante i mille problemi logistici e soprattutto culturali.
"Acheron" è un lavoro che non è un capolavoro ma rasenta un voto alto perchè nel complesso presenta un lotto di pezzi vari, equilibrati forti di una lavoro di in fase di composizione e arrangiamento decisamente convincenti. La padronanza degli strumenti da parte di questi ragazzi è notevole, siamo sopra la media di qualità per un disco d'esordio.
Ultimo aggiornamento: 16 Mag, 2020
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Che i Firewind siano una band che cambia formazione alla velocità della luce, ormai è palese. L'unico membro fisso è e rimane Gus G., prolifico e talentuoso chitarrista che ormai tiene in vita la sua creatura con passione e determinazione. E da quando uscì il primo lavoro "Between Heaven & Hell" nel lontano 2002, tante cose sono cambiate. La band ellenica negli anni è maturata, affinando e migliorando di molto il sound attraverso un percorso di ricercatezza notevole. Ciò ha fatto si che si imponessero come band ai vertici in termini di qualità della scena Heavy/Power del vecchio continente.
Gus G. come tutti ben sappiamo oltre all'attività con la band madre, ha collaborato con personaggi piuttosto importanti, uno fra tutti Ozzy che lo chiamò a sè dopo essersi accorto del suo talento. Collaborazioni ma anche dischi solisti, l'ultimo "Fearless" uscito nel 2018. Ma non ha mai abbandonato la sua patria e la sua band. A distanza di due anni dall'uscita del concept "Immortals", incentrato sulla vicenda di Leonida e dei 300, ci troviamo di fronte ad una band ora di quattro membri e una novit, il reclutamento di Herbie Langhans (Sinbreed, Avantasia, Voodoo Circle) al microfono. Cambio line - up e cambio etichetta, i nostri finito il contratto con la Century Media, si accasano alla AFM Records e rifilano questo nuovo lavoro omonimo in uscita il 15 maggio con un rinvio di un mese a causa della pandemia COVID-19.
"Firewind" è un lavoro che ricalca lo stesso sound dei dischi precedenti e si ha pertanto dei pezzi dal sapore Hard N' Heavy come il trio iniziale "Welcome To The Empire"/"Devour"/"Rising Fire", pezzoni potenti che funzionano alla grande soprattutto perchè mostrano il talento di uno come Langhans, decisamente più convincente e versatile del suo predecessore Henning Basse.
Il lotto centrale del disco non è da meno, caratterizzato da pezzi più ricercati e vari ("Break Away", "Longing To Know You"). Si finisce sulla stessa linea e il talento in sede di Gus G. non va a oscurare quello dei suoi compagni, tra un Langhans veramente mastodontico e un lavoro ritmico (Christo/Nunez) impeccabile.
Si va dunque a delineare un sound che si discosta di poco da quello presentato nel precedente "Immortals" seppur manchi quel pathos di epicità. "Firewind" è un lavoro più "classico", più duro e meno Power laddove le tastiere sono meno presenti rispetto a due anni fa anche e soprattutto per il vuoto lasciato dalla dipartita di Bob Katsionis.
Nonostante il cambiamento in line- up i Firewind continuano a rilasciare sempre ottimi prodotti che non vanno ad intaccare minimamente il sound.
"Firewind" è un disco valido, non perfetto ma godibile perchè non annoia grazie essenzialmente a pezzi (soprattutto nella prima metà) che rimangono impressi nell'orecchio dell'ascoltatore. Il paragone con l'ultimo "Immortals" è un po' azzardato perchè come detto prima, se il primo ricalcava le sonorità più Power sulla scia di produzioni come "Allegiance" e "The Premonition", qua si ha di fronte ad un lavoro si stampo classico.
Pertanto i nostri si mantengono sempre su alti livelli di qualità. Ben fatto.
Ultimo aggiornamento: 12 Mag, 2020
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Gli Shards Of Humanity sono una band che ha scelto la via di un Death/Trash old school. Originari di Memphis e attivi da dieci anni sulla scena, si sono già fatti conoscere attraverso un primo esordio uscito nel 2014 per la Unspeakable Axe Records, "Fractured Frequencies".
Sempre con questa etichetta i nostri battezzano il primo anno di questi anni '20 con il secondo "Cold Logic" continuando la formula musicale intrapresa nel primo lavoro.
Si va quindi a delineare un sound dai connotati estremi ma con basi tecniche che tanto prendono dalla scena della Florida attraverso band seminali quali Atheist e Cynic.
Dai primi vagiti di "Cosmic Shield" fino alle ripercussioni di un pezzo simil Death come la title - track, si ha la sensazione di un dejavu continuo. Ritmiche veloci e linee vocali in growl vanno a delineare una proposta musicale non nuova come la scelta di usare riff abusati fin troppo nel genere, per intenderci quelli presenti ad esempio in "Demonic Crystallized Intelligence". O ancora l'intro "Into The Realms Of Lower Astral" che va ad introdurre la successiva "Docile Masses" caratterizzata da un sound molto simile ai Death primi anni '90 o ai migliori Pestilence.
"Cold Logic" soddisfa a pieno gli appassionati del genere ma convince poco soprattutto perchè gli manca quella marcia in più che lo potrebbe far diventare un qualcosa di pù di un semplice disco di genere. A livello compositivo ci sono pezzi che presentano un maggior lavoro di ricercatezza e arrangiamento rispetto ad altro, così il lavoro di fase di produzione è passabile, ma nulla di altro per farlo passare ad essere un lavoro da ricordare in una marea di produzioni molto simili tra loro nel panorama metal attuale.
Ultimo aggiornamento: 09 Mag, 2020
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Ultimamente la Scandinavia si è fatta notare sul fronte dell'Hard n' Heavy per una serie di band validissime innamorate dei suoni vintage e tradizionali. Non solo Black e Death dunque, generi storicamente appartenenti alla sottocultura di questa parte d'Europa.
Ora la Norvegia a differenza della vicina Svezia, produce molte meno band sul genere, alcune però si sono fatte notare a livello europeo in questi anni come gli Jorn e i gloriosi TNT. Dalla terra del sole di mezzanotte arrivano anche i Pain City che essendo in giro dal 2014, arrivano oggi al traguardo del terzo disco, questo "Rock And Roll Hearts" pubblicato da Massacre Records lo scorso febbraio. Doveroso prima dare qualche informazione su questa giovane band che in Italia pochi conoscono: i Pain City come già scritto, si formano nel 2014 ad Oslo da una costola di un'altro gruppo cittadino, i Carburetors ancora in attività da venti anni (band che è finita addirittura a suonare all'Eurovision 2012). Stian Krogh, voce e chitarra lascia la band madre per dedicarsi a questo progetto chiamando a sè il batterista Petter Haukaas e il bassista Torkjell Hagen Voll. Il trio rilascia nel giro di sei anni quattro singoli e tre dischi ufficiali di cui due autoprodotti ("When Life Gets You", "Keep It Real") e questo "Rock N' Roll Hearts" sotto la bandiera della Massacre.
Ascoltando "Rock N' Roll Hearts" non si può non pensare ai Motorhead. Già perchè i 12 pezzi che vanno a comporre il disco sono caratterizzati da un approccio molto Rock n' Roll e molto molto diretto. Dalle prime battute di "Head Down" fino al valzer finale di "99 Luftballons" che è in realtà una cover dei Nena, band Rock tedesca, tutto fa intendere i gusti musicali di questi norvegesi. Pezzi come la veloce "A Night Out With Your Tail Out" e la roboante "I Play My Guitar When I Want" sono caratterizzate da un atteggiamento molto Punk, in pieno stile Motorhead.
L'approccio dunque richiama alla tradizione del Rock più ortodosso senza tanti giri strani, i nostri scelgono un via diretta. "Rock N' Roll Hearts" è un prodotto ben fatto, sia dal punto di vista compositivo perchè nonostante i Pain City suonino un genere estremamente tradizionale, ci mettono del loro e non risultano l'ennesimo copia/incolla fine a se stesso, sia dal punto di vista di lavoro in studio. E' un disco prodotto bene, frutto anche del lavoro egregio fatto da Fredrik Nordstrom il quale non ha bisogno di presentazioni vita la sua militanza prima come fondatore dei Dream Evil e poi come produttore di band importantissime del panorama Metal.
I Pain City hanno centrato in pieno il bersaglio regalando al pubblico un lavoro non perfetto ma comunque godibile e riascoltabile.
Ultimo aggiornamento: 27 Aprile, 2020
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Nella parabola artistica di Axel Rudi Pell non c'è mai stato spazio per la sperimentazione. Chi segue questo genere ormai conosce il background musicale di questo chitarrista attivo ormai sulla scena da più di trent'anni prima con gli Steeler e poi con la sua creatura solista. Accompagnato da una line up che è fissa da tempo con Gioeli (ex Hardline) al microfono, Rondinelli dietro le pelli, Doernberg alle tastiere e Krawczak al basso, Pell continua a sfornare dischi a cadenza biennale senza preoccuparsi minimamente delle conseguenze di un sound che in questa ultima decade non ha prodotto niente di innovativo. Affidatosi sempre alla SPV/Steamhammer, dopo due anni dal passo falso "Knights Call", Pell & soci rilasciano questo nuovo "Sign of the Times" introdotto da una copertina che rientra negli schemi tipici del suo genere.
Il nuovo lavoro del chitarrista di Bochum non aggiunge nulla di quanto sia stato proposto nel precedente album del 2018. La prima parte si assesta su sonorità tipiche rodate dalla band tedesca ormai da anni, se quindi troviamo influenze pesanti dall'Hard n' Heavy britannico (Rainbow) in pezzi come "Gunfire" e "Bad Reputation" la sensazione di déjà vu si fa sentire in maniera decisamente pronunciata. La presenza delle tastiere nei pezzi rimanda ancora pesantemente ai primi Rainbow e nella tracklist trova spazio anche una ballad come "As Blind as a Fool Can Be".
Pell a 60 anni non ha dunque intenzione di cambiare strada ma è chiaro che una scelta del genere può limitare molto sia dal punto di vista compositivo sia da quello più logistico. "Sign of the Times" passa inosservato alle orecchie di un pubblico ben più vasto di quello abituato ai dischi della band tedesca e stavolta fa un passo indietro rispetto al penultimo "Game of Sins" che mi aveva fatto sobbalzare dalla sedia. Il talento di Axel non si discute ma questa sua scelta di rimanere fossilizzato su di un genere e proporlo ad ogni nuova uscita come copia - incolla, risulta abbastanza discutibile.
L'autocitazionismo sfrenato lungo i solchi di questo ultimo lavoro penalizza il mio voto personale pur non intaccando la simpatia che nutro per il biondo guitar hero. Si poteva fare di più.
Ultimo aggiornamento: 21 Aprile, 2020
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Sempre Nord Reno Westfalia, sempre Germania, zona estremamnte prolifica per la scena Metal teutonica e che si presta bene per certi tipi di generi soprattutto nel Metal. Da quest'area arrivano gli Agenda.
Band fondata nel 2013, tre anni dopo esordisce con "Genetic Arts", introdotto da una copertina che tanto ricorda gli artwork old school dei vecchi dischi Thrash degli anni '80 e siamo lì in quanto a sound proposto. Gli Agenda pare siano cresciuti con un certo tipo di Metal, il sound punta all'Heavy/Speed ottantiano molto vicino ai Judas Priest, appunto di inizio anni '80. Nel 2020 i nostri rilasciano per la Boersma Records questo Ep, "Maverick", introdotto da una copertina che più sullo stile Hard Rock che non Thrash.
"Maverick" è un ep composto da pezzi di matrice Heavy/Thrash e che complessivamente convincono a malapena a livello compositivo, seppur con qualche sbaffo qua e là. L'iniziale title-track si caratterizza per un approccio molto old school, con una prima parte decisamente calma e un finale più aggressivo. "Crucified And Gone" si fa più veloce e la successiva "It's All About Love" viaggia su tempi calmi e con un sound molto melodico. "Whiskey On Ice" e "Suffering Of War" non aggiungono nulla di quanto proposto.
Seppur si possa apprezzare l'omogeneità della musica degli Agenda, che comunque sanno quello che fanno e ci credono molto, i pezzi di questo Ep non rimangono impressi e filano via molto facilmente. La loro è una proposta musicale fin troppo abusata da tante troppe band del genere e, in questo caso, non brilla per originalità ma rimane lì adagiata su se stessa. "Maverick" è un ep che rischia di rimanere lì a prendere la polvere, magari piacerà agli amanti del genere, ma nulla di più. Sfiorano, senza raggiungerla, la sufficienza.
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