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Opinione scritta da Luigi Macera Mascitelli

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    22 Gennaio, 2025
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Gli olandesi The Monolith Deathcult sono una di quelle band che o le ami o le odi, senza vie di mezzo; ed il perché è presto detto. Dediti ad un Death Metal pesantemente tinteggiato di sezioni elettroniche, rumori di fondo ed in generale ad un songwriting estremamente ricco al limite del pomposo e pacchiano. Insomma, tutti ingredienti che, nel bene o nel male, sono il marchio di fabbrica di una band attiva da più di vent'anni. È con queste premesse che presentiamo "The Demon Who Makes Trophies of Men", nono album che segue esattamente la strada battuta fino ad ora. Una strada che, ironicamente, ci fa percepire un gruppo perfettamente a suo agio in questa accozzaglia di elementi; anzi, sembra proprio che i The Monolith Deathcult si trovino nel posto giusto al momento giusto, laddove un'altra realtà verrebbe immediatamente cestinata. Da qui segue come il quartetto si sia ritagliato la propria fetta di seguaci e abbia tirato fuori nel tempo degli album comunque degni di nota, fosse solo per l'estrema regalità - quasi pacchiana per l'appunto - dei brani proposti. Eppure anche in un guazzabuglio di ghirigori, rumori ed effetti, i Nostri vantano un comparto tecnico di tutto rispetto, con dei musicisti in grado di elevare un muro sonoro che difficilmente si scorda, a metà tra il Death feroce e tellurico e le ritmiche catchy e martellanti dei Rammstein - con tutte le analogie stilistiche e di immagine che questi ultimi hanno -. Insomma, come si diceva all'inizio, o li ami o li odi proprio per questo stile che fonde l'autoironia, lo sfarzo, la goliardia, la cafonaggine e il lusso, senza mai riuscire a capire se sia quasi uno scherzo. In generale questo "The Demon Who Makes Trophies of Men" ci è piaciuto ed ha confermato nuovamente l'ottimo stato di salute della band. Poi, come si suol dire: i gusti sono gusti.

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    22 Gennaio, 2025
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Dediti a quello che potremmo tranquillamente definire il filone più contorto, caustico, caotico e malato del Death Metal, i newyorkesi Pyrrhon sono sicuramente i maestri indiscussi della follia fatta musica, quella che ti scioglie letteralmente il cervello lasciandoti con le sinapsi completamente distrutte. È in questo senso, dunque, che deve essere inteso il qui presente "Exhaust", quinto sigillo del quartetto che va a coronare il quindicesimo anno di vita di questa particolare band. Un album, lo diciamo subito come del resto facemmo per il precedente lavoro, che non è assolutamente per tutti, soprattutto per coloro che ricercano una certa armonia musicale o comunque una linearità nelle tracce. Ecco, dimenticate tutto questo, perchè ascoltare i Pyrrhon significa semplicemente buttare al cesso qualsiasi punto di riferimento o di sanità mentale: qui a farla da padrona è la nevrosi più totale schizzata di acido. Rispetto ai capitoli precedenti tuttavia, qui i Nostri hanno deciso di "snellire" la proposta andando ad alleggerire il songwriting preferendo la scorrevolezza dei pezzi, per quanto si possa parlare di scorrevolezza in un disco che sembra più un gorgo oscuro dove inizio e fine, destra e sinistra, su e giù si confondono in un unica marcescente creatura. VA detto però che la grandiosità dei Pyrrhon è proprio quella di generare il caos più totale con un certo ordine, risultando quindi estremamente complessi e difficili(ssimi) da ascoltare, ma al contempo sempre riconoscibili e puntati verso una sola direzione. Un lavoro, ripetiamolo, che non è per tutti, ma che tuttavia riesce a modo suo a rapire l'ascoltatore che vuole dare loro più di una possibilità.

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    09 Dicembre, 2024
Ultimo aggiornamento: 09 Dicembre, 2024
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Con 3/4 di band rinnovata ed il solo Vance Valenzuela rimasto della formazione originale, gli statunitensi Vale Of Pnath sono arrivati ad un punto di svolta nella loro carriera. Un giro di boa che, a dirla tutta, già aveva iniziato a manifestarsi con la pubblicazione dell'Ep "Accursed" nel 2019: un primissimo segnale di un profondo rinnovo all'interno della baracca. Ed eccoci qui, dunque, dopo otto anni dal secondo album "II" con questo colossale "Between the Worlds of Life and Death". probabilmente e sorprendentemente il disco più completo e sentito del quartetto di Denver; figlio diretto di quel processo di cui parlavamo all'inizio e che già si avvertì nel 2019.
Ora, che i Vale Of Pnath appartengano a quel filone ormai consolidato e caratteristico del Technical Death americano è cosa nota e risaputa: il sound è quello che fa capo a gente come Allegaeon, Inferi, Rivers Of Nihil o The Faceless. Tuttavia ciò che ci ha positivamente stupito di questo "Between the Worlds of Life and Death" è l'efficacia del sound unita ad un songwriting compattissimo che costantemente si tinge di Black Metal, spostando dunque l'asticella dalla tecnica all'atmosfera e viceversa, andando quindi a creare un gioco di luci ed ombre che si intrecciano di continuo. Possiamo dire senza paura che questo stile sia praticamente unico ed inconfondibile: dalla prova canora indiscutibilmente promossa alla sezione ritmica che ci regala dei passaggi di batteria chirurgici e monolitici. Il tutto, lo ripetiamo, fa da ossatura ad un riffing portentoso e ricchissimo di passaggi affatto stucchevoli o tirati troppo per le lunghe: c'è tantissima tecnica, certamente, ma sapientemente utilizzata. Il risultato sono nove tracce - di cui intro e outro - perfettamente riuscite ed altrettanto sentite. Insomma, è chiaro come il Sole che i Nostri abbiano appena dato il via ad una seconda fase con il botto, e noi non possiamo che esserne felici. Complimenti!

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    09 Dicembre, 2024
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Parliamoci chiaro: ogni tanto ritornare al buon vecchio "classico" fa sempre piacere e bene. Quella sorta di zona che non definiremmo "comfort" per non darne una definizione erroneamente negativo. Diciamo allora che staccare dalle continue innovazioni per ritornare sulle antiche strade che ci hanno portato ad esplorare i lidi più remoti del metal, è qualcosa di sempre gradito. Ecco, con questa premessa presentiamo questo secondo disco degli svedesi Crawl dal titolo "Altar of Disgust", licenziato dall'ottima Trascending Obscurity Records. Un disco che fa esattamente ciò che ti aspetteresti da una band che mangia pane Entombed, Carnage e Dismember: pestare forte, ma tanto forte... Fortissimo. Stop, nessun ghirigoro né fronzolo di abbellimento: puro e semplice Swedish Death nella sua forma più grezza e feroce, per tutti gli amanti del più classico dei classici. E sapete cosa? A noi non ce ne frega nulla se i Nostri non si siano inventati nulla. Ci piacciono così, fedelissimi alla vecchia scuola con un approccio davvero sentito nei confronti del genere. Tanto basta a rendere il secondo album dei Crawl una piccola gemma che non si pone nessun obiettivo avanguardistico, quanto quello di mantenere intatta la vecchia via con un sound ormai leggendario. E sinceramente, in un mondo che guarda solo avanti, è bello trovare ancora qualcuno che lo specchietto all'indietro lo punta ancora.

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    29 Ottobre, 2024
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Sembrerebbe quasi che lo facciamo apposta ma non è così: ogni volta che l'artista milanese Gabriele Gramaglia pubblica un disco, vuoi con i suoi Vertebra Atlantis, vuoi, come in questo caso, con i suoi Cosmic Putrefaction, possiamo dare per scontato che si tratterà di un capolavoro. Guarda caso anche oggi siamo di fronte a qualcosa che va oltre il Death Metal; una vera perla rara destinata ad arricchire una discografia che già nel 2022 con "Crepuscular Dirge for the Blessed Ones" portò i Cosmic Putrefaction su di un livello quasi inarrivabile. Con sommo orgoglio patriottico presentiamo questo magnifico quarto disco della one-man-band dal titolo "Emerald Fires Atop the Farewell Mountains", Probabilmente il disco più completo, personale e potente partorito dalla mente di Mr. Gramaglia.
Se già due anni or sono i Cosmic Putrefaction ci convinsero a pienissimi voti, tanto da guadagnarsi il titolo di "Album dell'anno", qui, oltre a ribadire il primo posto - di nuovo - confermiamo ancora quanto questo ragazzo sia un visionario che riesce a portare il Death Metal verso dei confini finora toccati solamente da gente come Tomb Mold, Demilich, Immolation, Morbid Angel e Blood Incantation. Il che già basterebbe come biglietto da visita. Tuttavia Gramaglia non si è voluto fermare qui: come anche egli ci spiegò in una nostra intervista - recuperatela -, il concetto di base non è tanto cosa fare CON il Death Metal, ma NEL Death Metal. Tradotto: umiltà, estro artistico e dei "semplici" strumenti. Tutti ingredienti facilmente reperibili ma il più delle volte snobbati dalla proverbiale troppa carne sul fuoco. Qui, al contrario, siamo di fronte ad un disco con elementi più che riconoscibili, ma usati con sapiente maestria risultando unici ed irripetibili. A differenza del precedente disco, questo "Emerald Fires Atop the Farewell Mountains", che conta ancora una volta il fantastico lavoro di Giulio Galati dietro le pelli, risulta più disturbante e per certi aspetti caotico, quasi a richiamare gente come Triumvir Foul o Teitanblood ma senza effettivamente toccarne lo stile. Si tratta dunque di un album complesso e molto più stratificato del precedente - cosa che chi vi scrive reputava impossibile - e quindi molto più complesso da digerire. Eppure traccia dopo traccia i Cosmic Putrefaction creano uno scenario apocalittico, come se il precedente viaggio Dantesco non avesse portato ad un'assoluzione, ma all'inizio di un percorso ancora più contorto e claustrofobico. Complice di tutto ciò è certamente il songwrtiting più intenso e sentito come un fiume in piena ed una produzione corposa e martellante. In pratica se prima ci sembrava che Mr. Gramaglia avesse dato libero sfogo alla sua inventiva, qui dobbiamo ricrederci e spostare il confine ancora oltre. Il risultato è questa perla che va ad arricchire il genere e che DEVE essere presa come punto di riferimento se ci si vuole cimentare in questo filone. Senza girarci attorno concludiamo con quanto detto all'inizio: questo è il disco più convincente, sentito e profondo mai scritto fino ad ora, che di diritto vince il titolo di "Disco dell'anno". Complimenti!

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    17 Ottobre, 2024
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Dopo un brillante debutto nel 2017 ed un fenomenale Split nel 2020 con gli Antedeluvian, gli Heresiarch tornano a caricare con una ferocia disarmante con il qui presente "Edifice", un monolite di malvagità allo stato puro in cui i Nostri si confermano ancora tra i nomi di punta del cosiddetto War Metal. Un mix assassino di Black e Death Metal che non lascia scampo a nessuna forma di quiete o qualsivoglia ghirigoro di abbellimento. Se, dunque, siete fan della frangia più caotica del genere, quella che fa capo a gente come Diocletian, Teitanblood, Revenge, Antichrist Siege Machine e compagnia bella, allora siete nel territorio giusto.
Probabilmente il miglior attributo per definire questo "Edifice" è claustrofobico: i riff sono pesantissimi e dissonanti, ai livelli della follia Lovecraftiana dove tutto perde di senso ed ogni cosa sembra stringersi attorno al collo fino a soffocare il più piccolo barlume di luce. Insomma, tutto - del resto il genere lo dice già di suo - porta a pensare solo alla guerra e alla distruzione, con un songwriting affatto scontato o prevedibile. Particolarità, quest'ultima, che rende gli Heresiarch piuttosto unici perchè imprevedibili: le strutture dei brani sono arzigogolate, al limite del caos, eppure sempre e comunque puntate verso una sola coordinata, risultando quindi coerenti e al contempo a sé stanti. Da una parte c'è quindi la componente riconoscibile del genere, perfettamente riconducibile ai nomi citati più su; ma dall'altra troviamo delle strutture e delle soluzioni piuttosto uniche, come le spennellate Death Doom che interrompono bruscamente una cavalcata o chiudono un brano in maniera quasi epica, quasi come uno scontro all'ultimo sangue giunto al termine. Il tutto condito da una prova canora eccezionale che sembra provenire direttamente dalle viscere della terra. Insomma, "Edifice" è un disco imperdibile sia per chi ama il genere, sia per chi non lo mastica ma ricerca comunque un album ragionato e affatto scontato.

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    17 Ottobre, 2024
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Recensire "Servitude", nuovo capitolo dei newyorkesi The Black Dahlia Murder non è impresa facile. dopo la morte dello storico e carismatico frontman Trevor, per i Nostri si è aperta una strada assai facile da percorrere: da un lato mantenere il retaggio di una figura importantissima nel mondo del metal; dall'altra riuscire comunque a (ri)dare un senso a tutta la questione. È in questo senso che l'album va visto, con tutti i pro e i contro del caso. Innanzitutto un plauso allo storico chitarrista e fondatore Brian Eschbach che ha sostituito Trevor alla voce, con un risultato a dir poco eccezionale, tanto che in alcuni punti sembrano davvero uguali nelle timbriche. In secondo luogo, poi, siamo di fronte esattamente a ciò che ci si aspetterebbe da un disco dei TBDM: Melodeath al fulmicotone ferocissimo ed estremamente tecnico, in pieno stile americano. Probabilmente ciò che colpisce, in negativo, di questo album è il fatto di essere leggermente sottotono rispetto ai capitoli precedenti. Se da una parte lo stile è quello, immutabile, ancorato e ben rodato, dall'altro ci è sembrato di notare alcuni eccessi in virtuosismi e giri di chitarre che certamente mostrano una band in forma, ma dall'altra rischiano di annoiare o comunque di far perdere il focus. Per chi vi scrive Brandon Ellis è attualmente uno dei migliori chitarristi in circolazione, con una tecnica pulitissima ed un estro artistico veramente ottimo; tuttavia c'è da sottolineare come queste due qualità se spinte troppo possono suscitare l'effetto indesiderato di risultare prolisse. Fatto salvo nelle tracce in cui i Nostri colpiscono fin da subito secchi e diretti, alcuni capitoli delle dieci tracce presenti arrancano un po' da questo punto di vista. In sostanza "Servitude" è un disco che va ben oltre la media senza tuttavia brillare come avvenuto in passato, ma visti i recenti e tragici avvenimenti non potevamo aspettarci di più da una band che si è appena rimboccata le maniche nel tentativo di ricominciare da capo senza Trevor. Per questo motivo ci sentiamo, non scevri da sentimentalismi, di promuovere il disco con un mezzo punto in più.

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    19 Settembre, 2024
Ultimo aggiornamento: 19 Settembre, 2024
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Potenti, accattivanti e adrenalinici: così si potrebbero descrivere i finlandesi Bloody Falls, band attiva dal 2017 giunta al suo terzo disco dal titolo "Amartia". Un disco che al suo interno presenta una commistione molto ben riuscita tra il filone Groove ed il classico Melodic Death, con una maggiore propensione verso il primo a dirla tutta. Comunque sia i Nostri si cimentano in una prova ben al di sopra della media grazie a dei riff totalmente spaccaossa che in alcuni punti potrebbero ricordare i Pantera o i Lamb Of God. Tuttavia non siamo di fronte ad una mera emulazione, ma a un disco che nel suo non avere tutta questa personalità sa comunque regalare dei bei momenti. Banalmente è proprio dove i Nostri si cimentano nelle parti cadenzate che l'album prende il volo; ed effettivamente i Bloody Falls ci sanno fare parecchio. Tuttavia laddove la componente Melodic Death fa la sua comparsa, ecco che spesso si ricade in stilemi fin troppo noti, con arpeggi e gemellaggi di chitarre quasi prevedibili, anche se nel complesso la formula funziona e porta a casa un discreto risultato. In sintesi, dunque, la band riesce in pieno nel suo tentativo di offrirci un prodotto sopra la media, pur non eccellendo in estro artistico, confermando quanto si diceva nel titolo: al posto giusto nel momento giusto, senza infamia e senza lode.

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    19 Settembre, 2024
Ultimo aggiornamento: 19 Settembre, 2024
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Se ancora non ce ne fosse bisogno, è bene ribadirlo per l'ennesima volta: gli inglesi Winterfylleth sono una band colossale, degna portavoce della nuova frangia Black Metal, quella più melodica ed atmosferica che negli ultimi quindici anni ha praticamente preso il sopravvento. Tuttavia tra l'essere un gruppo valido ed essere un top di gamma, per così dire, c'è un abisso enorme; abisso che i nostri hanno ampiamente superato già da un po'. Ed è con questa premessa che oggi presentiamo questo magnifico "The Imperious Horizon", ottavo album che consacra i Nostri tra i grandi del genere, cosa peraltro già constatata con il precedente (ed altrettanto stupendo) "The Reckoning Dawn" del 2020. Pochi gruppi riescono ad essere così maledettamente espressivi e pregni di carica emotiva, e i Winterfylleth centrano in pieno il bersaglio con una musica che continuamente si discosta dai canoni cosiddetti classici. Il Black Metal partorito dalla band è estremamente eterogeneo: epico a tratti, malinconico, sofisticato, brutale e dolce allo stesso tempo. Un continuo mix che ricalca lo stile di altri nomi quali Drudkh o Wolves In The Throne Room, Saor e Agalloch, passando per qualche leggera spennellata Post-Black. Insomma, siamo di fronte a quello che apparentemente potrebbe essere un mix di tutto più o meno riuscito; ma non è così. Qui siamo di fronte a qualcosa di nuovo, che certamente rimanda ad uno stile noto, ma è il come che cambia totalmente le carte in tavola: il songwriting è denso e compatto come un fiume in piena che investe l'ascoltatore con una furia senza precedenti; e per furia qui intendiamo una musica molto introspettiva che mette totalmente a nudo l'interiorità della persona lasciandola spoglia e di fronte alle emozioni più profonde. Le tracce sono lunghe, intriganti e costantemente caratterizzate da alti e bassi, con momenti feroci ed altri più malinconici. E questo gioco di luci ed ombre non fa che commuovere di continuo, costringendo l'ascoltatore a volerne sempre di più. Dal canto nostro i Winterfylleth si sono guadagnato il primo posto senza il minimo dubbio con il miglior disco Black Metal dell'anno.

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    20 Agosto, 2024
Ultimo aggiornamento: 20 Agosto, 2024
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Iniziamo questa recensione con una celebre frase di Batman nei confronti della sua nemesi, ossia che dal Joker devi aspettarti l'inaspettato. Ecco, questo concetto che potrebbe sembrare puramente dialettico, riflette alla perfezione quello che sono oggi i Dark Tranquillity: una band leggendaria che ha inventato un genere, con una carriera fatta di capolavori e momenti più bui, come dimostrano le dipartite di membri storici negli ultimi anni. Insomma, per Mikael Stanne e soci questi sono stati tempi burrascosi. Ne sono un esempio gli ultimi due dischi, "Atoma" e "Moment", album stupendi e meravigliosi che tuttavia ci hanno presentato una band rinnovata sia nella line-up che nello stile, molto più dolce e melodico, in netto contrasto con le vecchie glorie più ribollenti di magma. Insomma, questo sono i DT di oggi, prendere o lasciare. E poi eccoli di nuovo con questo clamoroso ritorno dal titolo "Endtime Signals", uno dei più grandi giri di boa della band che riporta il sound indietro di almeno quindici anni, ai tempi di "Fiction" del 2007. Non ci crediamo nemmeno noi, eppure è così. Un disco incredibilmente più duro ed energico, con un songwriting cattivo, arrabbiato, quasi stufo della parentesi più morbida degli ultimi anni. Sembra quasi che il terreno, già iniziatosi a plasmare con "Moment" grazie alla chitarra di Johan Reinholdz, sia finalmente diventato fertile per poter tirare fuori dal cilindro un album colossale che guardasse indietro senza vena nostalgica o citazionistica, quanto con una sincera voglia di riagganciarsi ad un filone compositivo più consono ai Nostri. Eppure in questa durezza c'è sempre e comunque spazio per la meravigliosa voce in pulito del leggendario Mikael, che anche qui ci offre una performance canora da encomio, ma stavolta un po' più centellinata o quantomeno relegata a piacevoli parentesi all'interno dei brani. Inoltre, dettaglio più che importante, le chitarre sono di nuovo le vere protagoniste a differenza dei capitoli precedenti dove le tastiere la facevano da padrone indiscusse. Ora, invece, le asce hanno un ruolo dominante, con riff che si intrecciano nelle tipiche armonizzazioni che hanno reso i colossi di Goteborg quelli che sono. Insomma "Endtime Signals" si rivela essere un album potente dal punto di vista espressivo, elegante, maturo e pieno zeppo di sfaccettature che riflettono da un lato l'infinita preparazione musicale dei DT, dall'altro mettono in luce una nuova (?) fase che probabilmente ci porterà a vedere la band di nuovo su una carreggiata più stabile dopo anni di turbolenze. In ogni caso questo è un capolavoro. Punto.

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