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Opinione scritta da ENZO PRENOTTO

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Opinione inserita da ENZO PRENOTTO    13 Marzo, 2024
Ultimo aggiornamento: 13 Marzo, 2024
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Per i Persefone, band nata nel 2001 proveniente da Andorra, è arrivato un momento importante che spesso ha causato non pochi problemi ad altri colleghi, ovvero l’ingresso di un nuovo singer, tale Daniel Rodríguez Flys, che va a sostituire lo storico Marc Martins Pia ed in più la pubblicazione di questo nuovo EP, "Lingua Ignota: Part I", che vedrà all’opera quest’ultimo. I Persefone si sono sempre saputi distinguere per il loro Progressive/Death Metal (o Extreme Progressive Metal) dalle venature molto cinematografiche e dall’alto tasso tecnico, che si è sempre rivelato croce e delizia, ossia il loro essere rinchiusi in quel limbo da cui non sono mai usciti e nel genere proposto può essere un rischio. Anche in questo caso c’è stata la collaborazione con l’ottimo David Castillo (conosciuto per i suoi lavori con Opeth, Dark Tranquillity, Katatonia e tanti altri) in fase di produzione/registrazione, che ha nuovamente valorizzato ogni dettaglio dell’opera fornendo suoni bombastici e cristallini. Partendo dal punto cruciale: il sound tipico della band è fondamentalmente rimasto lo stesso, quindi probabilmente non deluderà gli appassionati. Le cinque tracce dell’EP sono fortemente tecniche (ma mai eccessivamente ed è un notevole punto a favore) ed evocative, dal taglio melodico molto cinematografico. Tralasciando intro e outro, rispettivamente l’evocativa “Sounds and Vessels” e l’enigmatica “Abyssal Communication”, si entra veramente nel vivo con l’apocalittica “One Word”. Le ritmiche sono molto tese e non lasciano respiro all’ascoltatore fino al pathos etereo dei cori puliti posti sapientemente nei punti giusti. Il brano è complesso e ricco di dettagli ma mai troppo cervellotico e può essere apprezzato da tutti. E, cosa non da poco, il vocalist Daniel sorprende per un range vocale molto più ampio del suo predecessore, dando più varietà alla musica. Nella successiva “The Equable” viene lasciato più spazio alla melodia specie nel riff iniziale per poi espandersi in esplosioni epiche e le consuete acrobazie strumentali che trovano il climax nella title-track “Lingua Ignota”, in cui le sferragliate metalliche si contorcono e si intrecciano in un Progressive Metal iper elaborato con i consueti intermezzi melodici che permettono di rilassare l’ascoltatore. In definitiva l’opera mostra dei leggeri cambiamenti a livello vocale ed allo stesso tempo conferma la qualità del gruppo che durante l’arco della sua carriera ha sempre puntato a trasmettere un emozionalità che è sempre più rara nel genere. Difficile dire a cosa porterà questo EP. Per ora promossi.

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Opinione inserita da ENZO PRENOTTO    12 Marzo, 2024
Ultimo aggiornamento: 12 Marzo, 2024
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E’ doveroso partire da una premessa per evitare casi di omonimia. Questi DOL sono una band finlandese, da non confondersi con le controparti serbe o giapponesi. La band nasce a Helsinki nella primavera del 2018. All’epoca non c’era esattamente la concezione di gruppo dato che era tutto in mano al solo chitarrista/cantante Eero “Mc” Veri a cui poi si sono aggiunti via via gli altri musicisti. Due anni più tardi esce il primo EP ("Between Love and Death"), seguito pochi anni dopo dal qui presente secondo EP intitolato "Amor Brutale". In questo caso il songwriting è diventato più ampio, ossia che tutta la band ha contribuito alla realizzazione delle tracce che partono nuovamente da un Rock/Metal molto freddo e malinconico, tipicamente nordico, per evolversi poi in qualcosa di più metallico ed oscuro grazie anche all’aiuto del chitarrista degli Stratovarius, Matias Kupiainen, in veste di produttore e addetto al mixing in fase di registrazione. La prima cosa che salta all’orecchio è una maggiore propensione all’impatto della chitarra, molto più in prima linea rispetto a come lo erano prima le tastiere. I ruoli si sono praticamente invertiti e ne è esempio lampante la prima traccia “Hand of Hate”, in cui i synth lasciano presto spazio a riff metallici molto Industrial, un cantato ancora più gelido e ritmiche molto dure, quasi robotiche. Le melodie comunemente grigie ci sono ancora, ma rimangono un po’ in ombra salvo espandersi durante il lavoro solista oppure nella morbida “Lillith's Song”, che, nonostante la sua semplicità, funziona bene. Con “Dead by September” il muro di suono si fa più massiccio, specialmente nelle ritmiche sul finale, ma è nelle due tracce finali che si sentono dei prepotenti miglioramenti. I ritornelli si fanno si efficaci ma si mettono sotto i riflettori dei passaggi strumentali in evoluzione prima in “Drop Dead Vain” (sfizioso il giro di basso iniziale) e poi con le robuste atmosfere di “Pain Walk with Me”. Le cinque tracce di questo EP segnano un deciso passo avanti per i DOL. Seppure ci siano ancora elementi da sgrezzare e che l’originalità continui a latitare, la strada è quella giusta.

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Opinione inserita da ENZO PRENOTTO    11 Marzo, 2024
Ultimo aggiornamento: 11 Marzo, 2024
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I tedeschi Silent Revenants sono un giovane sestetto nato nel 2015 che dopo qualche assestamento di formazione ed una campagna di crowdfunding pubblica un primo album chiamato "Walk with Fire". Ci vogliono poi diversi anni per arrivare ad un seguito ovvero questo "The Withering of the Blue Flower", disco che prosegue sulla via del Symphonic Metal incrociato con il Folk più qualche piccola sperimentazione sparsa nel corso dell’opera. Si denota qualche segnale di maturazione e, in generale, di miglioramenti anche se a volte si finisce con l’esagerare. L’opener e title-track “The Withering of the Blue Flower” si porta dietro dal passato sia i pregi che i difetti della band. Da un lato ci sono le orchestrazioni, tentazioni Folk ed una variegata propensione strumentale. Dall’altro le vocals femminili faticano ad ingranare apparendo monocordi ed in linea di massima il brano appare abbastanza statico tranne una poderosa cavalcata Power Metal nel finale. Con la successiva “Searching for Eden” si iniziano a percepire segni di “evoluzione” o comunque di perfezionamento. Le melodie si fanno più battagliere e pregne di pathos (saltano alla mente i lavori dei nostrani Elvenking, ma anche degli Arkona), il guitarwork è dinamico e non cede alla tentazione americana del riff copia/incolla e le sezioni strumentali sono appaiono meno piatte. Seppure i testi risentano un po’ troppo di cliché tipici di gruppi come Freedom Call o Manowar, i Nostri hanno lavorato non poco per crescere e ne sono prova il jazz di “Will-O'-The-Wisp” (che ricorda le sperimentazioni di un vecchio brano chiamato "Behind the Curtain" o anche "The Merry-Go-Round (Rise of the Revenant Pt. 2)"), ma soprattutto nei pezzi più lunghi ossia “Let The Dragons Fly Forever” e “Orphaned Angels”, che però non riescono a tenere alto l’interesse apparendo discontinui; stesso discorso per l’orientaleggiante “Siren”, che nonostante un buon riff aggressivo non sorprende. I pezzi immediati risultano nuovamente i migliori: “Flesh Golem” richiama i nostri Folkstone con un Folk Metal epicheggiante con l’uso delle cornamuse, la grezza “Embers” con i suoi inserti fiabeschi potrebbe ricordare gli Skyclad, la battagliera “Storm Witches” con i suoi piacevoli cori ed infine la veloce “Horizons”. Concludendo, la seconda prova dei Silent Revenants è prettamente di passaggio. Vengono consolidate le potenzialità però non si riesce ancora a scrollarsi di dosso le influenze e si necessitano miglioramenti nelle vocals (sia pulite che in growl). Per il resto ci si potrebbe aspettare un terzo disco molto interessante.

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Opinione inserita da ENZO PRENOTTO    05 Febbraio, 2024
Ultimo aggiornamento: 05 Febbraio, 2024
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Innumerevoli sono le metal bands che hanno deciso di cambiare pelle inglobandoci dentro atmosfere elettroniche in maniera massiccia ed i risultati non sempre corrispondono alle aspettative. Ci provano anche i bolognesi Reason Behind, attivi dal 2010, con questo nuovo "Architecture of an Ego", disco che esaspera ancora di più la componente EDM (Electronic Dance Music) combinandola ad una sorta di “concept” fantascientifico, come si può notare dalla bella copertina. Il cambiamento del combo emiliano non è esattamente repentino, in quanto era già nell’aria dal precedente "Project: M.I.S.T.", ma bisogna andare un po’ con ordine. Il primo album, "The Alpha Memory", era un lavoro prettamente Power/Symphonic Metal e puntava moltissimo su melodie di ampio respiro ed un sound bello robusto e genuino. Poi le cose sono cambiate e l’elettronica si è insinuata nelle trame musicali della band spostando le coordinate sonore in qualcosa prettamente di impatto, ma molto più semplificato. Il recente album diventa una sorta di macchina in cui la chitarra e la stessa sezione ritmica si appiattiscono in un mood moderno e compresso (che va tanto in voga nei dischi Metal attuali), con riff piatti e banali, breakdown ritmici sentiti miliardi di volte ed i soliti assolo iper tecnici. Si decide di puntare su una musica epilettica in cui si lascia spazio più ai ritornelli e alle linee vocali della vocalist Elisa, che però vengono schiacciati dalla potenza generale (“The Fall Of Human Race”). Seppure i già citati ritornelli si lascino ascoltare con piacere, i brani lasciano veramente poco dal lato strumentale e a poco serve la componente danceable per risollevare le sorti dei brani che finiscono per l’assomigliarsi tutti (la piatta “A New Breed”, l’insipida “Seas Of Grey” o la simile “Into the Break Of A Better Day”). Se un episodio come “Heart Begins To Break” è divertente nella sua tamarraggine, man mano che si avanza nel corso dell’opera l’attenzione tende sempre di più a calare a causa di brani spenti come “The Flame Inside” e “Letter To The Last Of Us“. I brani più interessanti sono “I³” grazie ai suoi cori epici - che vede la collaborazione di Steva (Deathless Legacy) e Grace Darkling (Nocturna) - e la posata “The Phantom Pain”, che avrebbe una costruzione più interessante nonostante un lavoro alla sei corde troppo statico. In definitiva, il disco è un notevole passo indietro rispetto agli esordi, avvicinandosi a quanto stanno facendo gruppi come Amaranthe o Lacuna Coil post mercato americano. A chi cerca un ascolto semplice potrà affascinare, ma per chi cerca qualcosa di più è meglio cambiare aria. Gran peccato.

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Opinione inserita da ENZO PRENOTTO    05 Febbraio, 2024
Ultimo aggiornamento: 05 Febbraio, 2024
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Gli Attractive Chaos sono una sorta di alleanza fra musicisti di diversa provenienza (principalmente Italia e Francia) nata nel 2022 che arriva dopo circa un anno all’EP di debutto "The Fire Between Us", che ricalca in maniera abbastanza netta le orme di gruppi più conosciuti sia nell’ambito del Metal melodico sia nel campo del Progressive/Symphonic Metal. Il nucleo principale della band è composto dal bassista Pietro Paolo Lunesu (Even Flow), dal chitarrista Clément Botz (Beneath My Sins) e la cantante Emma Elvaston (Beneath My Sins), più il session alla batteria Thomas Calegari. Le sei tracce dell’opera non si allontanano particolarmente dagli stilemi tipici del Melodic Metal, ma cercano in compenso di bilanciare la situazione sfruttando le doti individuali dei musicisti coinvolti. Partendo da una produzione bombastica pregna di suoni limpidi e cristallini, i Nostri attaccano a suon di atmosfere orientaleggianti con l’opener “Before You Hit The Ground” (metodo invero decisamente abusato). Viene subito fuori la propensione al tecnicismo che, se da un lato dona valore aggiunto (le ritmiche di basso e batteria hanno un loro perché), dall’altro rischia di diventare mero autoerotismo strumentale. La chitarra di Clément finisce purtroppo nel tranello nonostante cerchi di contenersi puntando inizialmente su un riffing tutto sommato basilare e scontato. A far da cuscinetto ci pensano le vocals della brava Emma, che donano un mood che fa saltare all’orecchio gli Epica ma in maniera meno pomposa. Dalla seconda traccia “Won & Lost” cominciano i veri problemi. Il sound si fa sempre più cervellotico e compresso, stridendo con le buone intenzioni del brano e soprattutto con la meravigliosa performance vocale. In particolare si nota un fastidioso piglio nervoso da metà brano che sfocia in parti eccessivamente compresse e violente che stonano clamorosamente. Non va meglio con l’esagerata semi-ballad “Come To Me”, che sforna dei cori enormi nonostante si noti una buona cura per dettagli e giochi strumentali non ingombranti. Il gruppo fa fatica a far convivere l’anima melodica e quella “pirotecnica” creando un ibrido troppo scombinato. Non è un caso che quando si punta verso un’unica strada venga fuori una perla celestiale come la magnifica “Still Here”, colma di di dolcezza notturna e di un crescendo toccante. “As You Are” ricade nella trappola e mette in mostra inutili manie di protagonismo nel lavoro dei musicisti - soprattutto la chitarra -, rovinando il pathos eroico iniziale (qui i rimandi agli Amaranthe sono oggettivi), mentre la finale “The Storm” pare una pallida copia dell’opener ma in versione più fiacca, nonostante l’ospite Mario Del Rio Escobedo (Erszebeth, The Dark Star Calling, Alia Tempora) che non riesce a salvare le sorti del pezzo. Un lavoro troppo curato nell’aspetto esteriore ma che pecca dal lato compositivo. Non bastano tecnica e cura minuziosa per un buon album.

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Opinione inserita da ENZO PRENOTTO    05 Febbraio, 2024
Ultimo aggiornamento: 05 Febbraio, 2024
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Non è così insolito imbattersi in dischi decisamente particolari, dove si fatica a comprendere cosa una band voglia trasmettere ed il rischio di incomprensioni è sempre in agguato. Chiaro esempio è il terzo lavoro dei greci Dei Umbrae (al momento stanno già lavorando al quarto album che dovrebbe uscire nel corso dell’anno) a nome "Archangel" che dovrebbe rispecchiare la presunta anima Doom/Sinfonica dei Nostri, ma la realtà, sfortunatamente, non è così limpida e cristallina come lo ci si aspetterebbe. “Inner Compass” irrompe di prepotenza proponendo un Heavy Metal solido e compatto con chitarre e batteria possenti ed in evidenza, ma nel giro di poco il sound comincia a farsi confusionario. Il trio pare perdere la bussola innestando elementi su elementi che non sembrano incastrarsi a dovere, come le vocals modello Tom Araya degli Slayer, cambi di tempo ed attitudine quasi Prog Metal. Vista così l’idea non sarebbe neanche male, ma la band non fa capire all’ascoltatore dove si andrà a parare passando in seguito a sfumature epico/battagliere alla Grave Digger incrociate con sfuriate Thrash Metal (“Fighting For A Crown“), orchestrazioni e sinfonie strampalate (“Fame”) e intermezzi folk/fiabeschi (“Awaiting”), tanto per fare degli esempi. Sia chiaro che non si parla di mancanza di tecnica o idee ma è la questione del “come vengono messe in pratica” il punto focale. Tutto pare messo a caso senza un senso logico e sarebbe una cosa interessante se si parlasse di Captain Beefhart o Frank Zappa e company. No, qui si parla di un disco che continua a cambiare registro senza ritegno e ne è la prova lampante la title-track “Archangel”, che vorrebbe essere folle ma senza riuscirci. Anche proseguendo con l’ascolto si incappano in brani incomprensibili come l’epicheggiante “Sirens” o “Unexpected”, con quel magico riff sporco alla Megadeth che si dipana poi in melodie più classiche cadendo miseramente nel baratro con il passare dei minuti senza lasciare tracce chiare. La stessa “Throe”, probabilmente l’apice dell’album, soffre anch’essa di problemi ed è un peccato dato il notevole e massiccio muro di suono ed una ricerca vocale non banale. Si suppone che i Dei Umbrae non avessero ben chiare le loro intenzioni oppure hanno voluto strafare buttando dentro troppo. Bastava meno, molto meno. Si spera in una corposa asciugata nel nuovo lavoro in arrivo.

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3.5
Opinione inserita da ENZO PRENOTTO    05 Febbraio, 2024
Ultimo aggiornamento: 05 Febbraio, 2024
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Il progetto Madness of Sorrow nasce nel 2011 e fa capo al polistrumentista Muriel Saracino, che nel giro di poco tempo riesce a raccogliere numerosi consensi fra gli addetti ai lavori ottenendo un buon riscontro di pubblico. Ciò permette alla band di lavorare a diverse pubblicazioni (cinque album) fino a questo EP di quattro tracce dal titolo "666 : The Disciple", che segue la via del DIY intrapresa da diverso tempo. Le influenze musicali sono molteplici, ma ruotano comunque attorno all’Industrial Metal in salsa più orrorifica. Il lavoro si presenta decisamente sporco e grezzo (forse troppo, evidenziando qualche probabile problema nella produzione) specie nella prima traccia “Possessed”, che appare non poco confusionaria. Il riffing aggressivo dall’anima Thrash Metal iniziale è efficace e viene trasfigurato in un mood decisamente più Industrial alla maniera del buon reverendo Marilyn Manson (ma anche i nostrani Death SS), soprattutto nelle vocals abrasive. Purtroppo i limiti della produzione citati in precedenza non permettono all’ascoltatore di comprendere appieno cosa succede lasciandolo spaesato e poco aiutano gli inserti di tastiera troppo plastificati. Dalla successiva “Damned” le cose migliorano. Le venature gotico/decadenti si fanno più delineate ed il sound generale migliora grazie anche all’apporto delle vocals femminili che amplificano l’atmosfera. Segue poi la dura “Metamorphosis” (la traccia forse più dura del lotto) con i suoi giri di chitarra imponenti e distorti, fino alla chiusura del cerchio con il ritorno alle gelide derive industriali di “Disciple”, con richiami a Nine Inch Nails e Ministry. Un buon lavoro, non particolarmente originale, che avrebbe meritato un po’ di cura in più nei suoni perché le tracce hanno comunque del buon potenziale.

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Opinione inserita da ENZO PRENOTTO    05 Febbraio, 2024
Ultimo aggiornamento: 05 Febbraio, 2024
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Quella dei Curse Of Cain è una storia parecchio travagliata che risale oramai a più di vent’anni fa, quando nacque il progetto grazie alla mente di Jonas Asplind (ex-Follow The Cipher, ex-Ad Infinitum), noto anche come The Pirate. Solo nel 2020 la situazione ha preso veramente piede con l’inizio delle registrazioni e si è trasformata nel vero e proprio disco di debutto omonimo con l’aiuto anche di Ken Kangström (vecchia conoscenza di Jonas nei Follow The Cipher). Dopo qualche anno finalmente si riesce ad ascoltare ciò che è venuto fuori dopo un ventennio di lavoro che non è facilmente inquadrabile, essendo una sorta di manifesto postmoderno del Metal. Si sentono estratti di Metal classico come pure di Melodic Death Metal, ma anche altre influenze che emergeranno durante l’ascolto. Partendo da un immaginario estetico Steampunk, la band spinge su di un mix sonoro che intreccia al meglio melodia e potenza (“Embrace Your Darkness”) in una veste sicuramente moderna (“The Mark”), ma senza dimenticare la lezione del passato. Le canzoni sono sempre immediate, ma al loro interno nascondono delle interessanti stratificazioni e cambi di atmosfera (“Alive”), quasi come se fosse un disco Prog ma senza esserlo del tutto. C’è un’atmosfera gotica che pervade il disco come in “Blame”, in cui le vocals giocano un ruolo importante risultando particolari e tenebrose ma sempre colme di pathos, specie nelle sezioni corali e nei ritornelli (buona anche la controparte femminile). I dettagli sono diversi ed invogliano ad ascoltare più di una volta i brani che sprigionano il loro potenziale con calma inserendo orchestrazioni (“Hurt”), sinfonie elettroniche (“Never See The Light Again”) ed un’epicità marcata (“The Ground”). E’ un Metal diverso dal solito che potrebbe piacere molto a chi ricerca qualcosa di nuovo, eppure ha dalla sua delle sezioni veloci e devastanti, assolo fiammanti e tanta energia che garberà non poco anche ai fan della vecchia guardia. L’unico scoglio è il non essere incastonato in qualcosa di chiaro, come se non avesse una chiara idea di dove andrà a parare, ma a quanto pare si sta già lavorando al seguito quindi si vedrà a breve se la band riuscirà a concretizzare le sue idee. Finalmente qualcosa di fresco, ancora forse grezzo ma che può portare a nuovi orizzonti sonori. Si rimanga sintonizzati con i Curse Of Cain!

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Opinione inserita da ENZO PRENOTTO    05 Febbraio, 2024
Ultimo aggiornamento: 05 Febbraio, 2024
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Dopo qualche anno dalla loro nascita, i nostrani Eternal White Trees arrivano finalmente al debutto con "The Summer That Will Not Come". Per chi non li conoscesse sappia che questo trio (attivo dal 2019) è composto da musicisti con un background di tutto rispetto: Gerassimos Evangelou (Lord Agheros), Antonio Billé (Anakonda) e Andrea Tilenni (Fear Of Eternity, ex-Sinoath). Il combo decide quindi di intraprendere la via del sound malinconico perennemente in bilico fra il Metal ed il Post-Rock, sulla scia di gruppi come Katatonia, Paradise Lost e simili. Dopo la grigia intro “It Comes the Rain” si entra nel vivo con “Ravens Lady”, che è un po’ il punto focale del disco in quanto mette sul piatto tutti gli ingredienti che andranno a comporre il resto delle tracce. Il mood è tipicamente plumbeo e autunnale e viene enfatizzato da vocals corali afflitte in cui la musica (e la stessa produzione) è decisamente scarna e scheletrica. Emergono influenze massicce come gli Swallow The Sun o anche gli Anathema del primo periodo specie nelle linee melodiche della chitarra. Si percepisce però un senso di staticità che si insinua sempre di più nel corso dell’album. La stessa traccia appena citata viene allungata troppo e gli schemi iniziano a farsi già ripetitivi. C’è una sorta di linea immaginaria, un binario da dove non si riesce a schiodarsi e ne sono prova la tetra “Reasons” o l’aspra “Flawless”. La situazione migliora un pochino con il Doom marcato di “Waters”, peccato però che risulti troppo spenta nonostante un uso delle vocals più aggressivo. Anche “My Funeral” (si cerchi più originalità nei titoli) risolleva le sorti con un bel lavoro di melodie, venendo però affossata da dei rimandi eccessivamente espliciti ai Novembre nelle clamorosamente derivative “The Butterfly and the Hurricane” e “The Summer That Will Not Come”, che avrebbe anche delle buone potenzialità. Sia chiaro che il disco nel suo complesso è godibile ed appassionerà gli amanti del genere, ma pecca in maniera preoccupante di personalità e vista l’importanza dei musicisti in questione non ci si può passare sopra a fronte anche di una splendida copertina. E’ un debutto e lo si prenda come tale. Si vedrà con il prossimo lavoro.

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Opinione inserita da ENZO PRENOTTO    05 Febbraio, 2024
Ultimo aggiornamento: 05 Febbraio, 2024
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Dopo cinque anni dall’ultimo lavoro tornano in scena i Redemption, band oramai attiva da circa vent’anni guidata dal fondatore e chitarrista Nicolas van Dyk. che continua con costanza e tenacia a portare avanti questo progetto orientato ad un (Extreme) Progressive Metal iper tecnico e funambolico, avvalendosi di una schiera di musicisti preparatissimi, soprattutto il vocalist Tom S. Englund (lo ricorderete sicuramente dietro al microfono nei più posati Evergrey), già in forza da diversi anni. Questo "I Am The Storm", fin dal titolo, estremizza ancora di più il sound dei nostri affascinando ancora di più i fan del genere ma scoprendo incautamente i suoi punti deboli. Tralasciando le possibili disquisizioni su evoluzione, inquadramento di genere musicale o altre chiacchiere inutili, il problema di fondo è sempre lo stesso che da anni affligge la band: la scrittura. Se fino ad oggi il buon Nicolas si era tenuto un po’ a freno con le sbrodolate strumentali (il precedente "Long Night's Journey into Day" era decisamente godibile, ma anche i primi lavori come il buonissimo "Snowfall on Judgment Day"), qui invece non ci sono più limiti. L’opener e title-track “I Am The Storm”, dal tiro decisamente thrashy, è serratissima ed eccessivamente elaborata con Englund che appare quasi un corpo estraneo e non sarà l’unico caso. La successiva “Seven Minutes From Sunset” appare più visionaria, ma nel giro di poco perde il controllo come se ci si trovassero davanti i Nevermore ma senza anima e non va meglio con episodi come “Resilience”, in cui sembra di ascoltare i Dream Theater sotto steroidi, oppure la pomposa e lunga “All This Time (And Not Enough)”, che presenta troppe similitudini con gli altri brani. Si cerca poi di proporre una versione moderna del Prog Rock anni ‘70 (la piacevole “Remember The Dawn”) e proprio quando ci si lascia andare più al “sentimento” vengono fuori piccole perle come l’intensa - seppure non sorprendente - “The Emotional Depiction Of Light”, la melodica e quadrata “Turn It On Again” o l’altra suite dal taglio cinematografico “Action At A Distance”, in cui i dovuti freni servono a dare sostanza al brano senza che i non avvezzi alla tecnica esagerata non cedano all’ennesimo sbadiglio. I Redemption mirano principalmente ad una particolare cerchia di pubblico dimenticandosi spesso (e non sono gli unici, sia chiaro) che il Prog è qualcosa di più del mostrare i muscoli e servono eleganza, raffinatezza e tanto, tanto cuore. Se non si conosce la band si consiglia di recuperare i primi lavori.

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