Opinione scritta da Virgilio
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Ultimo aggiornamento: 15 Febbraio, 2025
Top 10 opinionisti -
Mark Tremonti, noto anche per la sua militanza in band di grande successo come Alter Bridge e Creed, torna con il progetto che porta il suo nome, che giunge con questo nuovo "The End Will Show Us How" al suo sesto full-length. L'album appare improntato ad una sorta di equilibrio tra le sonorità che hanno sempre caratterizzato la produzione della band e qualche traccia che tutto sommato non sarebbe stata male neanche in un disco degli Alter Bridge, creando così un mix che rende il lavoro molto diretto e accattivante sin dai primissimi ascolti. Le canzoni sono alquanto lineari e presentano in linea di massima tutte una struttura abbastanza simile (persino schematica, arriveremmo a dire) con un paio di ripetizioni strofa-ritornello, un intermezzo con qualche variazione, assolo e poi ancora ritornello. Qualche traccia presenta sonorità più dure, con riff decisi, quali ad esempio "One More Time" o "Just Too Much", mentre altre sono decisamente più leggere, come "It's Not Over" e "Now That I Made It", ma comunque, in entrambi i casi, riescono ad essere alquanto accattivanti e molto dirette. Certo, a lungo andare l'ascolto un po' si appesantisce, nel senso che magari non sarebbe stato male snellire un po' la tracklist, perchè per quanto valida, con dodici tracce per quasi un'ora di durata si fa fatica a mantenere alta la soglia di attenzione fino alla fine. Al di là di questo, certamente i Tremonti confezionano anche stavolta un disco con tante buone canzoni, tra le quali spiccano, senz'altro, oltre a quelle già menzionate, "The Mother, The Earth And I" e la titletrack, ma anche altri brani come "Tomorrow We Will Fail", "Live In Fear" e "All The Wicked Things". In conclusione, riteniamo "The End Will Show Us How" un buon disco, in linea di massima sulla scia dei precedenti e senza particolari sorprese: magari poteva esserci qualche piccolo ma più convinto sforzo di sperimentare anche qualcosa di leggermente diverso ma, tutto sommato, può andare bene così perchè le tracce in qualche modo rappresentano quello che è lo stile e il background di Tremonti, ottimamente riproposto nella sua essenza ai suoi fans che lo seguono nei suoi vari progetti, esprimendone una buona sintesi.
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I Grave Digger celebrano ben quarantacinque anni di attività con questo nuovo studio album, intitolato "Bone Collector". Quasi superfluo ricordare come in tutti questi anni la band fondata da Chris Boltendahl nel 1980 sia diventata un'autentica istituzione e uno dei pilastri del metal tedesco, ma questo nuovo disco dimostra come il gruppo non sia affatto intenzionato a fermarsi, bensì al contrario intenda rilanciarsi con rinnovato vigore. Merito anche del nuovo chitarrista, Tobias Kersting (ex Orden Ogan), già visto all'opera con Boltendahl nel suo progetto Steelhammer, che però in qualche modo qui ha rivisitato il sound dei Grave Digger con risultati decisamente più convincenti. Già il singolo apripista, "The Grave Is Yours", lasciava intendere come vi fosse l'idea di tornare un po' al sound delle origini: in realtà, il brano non è stato incluso nell'album (salvo che come bonus track in alcune edizioni), ma gli altri brani sono comunque caratterizzati da uno stile fortemente incentrato su riff secchi e taglienti: un heavy/power molto ottantiano, con una distorsione che però riesce a conferire un sound più accattivante e moderno. Naturalmente, ad accompagnare le chitarre di Kersting c'è una sezione ritmica veloce e potente e poi ovviamente la caratteristica voce bassa e roca di Boltendahl, che però, per la verità, in qualche brano sembra mostrare un po' di stanchezza o, comunque, rimane troppo fissa su certe tonalità, sembrando in difficoltà su alcune armonizzazioni. Al di là di questo, i brani di "Bone Collector" suonano effettivamente maestosi, potenti e carichi di energia: magari alcune tracce, come ad esempio "Killing Is My Pleasure", "Mirror Of Hate", "Graveyard Kings" o il mid-tempo finale "Whispers Of The Damned", presentano pure dei refrain abbastanza accattivanti, ma i punti di forza delle canzoni sono costituiti effettivamente dai riff decisi e trascinanti di Kersting, notevole anche in tutti i suoi dirompenti assoli. Insomma, possiamo dire che la scelta di questo nuovo chitarrista si è rivelata davvero azzeccata e questo si rivela essere l'uomo giusto per la band tedesca non tanto in occasione di una semplice celebrazione di un importante anniversario, bensì piuttosto per condurre i Grave Digger verso la loro ennesima evoluzione, pronti a rilanciarsi verso una nuova e rivitalizzata fase della loro carriera.
Top 10 opinionisti -
I Reviver sono una band olandese che era ritornata nel 2022 con l'album "A Thousand Lives", dopo una lunga assenza durata ben diciassette anni. A riprova del fatto che il gruppo si sia riformato con l'intento di avere una maggiore continuità, arriva un nuovo album, intitolato "Carnival Of Chaos". Il combo olandese propone un classico power metal, dove la voce del cantante Michael Zandbergen alterna momenti in cui è roca e bassa, ricordando parecchio quella di Chris Boltendahl dei Grave Digger, con altri dove invece opta per lanciarsi anche su tonalità più alte, benchè, in questi casi, talvolta finisca per cantare in una sorta di falsetto. In generale, la band presenta brani rocciosi, pieni zeppi di riff, puntando sulla potenza del suono (purtroppo penalizzata da una resa sonora non sempre ottimale): questa è una delle caratteristiche principali dei Reviver, che invece non brillano particolarmente in quanto a gusto melodico. Si cercano anche passaggi tendenti al thrash, come nel caso di "Nemesis Of Sion" (peraltro una delle tracce meglio riuscite) o, per contro, più delicati come nel caso di "Long Away From Home", una sorta di ballata con piano e archi. Va poi evidenziato come vengano spesso inserite nelle canzoni parti narrate, che tendono comunque a spezzare il ritmo per poi ripartire con il climax del brano o con il refrain. In generale, il songwriting del gruppo non appare particolarmente brillante: non possiamo dire che i brani siano brutti, però si fa un po' fatica ad individuare nella tracklist tracce che si mettano in evidenza o che restino particolarmente impresse: al contrario, la tracklist scivola via senza lasciare grossi sussulti o emozioni. Apprezziamo dunque il ritorno della band, però sarebbe opportuno ancora qualche sforzo in più sia in termini di songwriting che di resa sonora.
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I Fading Echoes sono una band greca formatasi nel 2019, che debutta con questo suo primo full-length intitolato "Shadow Of Another". La tracklist comprende un brano, "The Stage Of Grief", suddiviso in cinque parti distinte e separate, concepito come se si trattasse di cinque storie, alla stregua di cinque racconti che si potrebbero magari leggere da un libro. La tracklist è poi completata da altre tre tracce che non rientrano in queste parti. Con riguardo a questa sorta di "pentalogia", notiamo che la band cerca un approccio molto emozionale del proprio sound e non a caso afferma di ispirarsi a gruppi come Evergrey, Anathema, Katatonia, Opeth, Soen e Savatage. Rispetto a queste fonti d'ispirazione, mancano però decisamente la grinta e la potenza: i Fading Echoes fondano la propria musica perlopiù su un cantato malinconico, accompagnato dal piano e dalla chitarra elettrica che punta più sul feeling che non su riff decisi. Giusto nella seconda parte, "Anger", e un po' nella quinta, "Acceptance" (dove peraltro compare come ospite Zak Stevens dei Savatage) c'è appena qualche sonorità più dura e qualche parte ritmica più veloce (peraltro con un suono di batteria che non ci ha granchè convinti) o qualche notevole assolo di chitarra, come nella parte iniziale di "Depression". Va un po' meglio con le altre tre tracce estranee alla pentalogia, anche se "The First Step Forward" è una sorta di ballata pianistica che però, tutto sommato, soprattutto nel finale, comunque prende un po' di ritmo, ma in particolare con "Rumination" (anche qui con la presenza di un apprezzabile e prolungato assolo di chitarra, oltre che di uno strumento etnico come il Santur) e "The Final Act", si assiste ad un equilibrio più ottimale tra parti atmosferiche e passaggi più grintosi, cosicchè la band dimostra di saper effettivamente realizzare musica intensa, di alto impatto emotivo, senza però correre il rischio di finire per risultare lamentosa. Diciamo che i Fading Echoes hanno davvero grande talento e la loro proposta musicale è interessante, però riteniamo ci sia ancora un po' da lavorare sul proprio sound per ottenere quell'equilibrio a cui abbiamo fatto in precedenza riferimento.
Ultimo aggiornamento: 08 Dicembre, 2024
Top 10 opinionisti -
Gli Athena sono una band che aveva pubblicato tre album tra il 1995 e il 2001, per poi sciogliersi poco dopo. Di recente si è riformata con la line-up di quello che è stato il loro disco più apprezzato, "A New Religion?" del 1998 e che vedeva dietro ai microfoni Fabio Lione. Questo nuovo lavoro rappresenta la prima parte di un concept, intitolato "Everflow", il cui primo capitolo è "Frames Of Humanity", prendendo spunto dal nome della prima traccia. A quanto pare, l'idea di concept suddivisi su due album, non certo nuova, sembra però essere stata alquanto sfruttata quest'anno (ad esempio in precedenza sono già usciti quelli di Vision Divine e Stranger Vision): una formula che per la verità non ci entusiasma particolarmente, perchè si tratta di dischi strettamente collegati di cui si ha tuttavia inevitabilmente una visione parziale, almeno finchè viene pubblicata solo la prima parte. Ad ogni modo, questi nuovi Athena, che hanno aggiunto al loro moniker XIX (in quanto riformatisi nel 2019) sono riusciti a realizzare comunque un disco dal sound molto ben definito e abbastanza indipendente anche dal punto di vista concettuale, che funziona molto bene già così, al di là di quello che potrà essere il seguito. Memori dei loro precedenti full-length, ci saremmo aspettati uno stile più tendente al power metal, mentre invece su questo "Frames Of Humanity" c'è un approccio decisamente più prog metal, unito ad un metal melodico e a sonorità molto moderne, che accolgono di tanto in tanto anche elementi elettronici. In realtà le tracce mediamente non sono particolarmente lunghe, anzi presentano un minutaggio abbastanza compatto, però nonostante ciò sono sviluppate in maniera alquanto tecnica, con parti ritmiche davvero complesse e anche qualche sperimentazione, oltre a una struttura non sempre lineare ma che prevede intermezzi atmosferici o cambi tematici. Sicuramente ci possono venire in mente i conterranei Eldritch, ma lo spettro di influenze di questi nuovi Athena XIX è certamente più ampio: già nella titletrack sono evidenti ad esempio i richiami ai Kamelot e, non a caso, lo stesso ex cantante della band americana compare come guest nel brano "I Wish". Il lavoro strumentale è certamente eccellente sia, come dicevamo, per la sezione ritmica, composta da Alessio Sabella al basso e da Matteo Amoroso alla batteria, sia per quanto concerne chitarre e tastiere, rispettivamente curate da Simone Pellegrini e Gabriele Guidi, davvero di altissimo livello. Un ulteriore valore aggiunto è però senza ombra di dubbio rappresentato dal cantato di Fabio Lione, qui probabilmente anche più libero di esprimersi rispetto alle sue band principali, tanto che lo troviamo perfettamente a suo agio tra registri e tonalità molto diverse in quella che, a nostro parere, è una delle performance più belle della sua carriera. Oltre ai brani già menzionati, segnaliamo tra le tante perle della tracklist tracce tecniche come "The Seed" oppure "The Calm Before The Storm", più melodica ma comunque davvero coinvolgente nei ritmi, la nostalgica e cangiante "What You Most Desire" o, ancora la geniale e sorprendente "Synchrolife", ma al di là delle singole citazioni tutto l'album è davvero notevole. Davvero un ritorno sontuoso e in grande stile questo degli Athena XIX, una band senza dubbio molto interessante, che auspichiamo potrà adesso proseguire con una certa continuità.
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Gli Aeon Gods sono un nuovo progetto formato da Alex e Anja Hunzinger, a seguito dello scioglimento degli Aeternitas. Rispetto alla precedente band, l'attuale formazione è orientata in maniera più decisa verso un classico power metal teutonico, fortemente influenzato da Helloween, Grave Digger, ecc., rispetto al quale viene data però un'impostazione più "teatrale", dato che il gruppo s'ispira a tematiche riguardanti la mitologia babilonese e i musicisti si presentano tutti con nomi fittizi e con indosso trucchi e costumi. A tal riguardo, va detto però che i testi, relativi a questi miti, tendono ad essere persino un po' didascalici, nel senso che si limitano nella maggior parte dei casi a narrare le vicende e gli scontri tra i vari dei che popolavano l'universo di quest'antico popolo mesopotamico. A livello musicale, il sound è arricchito da orchestrazioni che in effetti non sono mai troppo marcate o invadenti. Lo stile, come dicevamo, è un power metal caratterizzato perlopiù da ritmi veloci e cori (diciamo un po' alla Hammerfall, giusto per rendere l'idea) con la voce che predilige tonalità molto alte ma tutto sommato è in grado di spaziare andando anche su un'impostazione più bassa, facendoci pensare in qualche modo a Chris Boltendahl o a Peavy Wagner. Per quanto poi la struttura dei brani sia abbastanza semplice e lineare, sono apprezzabili gli arrangiamenti, con una certa cura dei particolari sia da parte dei due chitarristi Nino Helfrich (Inner Axis) e Robert Altenbach (Iron Angel), che da parte della stessa Anja. La tracklist presenta dunque brani abbastanza classici per il genere, talvolta con risultati tutto sommato buoni, come nel caso di "Sun-God" e "King Of Gods", mentre in altri casi questi risultano penalizzati dal fatto di non presentare un refrain particolarmente brillante, non eccezionale per le melodie e magari persino un po' sempliciotto nelle liriche, come avviene ad esempio per "The Descent" e "Monsters Of Tiamat". In qualche altro brano, pur senza alcuna eccessiva complessità, la band prova ad inserire qualche soluzione più particolare o degli intermezzi, come nel caso di "Babylon Burning" o della conclusiva "Tablet Of Destinies". Va notato, poi, come un brano, "The Flood", sia suddiviso in tre parti, dove la prima, "Enlil's Command", è un classico pezzo power, la seconda, "Nintu's Lament", è una power ballad, mentre la terza, "Enki's Grace", va più solenne e magniloquente. Tirando le somme, questo debutto degli Aeon Gods è stato realizzato sicuramente con grande professionalità da musicisti esperti (peraltro, va segnalato l'ottimo lavoro in sede di mixaggio e mastering da parte di Seeb Levermann) ma, come evidenziato, non tutto ci convince e la tracklist alterna buone cose ad altre che sono molto nella media. Al di là della trovata relativa ai costumi, all'aspetto visivo e a tutto quanto sia di contorno, che può più o meno interessare o piacere, a livello musicale ci sono buone premesse, ma qualcosa è ancora da rivedere.
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I Tungsten sono una band fondata dal celebre batterista Anders Johansson (ex Hammerfall, Malmsteen's Rising Force, ecc.), insieme ai figli Karl (basso e tastiere) e Nick (chitarra) e al cantante Mike Andersson (ex Cloudscape). Li avevamo lasciati un paio di anni fa con l'album "Bliss", un disco nel quale ancora la formazione svedese presentava un sound molto eterogeneo, dove si riscontravano molte cose interessanti, ma che ci lasciava l'impressione che la band non avesse ancora trovato la giusta quadra. Dobbiamo arrivare a questo quarto full-length, intitolato "The Grand Inferno", per constatare come, invece, il quartetto svedese abbia finalmente compiuto un effettivo salto di qualità. Innanzitutto, con riguardo al sound, rimangono presenti diversi elementi, ma vengono adesso molto meglio amalgamati in uno stile senz'altro più definito: fondamentalmente possiamo descriverlo come un metal melodico, dove vengono inseriti (in alcuni brani piuttosto che in altri) elementi power, industrial, sonorità elettroniche (meno invasive rispetto al passato), con accenni folk (in misura sensibilmente ridotta rispetto al precedente album), con il ricorso a qualche orchestrazione e a sporadici inserti vocali in growl. In linea di massima, diciamo che c'è un certo equilibrio tra sonorità classiche e altre più moderne, con risultati apprezzabili. Anche a livello di songwriting, la tracklist è davvero ricca di diverse belle canzoni, tra le quali emerge "Lullaby", caratterizzata da un refrain che suona quasi come una nenia malefica, tra ritmiche molto scandite e sonorità moderne. Sono però diversi i brani che meritano di essere menzionati e d'altronde la tracklist parte bene con due pezzi come "Anger" e "Blood Of The Kings", ma non sono da meno la titletrack, "Walborg" o i pezzi finali come "Chaos", la malinconica "Sound Of A Violin" e "Angel Eyes", caratterizzati il più delle volte da refrain accattivanti, cantati a più voci, che suonano un po' come cori da stadio da cantare a squarciagola. Per contro, una traccia come "Vantablack" è alquanto particolare, però è troppo orientata su sonorità elettroniche e ritmiche ossessive e perciò in tutta sincerità non ci ha in realtà entusiasmati. In generale, comunque, ci sono voluti un po' di tentativi (dovuti al fatto che la band è andata forse un po' di corsa, se consideriamo che questo è il quarto album in cinque anni), ma sembra che adesso i Tungsten abbiano trovato la giusta formula per mescolare tutti i diversi ingredienti del proprio sound, unendo la grandissima esperienza e l'importantissimo background di Anders alla maggiore freschezza che possono apportare Karl e Nick, con il contributo di un ottimo cantante come Andersson, per cui "The Grand Inferno" è un album parecchio gradevole, ma riteniamo che adesso, essendo ormai stata tracciata la giusta direzione, il meglio dovrà ancora venire.
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I Seventh Dimension pubblicano il loro quinto full-length, che segue di tre anni il precedente "Black Sky". Il nuovo lavoro risulta strettamente correlato al precedente, tanto che l'ultima traccia s'intitola appunto "Black Sky: Final Frontier". Non si tratta peraltro di un semplice brano, perchè parliamo di una suite lunga oltre venticinque minuti, che conferma l'attitudine fortemente prog metal della band svedese, la quale, come testimonia la propria discografia, si trova decisamente a suo agio con tracce di lunga durata. Si tratta ovviamente di un'opera sontuosa, nella quale i Seventh Dimension riescono a costruire una trama molto complessa, che si articola attraverso vari momenti, tra passaggi più aggressivi ed intermezzi atmosferici, in mezzo ai quali spazia con una certa versatilità la voce del nuovo cantante Markus Tälth, con ampia libertà però di lunghe divagazioni strumentali condotte con maestria dal chitarrista Luca Delle Fave e dal tastierista Erik Bauer. Molto bella pure la traccia iniziale, "The Great Unknown", un brano di circa nove minuti e mezzo, che rappresenta subito un ottimo biglietto da visita di quello che offre la band in questo lavoro. Insomma, sicuramente i Seventh Dimension sono una formazione che si rivolge principalmente agli amanti del prog metal più tecnico e complesso: va anche detto, tuttavia, che l'ispirazione a capisaldi del genere come Dream Theater e Symphony X è fin troppo palese e sono tanti i passaggi che rimandano a brani di queste band. Bisogna anche riconoscere però come il gruppo svedese ogni tanto sappia pure inserire parti più vicine al progressive rock, riuscendo così un po' a spaziare e ad arricchire il proprio sound. In effetti, nonostante i Seventh Dimension siano attivi da quindici anni, non sono riusciti a smarcarsi più di tanto dalle proprie influenze per giungere ad uno stile un po' più personale. Di certo, tuttavia, su questo "Of Hope & Ordeal" c'è davvero tanta carne al fuoco e la band tutto sommato riesce a trovare un buon equilibrio tra potenza, melodia e tecnica, senza troppi eccessi come invece avveniva ad esempio in un disco come "The Corrupted Lullaby", spesso inutilmente prolisso e poco incisivo. Per contro, questo nuovo album non brilla per originalità, però è ben concepito, strutturato ed interpretato, per cui merita senz'altro di essere attenzionato dagli amanti del genere.
Ultimo aggiornamento: 20 Settembre, 2024
Top 10 opinionisti -
I Legions of the Night sono una band tedesca che s'ispira dichiaratamente ai Savatage (a partire già dal loro moniker) e che, dopo il debut album "Sorrow Is the Cure" del 2020 e il suo successore "Hell" del 2022, giunge con questo "Darkness" al suo terzo full-length. Di fronte a queste premesse, è dunque abbastanza inutile stare a discutere quanto la band sia più o meno originale. L'influenza dei Savatage è molto forte, soprattutto del periodo da "Handful of Rain" in poi, con tanti cori maestosi e un approccio un po' più orchestrale. Non mancano però riff potenti e rimandi al primo periodo con Criss Oliva, come nel caso della title-track o di "The Witches Are Burning", giusto per fare qualche esempio. Come da tradizione, poi, viene inserita alla fine della tracklist anche una cover dei Savatage e, in questo caso, la scelta è ricaduta su "Tonight He Grins Again", tratta dal capolavoro "Streets". Ottimo il lavoro del chitarrista Jens Faber, autore anche di tanti notevoli assoli, ma un ulteriore valore aggiunto è rappresentato anche dal fatto di avere un cantante straordinario come Henning Basse, che con la sua voce riesce davvero ad essere istrionico e a spaziare tra i diversi registri richiesti dai brani, talvolta più potenti o grintosi, in altri passaggi più suadenti e melodici oppure caratterizzati da cori e intrecci vocali in perfetto stile Savatage. Le tracce sono peraltro abbastanza ben concepite e strutturate, appunto, come dicevamo, con una certa capacità di inserire vari momenti all'interno dello stesso brano: basti ascoltare ad esempio su "Hate" quanti cambi ci siano tra riff, linee vocali e cori, ma questa è una caratteristica di quasi tutte le canzoni, dove si possono ritrovare tante soluzioni, senza che si possa mai dare nulla per scontato. Più semplice è magari un pezzo come "Let the River Flow", che però è di fatto una ballata pianistica. Insomma, diciamo che si sa che tipo di musica aspettarsi dai Legions of the Night", per cui non si può certo dire che sotto questo profilo la band tedesca deluda le aspettative, anzi, ancora una volta questa ha saputo realizzare un album solido e gradevole. Poi è anche vero che poteva essere legittimo aspettarsi per questo terzo lavoro un ulteriore salto di qualità, nel senso che le influenze potevano essere rielaborate ed assimilate all'interno di uno stile più personale, però da questo punto di vista, in effetti, dobbiamo riconoscere che il gruppo tedesco non sembri essere andato molto oltre le proprie zone di comfort e i propri dichiarati punti di riferimento.
Ultimo aggiornamento: 15 Settembre, 2024
Top 10 opinionisti -
Gli Ivanhoe giungono con "Healed by the Sun" al loro nono studio album, che segue di quattro anni il precedente "Blood and Gold". Il gruppo tedesco si è sempre mosso su sonorità Power/Prog che affondano le proprie radici negli anni '90 e a queste si è mantenute bene o male alquanto fedele, per quanto in questo lavoro la componente Prog sia decisamente meno presente a favore di un Metal melodico che rende i brani alquanto catchy, per quanto ovviamente entro certi limiti: non intendiamo infatti sostenere affatto che adesso suonino Pop, però in qualche modo le composizioni, in generale, risultano un po' meno complesse rispetto al solito. Rimangono comunque, anche se più sporadici, momenti di elevato tasso tecnico, come dimostra, ad esempio, la sezione ritmica di un brano come "Invictus" o l'intermezzo strumentale di "Broken Illusions", senz'altro una delle tracce più interessanti dell'album. Un po' tutta la tracklist, comunque, si assesta su buoni livelli, con brani che affrontano tematiche di vario genere, sia dando uno sguardo a problematiche sociali (COVID, droga, abusi sessuali, ecc.), sia ad aspetti più legati ad esperienze personali, ben interpretati, con buone performance dei musicisti e refrain abbastanza accattivanti. Non ci ha particolarmente convinti solo "Picture in My Mind", una nostalgica ballata pianistica, che in effetti viene inserita solo nella versione CD come bonus track. Un'ulteriore bonus track è invece la traccia conclusiva, "Awaiting Judgement Day", un'autentica chicca, tratta dal loro primo demo "Written in Stone" del 1989, che è stata ri-registrata, ma tra gli accrediti compare ancora anche il loro chitarrista originale Thomas Kovac. Diciamo che una delle critiche che era stata mossa nei confronti di "Blood and Gold" era la breve durata complessiva e, quanto meno, in questo caso, la band ha ovviato aggiungendo appunto un paio di bonus track. Gli Ivanhoe nel corso della loro carriera hanno realizzato tanti buoni album senza tuttavia mai sfondare più di tanto: con "Healed by the Sun" vanno avanti per la loro strada, senza seguire trend o mode del momento, rimanendo fedeli alla loro proposta musicale, ancora una volta con risultati tutto sommato apprezzabili.
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