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Opinione inserita da Virgilio    08 Dicembre, 2024
Ultimo aggiornamento: 08 Dicembre, 2024
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Gli Athena sono una band che aveva pubblicato tre album tra il 1995 e il 2001, per poi sciogliersi poco dopo. Di recente si è riformata con la line-up di quello che è stato il loro disco più apprezzato, "A New Religion?" del 1998 e che vedeva dietro ai microfoni Fabio Lione. Questo nuovo lavoro rappresenta la prima parte di un concept, intitolato "Everflow", il cui primo capitolo è "Frames Of Humanity", prendendo spunto dal nome della prima traccia. A quanto pare, l'idea di concept suddivisi su due album, non certo nuova, sembra però essere stata alquanto sfruttata quest'anno (ad esempio in precedenza sono già usciti quelli di Vision Divine e Stranger Vision): una formula che per la verità non ci entusiasma particolarmente, perchè si tratta di dischi strettamente collegati di cui si ha tuttavia inevitabilmente una visione parziale, almeno finchè viene pubblicata solo la prima parte. Ad ogni modo, questi nuovi Athena, che hanno aggiunto al loro moniker XIX (in quanto riformatisi nel 2019) sono riusciti a realizzare comunque un disco dal sound molto ben definito e abbastanza indipendente anche dal punto di vista concettuale, che funziona molto bene già così, al di là di quello che potrà essere il seguito. Memori dei loro precedenti full-length, ci saremmo aspettati uno stile più tendente al power metal, mentre invece su questo "Frames Of Humanity" c'è un approccio decisamente più prog metal, unito ad un metal melodico e a sonorità molto moderne, che accolgono di tanto in tanto anche elementi elettronici. In realtà le tracce mediamente non sono particolarmente lunghe, anzi presentano un minutaggio abbastanza compatto, però nonostante ciò sono sviluppate in maniera alquanto tecnica, con parti ritmiche davvero complesse e anche qualche sperimentazione, oltre a una struttura non sempre lineare ma che prevede intermezzi atmosferici o cambi tematici. Sicuramente ci possono venire in mente i conterranei Eldritch, ma lo spettro di influenze di questi nuovi Athena XIX è certamente più ampio: già nella titletrack sono evidenti ad esempio i richiami ai Kamelot e, non a caso, lo stesso ex cantante della band americana compare come guest nel brano "I Wish". Il lavoro strumentale è certamente eccellente sia, come dicevamo, per la sezione ritmica, composta da Alessio Sabella al basso e da Matteo Amoroso alla batteria, sia per quanto concerne chitarre e tastiere, rispettivamente curate da Simone Pellegrini e Gabriele Guidi, davvero di altissimo livello. Un ulteriore valore aggiunto è però senza ombra di dubbio rappresentato dal cantato di Fabio Lione, qui probabilmente anche più libero di esprimersi rispetto alle sue band principali, tanto che lo troviamo perfettamente a suo agio tra registri e tonalità molto diverse in quella che, a nostro parere, è una delle performance più belle della sua carriera. Oltre ai brani già menzionati, segnaliamo tra le tante perle della tracklist tracce tecniche come "The Seed" oppure "The Calm Before The Storm", più melodica ma comunque davvero coinvolgente nei ritmi, la nostalgica e cangiante "What You Most Desire" o, ancora la geniale e sorprendente "Synchrolife", ma al di là delle singole citazioni tutto l'album è davvero notevole. Davvero un ritorno sontuoso e in grande stile questo degli Athena XIX, una band senza dubbio molto interessante, che auspichiamo potrà adesso proseguire con una certa continuità.

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Opinione inserita da Virgilio    22 Novembre, 2024
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Gli Aeon Gods sono un nuovo progetto formato da Alex e Anja Hunzinger, a seguito dello scioglimento degli Aeternitas. Rispetto alla precedente band, l'attuale formazione è orientata in maniera più decisa verso un classico power metal teutonico, fortemente influenzato da Helloween, Grave Digger, ecc., rispetto al quale viene data però un'impostazione più "teatrale", dato che il gruppo s'ispira a tematiche riguardanti la mitologia babilonese e i musicisti si presentano tutti con nomi fittizi e con indosso trucchi e costumi. A tal riguardo, va detto però che i testi, relativi a questi miti, tendono ad essere persino un po' didascalici, nel senso che si limitano nella maggior parte dei casi a narrare le vicende e gli scontri tra i vari dei che popolavano l'universo di quest'antico popolo mesopotamico. A livello musicale, il sound è arricchito da orchestrazioni che in effetti non sono mai troppo marcate o invadenti. Lo stile, come dicevamo, è un power metal caratterizzato perlopiù da ritmi veloci e cori (diciamo un po' alla Hammerfall, giusto per rendere l'idea) con la voce che predilige tonalità molto alte ma tutto sommato è in grado di spaziare andando anche su un'impostazione più bassa, facendoci pensare in qualche modo a Chris Boltendahl o a Peavy Wagner. Per quanto poi la struttura dei brani sia abbastanza semplice e lineare, sono apprezzabili gli arrangiamenti, con una certa cura dei particolari sia da parte dei due chitarristi Nino Helfrich (Inner Axis) e Robert Altenbach (Iron Angel), che da parte della stessa Anja. La tracklist presenta dunque brani abbastanza classici per il genere, talvolta con risultati tutto sommato buoni, come nel caso di "Sun-God" e "King Of Gods", mentre in altri casi questi risultano penalizzati dal fatto di non presentare un refrain particolarmente brillante, non eccezionale per le melodie e magari persino un po' sempliciotto nelle liriche, come avviene ad esempio per "The Descent" e "Monsters Of Tiamat". In qualche altro brano, pur senza alcuna eccessiva complessità, la band prova ad inserire qualche soluzione più particolare o degli intermezzi, come nel caso di "Babylon Burning" o della conclusiva "Tablet Of Destinies". Va notato, poi, come un brano, "The Flood", sia suddiviso in tre parti, dove la prima, "Enlil's Command", è un classico pezzo power, la seconda, "Nintu's Lament", è una power ballad, mentre la terza, "Enki's Grace", va più solenne e magniloquente. Tirando le somme, questo debutto degli Aeon Gods è stato realizzato sicuramente con grande professionalità da musicisti esperti (peraltro, va segnalato l'ottimo lavoro in sede di mixaggio e mastering da parte di Seeb Levermann) ma, come evidenziato, non tutto ci convince e la tracklist alterna buone cose ad altre che sono molto nella media. Al di là della trovata relativa ai costumi, all'aspetto visivo e a tutto quanto sia di contorno, che può più o meno interessare o piacere, a livello musicale ci sono buone premesse, ma qualcosa è ancora da rivedere.

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Opinione inserita da Virgilio    17 Novembre, 2024
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I Tungsten sono una band fondata dal celebre batterista Anders Johansson (ex Hammerfall, Malmsteen's Rising Force, ecc.), insieme ai figli Karl (basso e tastiere) e Nick (chitarra) e al cantante Mike Andersson (ex Cloudscape). Li avevamo lasciati un paio di anni fa con l'album "Bliss", un disco nel quale ancora la formazione svedese presentava un sound molto eterogeneo, dove si riscontravano molte cose interessanti, ma che ci lasciava l'impressione che la band non avesse ancora trovato la giusta quadra. Dobbiamo arrivare a questo quarto full-length, intitolato "The Grand Inferno", per constatare come, invece, il quartetto svedese abbia finalmente compiuto un effettivo salto di qualità. Innanzitutto, con riguardo al sound, rimangono presenti diversi elementi, ma vengono adesso molto meglio amalgamati in uno stile senz'altro più definito: fondamentalmente possiamo descriverlo come un metal melodico, dove vengono inseriti (in alcuni brani piuttosto che in altri) elementi power, industrial, sonorità elettroniche (meno invasive rispetto al passato), con accenni folk (in misura sensibilmente ridotta rispetto al precedente album), con il ricorso a qualche orchestrazione e a sporadici inserti vocali in growl. In linea di massima, diciamo che c'è un certo equilibrio tra sonorità classiche e altre più moderne, con risultati apprezzabili. Anche a livello di songwriting, la tracklist è davvero ricca di diverse belle canzoni, tra le quali emerge "Lullaby", caratterizzata da un refrain che suona quasi come una nenia malefica, tra ritmiche molto scandite e sonorità moderne. Sono però diversi i brani che meritano di essere menzionati e d'altronde la tracklist parte bene con due pezzi come "Anger" e "Blood Of The Kings", ma non sono da meno la titletrack, "Walborg" o i pezzi finali come "Chaos", la malinconica "Sound Of A Violin" e "Angel Eyes", caratterizzati il più delle volte da refrain accattivanti, cantati a più voci, che suonano un po' come cori da stadio da cantare a squarciagola. Per contro, una traccia come "Vantablack" è alquanto particolare, però è troppo orientata su sonorità elettroniche e ritmiche ossessive e perciò in tutta sincerità non ci ha in realtà entusiasmati. In generale, comunque, ci sono voluti un po' di tentativi (dovuti al fatto che la band è andata forse un po' di corsa, se consideriamo che questo è il quarto album in cinque anni), ma sembra che adesso i Tungsten abbiano trovato la giusta formula per mescolare tutti i diversi ingredienti del proprio sound, unendo la grandissima esperienza e l'importantissimo background di Anders alla maggiore freschezza che possono apportare Karl e Nick, con il contributo di un ottimo cantante come Andersson, per cui "The Grand Inferno" è un album parecchio gradevole, ma riteniamo che adesso, essendo ormai stata tracciata la giusta direzione, il meglio dovrà ancora venire.

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Opinione inserita da Virgilio    07 Ottobre, 2024
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I Seventh Dimension pubblicano il loro quinto full-length, che segue di tre anni il precedente "Black Sky". Il nuovo lavoro risulta strettamente correlato al precedente, tanto che l'ultima traccia s'intitola appunto "Black Sky: Final Frontier". Non si tratta peraltro di un semplice brano, perchè parliamo di una suite lunga oltre venticinque minuti, che conferma l'attitudine fortemente prog metal della band svedese, la quale, come testimonia la propria discografia, si trova decisamente a suo agio con tracce di lunga durata. Si tratta ovviamente di un'opera sontuosa, nella quale i Seventh Dimension riescono a costruire una trama molto complessa, che si articola attraverso vari momenti, tra passaggi più aggressivi ed intermezzi atmosferici, in mezzo ai quali spazia con una certa versatilità la voce del nuovo cantante Markus Tälth, con ampia libertà però di lunghe divagazioni strumentali condotte con maestria dal chitarrista Luca Delle Fave e dal tastierista Erik Bauer. Molto bella pure la traccia iniziale, "The Great Unknown", un brano di circa nove minuti e mezzo, che rappresenta subito un ottimo biglietto da visita di quello che offre la band in questo lavoro. Insomma, sicuramente i Seventh Dimension sono una formazione che si rivolge principalmente agli amanti del prog metal più tecnico e complesso: va anche detto, tuttavia, che l'ispirazione a capisaldi del genere come Dream Theater e Symphony X è fin troppo palese e sono tanti i passaggi che rimandano a brani di queste band. Bisogna anche riconoscere però come il gruppo svedese ogni tanto sappia pure inserire parti più vicine al progressive rock, riuscendo così un po' a spaziare e ad arricchire il proprio sound. In effetti, nonostante i Seventh Dimension siano attivi da quindici anni, non sono riusciti a smarcarsi più di tanto dalle proprie influenze per giungere ad uno stile un po' più personale. Di certo, tuttavia, su questo "Of Hope & Ordeal" c'è davvero tanta carne al fuoco e la band tutto sommato riesce a trovare un buon equilibrio tra potenza, melodia e tecnica, senza troppi eccessi come invece avveniva ad esempio in un disco come "The Corrupted Lullaby", spesso inutilmente prolisso e poco incisivo. Per contro, questo nuovo album non brilla per originalità, però è ben concepito, strutturato ed interpretato, per cui merita senz'altro di essere attenzionato dagli amanti del genere.

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Opinione inserita da Virgilio    20 Settembre, 2024
Ultimo aggiornamento: 20 Settembre, 2024
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I Legions of the Night sono una band tedesca che s'ispira dichiaratamente ai Savatage (a partire già dal loro moniker) e che, dopo il debut album "Sorrow Is the Cure" del 2020 e il suo successore "Hell" del 2022, giunge con questo "Darkness" al suo terzo full-length. Di fronte a queste premesse, è dunque abbastanza inutile stare a discutere quanto la band sia più o meno originale. L'influenza dei Savatage è molto forte, soprattutto del periodo da "Handful of Rain" in poi, con tanti cori maestosi e un approccio un po' più orchestrale. Non mancano però riff potenti e rimandi al primo periodo con Criss Oliva, come nel caso della title-track o di "The Witches Are Burning", giusto per fare qualche esempio. Come da tradizione, poi, viene inserita alla fine della tracklist anche una cover dei Savatage e, in questo caso, la scelta è ricaduta su "Tonight He Grins Again", tratta dal capolavoro "Streets". Ottimo il lavoro del chitarrista Jens Faber, autore anche di tanti notevoli assoli, ma un ulteriore valore aggiunto è rappresentato anche dal fatto di avere un cantante straordinario come Henning Basse, che con la sua voce riesce davvero ad essere istrionico e a spaziare tra i diversi registri richiesti dai brani, talvolta più potenti o grintosi, in altri passaggi più suadenti e melodici oppure caratterizzati da cori e intrecci vocali in perfetto stile Savatage. Le tracce sono peraltro abbastanza ben concepite e strutturate, appunto, come dicevamo, con una certa capacità di inserire vari momenti all'interno dello stesso brano: basti ascoltare ad esempio su "Hate" quanti cambi ci siano tra riff, linee vocali e cori, ma questa è una caratteristica di quasi tutte le canzoni, dove si possono ritrovare tante soluzioni, senza che si possa mai dare nulla per scontato. Più semplice è magari un pezzo come "Let the River Flow", che però è di fatto una ballata pianistica. Insomma, diciamo che si sa che tipo di musica aspettarsi dai Legions of the Night", per cui non si può certo dire che sotto questo profilo la band tedesca deluda le aspettative, anzi, ancora una volta questa ha saputo realizzare un album solido e gradevole. Poi è anche vero che poteva essere legittimo aspettarsi per questo terzo lavoro un ulteriore salto di qualità, nel senso che le influenze potevano essere rielaborate ed assimilate all'interno di uno stile più personale, però da questo punto di vista, in effetti, dobbiamo riconoscere che il gruppo tedesco non sembri essere andato molto oltre le proprie zone di comfort e i propri dichiarati punti di riferimento.

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Opinione inserita da Virgilio    14 Settembre, 2024
Ultimo aggiornamento: 15 Settembre, 2024
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Gli Ivanhoe giungono con "Healed by the Sun" al loro nono studio album, che segue di quattro anni il precedente "Blood and Gold". Il gruppo tedesco si è sempre mosso su sonorità Power/Prog che affondano le proprie radici negli anni '90 e a queste si è mantenute bene o male alquanto fedele, per quanto in questo lavoro la componente Prog sia decisamente meno presente a favore di un Metal melodico che rende i brani alquanto catchy, per quanto ovviamente entro certi limiti: non intendiamo infatti sostenere affatto che adesso suonino Pop, però in qualche modo le composizioni, in generale, risultano un po' meno complesse rispetto al solito. Rimangono comunque, anche se più sporadici, momenti di elevato tasso tecnico, come dimostra, ad esempio, la sezione ritmica di un brano come "Invictus" o l'intermezzo strumentale di "Broken Illusions", senz'altro una delle tracce più interessanti dell'album. Un po' tutta la tracklist, comunque, si assesta su buoni livelli, con brani che affrontano tematiche di vario genere, sia dando uno sguardo a problematiche sociali (COVID, droga, abusi sessuali, ecc.), sia ad aspetti più legati ad esperienze personali, ben interpretati, con buone performance dei musicisti e refrain abbastanza accattivanti. Non ci ha particolarmente convinti solo "Picture in My Mind", una nostalgica ballata pianistica, che in effetti viene inserita solo nella versione CD come bonus track. Un'ulteriore bonus track è invece la traccia conclusiva, "Awaiting Judgement Day", un'autentica chicca, tratta dal loro primo demo "Written in Stone" del 1989, che è stata ri-registrata, ma tra gli accrediti compare ancora anche il loro chitarrista originale Thomas Kovac. Diciamo che una delle critiche che era stata mossa nei confronti di "Blood and Gold" era la breve durata complessiva e, quanto meno, in questo caso, la band ha ovviato aggiungendo appunto un paio di bonus track. Gli Ivanhoe nel corso della loro carriera hanno realizzato tanti buoni album senza tuttavia mai sfondare più di tanto: con "Healed by the Sun" vanno avanti per la loro strada, senza seguire trend o mode del momento, rimanendo fedeli alla loro proposta musicale, ancora una volta con risultati tutto sommato apprezzabili.

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Opinione inserita da Virgilio    07 Settembre, 2024
Ultimo aggiornamento: 07 Settembre, 2024
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I Dvne avevano pubblicato un album molto bello nel 2021, "Etemen Ænka": quando si raggiunge un tale livello, diventa spesso davvero molto arduo concepire un successore in grado di eguagliarlo. La band ci prova con questo "Voidkind", un lavoro per il quale gli scozzesi cercano di collocarsi in qualche modo sulla scia del predecessore. L'album dunque non offre grandi novità e si mantiene grosso modo sulle stesse coordinate stilistiche, tra Post-Metal e Sludge, effetti sonori e tappeti di tastiere, passaggi oscuri e pesanti, carichi di groove, alternati ad altri più soffusi, con un continuo alternarsi di extreme e clean vocals. Le tracce sono mediamente tutte piuttosto lunghe, ma spesso più che vere e proprie progressioni ritroviamo intermezzi atmosferici o divagazioni strumentali costruite attorno a riff di chitarra, per cui, in sostanza, dunque, tendenzialmente "Voidkind" ci sembra un po' meno Prog rispetto al disco precedente. In linea di massima, non sempre il songwriting raggiunge la brillantezza di "Etemen Ænka": ci sono spunti interessanti e arrangiamenti notevoli, ma alcune tracce sembrano procedere in maniera un po' scontata, con soluzioni che tendono un po' a ripetersi. Questo non significa però che non siano presenti nel disco tracce davvero notevoli, come "Eleonora", innanzitutto, o ancora, ad esempio, "Reaching for Telos" e "Plērōma". Particolare, poi, il fatto che "Sarmatæ" sia per così dire "incorniciata" tra due tracce (una sorta di intro e di outro), intitolate rispettivamente "Path of Dust" e "Path of Ether". Diciamo che "Voidkind" è senz'altro un buon disco, intriso di tutte le migliori caratteristiche dei Dvne, una band che nelle proprie composizioni sa costruire trame complesse ed emozionare, come conferma questo nuovo lavoro. Va anche detto, tuttavia che, considerando le caratteristiche e le qualità della band, ci saremmo aspettati qualche sviluppo, anche minimo, rispetto a "Etemen Ænka", mentre invece, in "Voidkind", la formazione scozzese, pur mantenendosi su ottimi livelli, sembra tendere un po' a ripetersi: siamo comunque convinti che i Dvne sapranno stupirci ancora, purché non si fermino troppo a guardare il passato.

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Opinione inserita da Virgilio    05 Settembre, 2024
Ultimo aggiornamento: 06 Settembre, 2024
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I Vicinity sono una band formatasi nel 2006 che con "VIII", diversamente da quanto potrebbe far supporre il titolo, giungono al loro terzo full-length, pubblicato a ben sette anni di distanza dal precedente "Recurrence". In effetti, le lavorazioni del nuovo album erano cominciate alcuni anni prima ma, un po' per la pandemia, un po' per il fatto di aver dovuto cambiare cantante, le tempistiche si sono allungate più del previsto. Il gruppo norvegese suona un Progressive Metal pesantemente influenzato soprattutto da Dream Theater, Threshold e Circus Maximus, ma anche da altre formazioni come Seventh Wonder, Vanden Plas o Haken. Da questo punto di vista non si riscontra grande originalità nel loro stile, però la band è senz'altro abile nel realizzare delle tracce di una certa caratura, tra tempi complessi, trame strumentali ad elevato tasso tecnico e linee melodiche accattivanti. La traccia di apertura, "Promised Paradise", nei suoi quasi dodici minuti di durata è davvero un gioiellino che si mette in evidenza per una serie di cambi tematici ed efficaci progressioni. Non sono da meno neanche le successive "Distance", che si contraddistingue anche per un bellissimo intermezzo strumentale, "Purpose", che va un po' in crescendo, con una sezione ritmica e una gestione dei tempi davvero notevole, e "Confusion Reactor". Diciamo che, per il resto, l'album si mantiene su buoni livelli ma non offre molti altri spunti di grande interesse. "The Singularity" è ancora un buon pezzo, con diverse variazioni e anche un assolo di basso, però in diversi passaggi sa un po' di già sentito, così come la strumentale "DKE", mentre "Shape Of Life" è un brano più melodico, tutto sommato gradevole, ma che non ci ha tuttavia particolarmente colpiti. La conclusiva "Face The Rain" è un'altra traccia di ampio respiro, che però nel complesso, a nostro parere, non risulta brillante e coinvolgente per tutta la sua durata alla stessa maniera di "Promised Paradise". In conclusione, i Vicinity si confermano un gruppo davvero di alto livello, in grado di concepire brani complessi, interpretati magnificamente, con grandi qualità tecniche ed espressive. Magari un po' di originalità in più consentirebbe loro di spiccare maggiormente, ma riteniamo che, soprattutto per chi ama il progressive metal, rappresentino senz'altro una band da seguire con grande attenzione ed interesse.

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Opinione inserita da Virgilio    20 Luglio, 2024
Ultimo aggiornamento: 21 Luglio, 2024
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L'ultimo album degli Halcyon Way, "Bloody but Unbowed", risale al 2018, ma la band statunitense conta di pubblicare un nuovo full-length entro quest'anno. Nel frattempo, viene fatto uscire questo EP, composto da appena tre brani, per una durata di dodici minuti scarsi. Per giunta, la title-track è una cover di una canzone Pop di Miley Cyrus, che gli Halcyon Way adattano ovviamente alla loro maniera, quindi i brani originali sono appena due. "Insufferable" è un pezzo veloce, con qualche spunto Metalcore, che francamente non lascia ben sperare se dovesse essere questa la direzione intrapresa dalla band per il nuovo album. Non c'è traccia dei trascorsi Progressive Metal degli Halcyon Way, neppure in "Stand for Something", probabilmente il miglior pezzo tra i tre, dotato di un refrain abbastanza melodico. Insomma, un dischetto che va preso per quello che è, ovvero un'occasione di divertimento per la band, che tenta comunque di riscaldare il pubblico in attesa del nuovo album. Al di là di questo, la release poteva comunque essere resa più interessante con l'aggiunta di qualcos'altro, così è davvero troppo poco.

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Opinione inserita da Virgilio    05 Mag, 2024
Ultimo aggiornamento: 06 Mag, 2024
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I Cyrax sono una band che si è sempre contraddistinta per una continua ricerca di sperimentare, di creare musica che fosse originale, difficile da catalogare e al di fuori dagli schemi, della quale abbiamo sempre apprezzato la capacità di far convivere e mescolare generi diversi. Il loro precedente full-length, "Experiences", portava ai massimi livelli queste caratteristiche, seguito da un EP, "Metamorphosis", nel quale venivano rivisitati alcuni brani tratti dai loro precedenti album. Questo nuovo lavoro, intitolato "Novo Deus", è il loro quarto full-length, ma dobbiamo dire che, in questo caso, la loro voglia di sperimentare non ci ha effettivamente convinti. Diciamo che, in generale, per quanto in passato abbiano mescolato generi, partivano comunque pur sempre da una base Progressive Metal. In "Novo Deus", invece, il punto di partenza sembra capovolgersi: nel disco, infatti, sono state incluse quattordici tracce, ma ogni brano è in sostanza un'entità a sé stante, perché non solo sono state utilizzate una babele di lingue diverse (ben diciassette, se non andiamo errati), ma ogni brano è completamente diverso anche in quanto a stile o a genere. Abbiamo così, ad esempio, "Nesnesitelnà Lehkost Bytì" che è ispirato alla musica tradizionale russa, "Yuéliàng" a quella cinese, la title-track brasiliana e "Cuervos Nocturnos" a quella messicana. Oppure, ancora, "Tatsuta-Gawa" è un pezzo giapponese con flauti alla Jethro Tull, "Twelve Valiant Saints" è un brano Country, "Pictures Pt. II" una strumentale sinfonica e "L'Avare" sembra una traccia di disco francese anni '80. Con questa impostazione, si parte dalla musica etnica o da un determinato genere per provare ad inserire passaggi o accenni Metal, che a volte sono ben amalgamati, in altri casi sembrano invece entrarci come il cavolo a merenda. Al di là comunque della componente Metal, "Novo Deus" può essere considerato sperimentale fino ad un certo punto, perché invece risulta essere un calderone dove vengono messe insieme sonorità tra loro distanti. Siamo dell'idea che la musica sia universale, però ogni popolo e ogni epoca hanno sperimentato nel corso dei secoli una loro tradizione che fosse espressione della propria cultura. Ci sfugge quale possa essere il senso di portare all'estremo questo concetto accostando culture diverse senza che queste vengano rielaborate in uno stile proprio. Così "Novo Deus" più che un album sembra una sorta di ricerca antropologica, a meno che l'intenzione della band non fosse semplicemente quella di fare sfoggio della propria capacità di suonare qualsiasi genere. Non mettiamo in dubbio questo, ma a nostro avviso il lavoro così non funziona come album. Magari potremmo considerare abbastanza riuscito un brano come la traccia di apertura, "Hewa Kunikosa", dove effettivamente si spazia molto bene tra passaggi arabeggianti, musiche tribali africane, Metal, Reggae e tanto altro, ma nella grande maggioranza degli altri brani non si riscontra un'analoga capacità di far convivere i diversi stili. Purtroppo, siamo dunque costretti stavolta a considerare quest'album un lavoro troppo caotico, un esperimento riuscito male.

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