Opinione scritta da Leonardo Bacchiocchi
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Ultimo aggiornamento: 11 Marzo, 2016
Top 50 Opinionisti -
Gli Showdown Boulevard sono un trio glam/sleazie di Milano, attivo dal 2012. Questo "Face The Challenge" risulta essere originariamente pubblicato nel 2013, per poi essere ristampato nel 2015 dalla BB Hells Records dopo l'accordo della band con la suddetta etichetta che getterà le basi per la pubblicazione di un terzo album. Questo "power trio" milanese non è un power trio nel senso classico: manca infatti un batterista, cosa che, purtroppo, non ha avuto buone conseguenze sulla riuscita del CD. Alcuni brani, infatti, avrebbero potuto alzare nettamente il tiro con un vero batterista seduto dietro le pelli... c'è da dire però che, nel complesso, il disco non è affatto male. Le classiche influenze di Skid Row e Motley Crue vengono combinate con elementi electro-industrial che danno al songwriting dei tre musicisti una personalità ormai rara da sentire in questo genere. "Voices", il cui punto di forza sta nella sua atmosfera surreale, "I Hope", song dal riffing massiccio che invoglia l'ascoltatore a fare headbang, e la conclusiva (se si esclude la bonus track) "Wake Up", vero e proprio inno da stadio dotato di un coro irresistibile, rappresentano i momenti migliori di un CD la cui unica vera pecca è la produzione (poco curate le parti vocali in alcuni punti, oltre alla predetta e pesante assenza di un batterista). Ora ci si aspetta che, freschi di un contratto discografico, gli Showdown Boulevard sfornino un terzo prodotto più curato, che possa davvero valorizzare le loro già buone capacità compositive...
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Titolo dalla divampante chiarezza, copertina che ricorda quelle tipiche dei live album con tanto di chitarre a V alzate al cielo, hard rock massiccio con venature alternative e birra a fiumi: direttamente dalla Svezia ecco a voi i Mustasch. Ottimo inizio con "Yara's Song" che stupisce con la presenza di strumenti classici (archi principalmente), un arricchimento difficile da prevedere guardando la copertina del CD. "Breaking Up with Disaster" ci riporta alla vera essenza della band, brano pesante e roccioso, ma anche prevedibile e, a giudizio di chi scrive, poco maturo. "The Rider" si piazza sulle stesse coordinate pur risultando migliore nel complesso. La fulminante "Down to Earth" risulta essere un altro brano riuscito, pur non aggiungendo nulla di nuovo. Con "The Hunter" si raggiunge un altro dei picchi qualitativi della tracklist, ottimo mid-tempo e grande prova di tutti i musicisti, ma è da "Dreamers" in poi che il prodotto comincia a soccombere e a non riprendersi più... Tentare un cambio d'atmosfera con "Someone" serve a ben poco: la noia comincia a farsi sentire e sono molto invogliato a skippare quasi ogni traccia sperando che la successiva possa offrire di più. Dopo l'ascolto della conclusiva e anonima title-track, l'unico mio pensiero è "oh è finito, adesso riparte dall'inizio e ci sono i pezzi belli". In poche parole, c'è personalità nell'immagine, ma non nel sound. Siamo davanti ad un album riuscito a metà, privo di quella scintilla che può davvero invogliare qualcuno a seguire una band, nonostante essa sia parte di un mercato al giorno d'oggi sempre più saturo.
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Ormai da 5 anni una delle figure più importanti di questo genere musicale ci ha lasciati. Quando ci penso non mi sembra vero, non mi sembra vero perché il segno che ha lasciato questa persona, questo "piccolo grande uomo", è talmente indelebile che non mi sembra affatto che se ne sia andato. Ancora i fan alzano le corna al cielo al suono della sua voce immortale. Già solo leggendo la tracklist mi viene da pensare che questo doppio album sia davvero ottimo come tributo. Questo perché vedo incluse varie songs molto meno conosciute oltre alle solite "Holy Diver", "Neon Knights", "Kill The King" ecc. La cosa mi fa piacere perché questo rende l'album un mezzo efficace per approfondire la discografia di un musicista che davvero merita di essere conosciuto appieno. Ho trovato la scelta di mettere come opener "Sacred Heart" dei Crystal Ball davvero azzeccata: non solo adoro questo brano, ma è anche obiettivamente una delle cover meglio interpretate dell'intero lavoro. Ho trovato davvero difficile individuare delle "cover preferite" a causa del livello qualitativo generale davvero alto. Potrei dire che quelle che ho trovato più sorprendenti sono sicuramente quelle suonate da Rebellion e Burden Of Grief per il loro tocco più estremo, "Metal Will Never Die" dei Gloryful (inaspettatamente magnifica), "The Sign of the Southern Cross" (anche questa dei Crystal Ball) per la scelta vincente di inserire il piano nell'intro e "Kill The King" dei MessengeR per la coinvolgente impronta power data ad un brano che davvero si presta molto a questo genere. Che aggiungere ancora? Un tributo più che degno per una delle più grandi voci che la musica abbia mai conosciuto.
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Poco tempo fa era stato annunciato il definitivo scioglimento della epic death metal band londinese Phyrexia, la quale aveva rilasciato l'eccellente full-lenght "Death On Red Wings" nel 2012 e il meno spettacolare, ma comunque buono EP "Where the Gods Go to Die" nel 2013. I due chitarristi fondatori, Daniel Saunders e Paul Nazarkardeh, non hanno però perso tempo e hanno subito lanciato il loro nuovo progetto con questo mini d'esordio, includendo nella nuova formazione membri di band già affermate nella scena extreme inglese come De Prufundis, Premature Birth e Maxdmyz. Già dalle prime note della title-track iniziale ci appare evidente che la band suona un symphonic death metal molto canonico, il brano (molto immediato e godibile) sembra infatti essere uscito da Enthrone Darkness Triumphant. Un po meno d'effetto è la successiva "Under Darkness" che predilige un approccio più puramente black metal vecchia scuola e nella quale domina il blast beat. Terza e ultima traccia di questo "assaggino" è una cover degli Emperor, band alla quale i Formicarius palesemente si ispirano. Ben suonata, anche se (per ovvie ragioni) meno interessante dei due inediti. Per concludere, i Formicarius suonano un buon symphonic black metal, ma per ora nulla di più. Scopriremo poi come si evolverà il loro sound in attesa del full-lenght.
Ultimo aggiornamento: 10 Luglio, 2015
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E con questo sono quattro album rilasciati e dieci anni di carriera per i romani Graal, band che propone un "progressive hard'n'heavy" prendendo spunto a piene mani da gruppi che hanno fatto la storia come Deep Purple, Rainbow, Uriah Heep, Yes, Black Sabbath e Blue Oyster Cult. Questo "anniversario" sancisce anche la nascita di quello che probabilmente è il lavoro più completo della band da un punto di vista stilistico: si passa da brani più diretti che talvolta strizzano l'occhio alla NWOBHM come "Pick Up All The Faults", "Revenge" e "Lesser Man" ad altri in cui la band sfoga tutta la sua creatività più progressiva, un esempio perfetto sono le songs strumentali presenti nell'album, nelle quali si può sentire anche l'eco di Genesis e King Crimson. Non dimentichiamo di menzionare "Shadowplay", che in sede live può essere la "The Mule" dei Graal (tanto per citare nuovamente i Purple) in quanto eccellente veicolo per improvvisazioni e soli di batteria, e "Guardian Devil", forse il brano più "fuori dal coro" dell'intera tracklist, una song dall'atmosfera davvero particolare. Punti deboli? Nessuno, se non la scelta (a mio avviso non azzeccata) di mettere come opener "Little Song", un lento che dopo qualche ascolto risulta davvero insignificante in confronto alle altre composizioni. Anche decidere di chiudere l'album con ben due strumentali non è proprio il massimo, visto e considerato poi che "Northern Cliff" è una traccia particolarmente difficile da assimilare. Secondo chi scrive, "Goodbye" sarebbe stata invece la chiusura perfetta col suo magnifico crescendo. Si tratta comunque di piccoli accorgimenti che in ogni caso non possono danneggiare più di tanto la riuscita di un album davvero ottimo di cui il metallo italiano può essere orgoglioso.
Ultimo aggiornamento: 03 Mag, 2015
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Quella che mi accingo a recensire è sicuramente una delle band più singolari dell'attuale panorama metal mondiale. Nati a Miami nel 2005, i Torche vengono inizialmente catalogati come band "stoner metal". L'evoluzione del loro sound li ha poi condotti verso sentieri quasi inesplorati, verso quello che la band e i fans chiamano "sludge metal". Distorsioni al limite dell'ascoltabile, volumi megalitici, riff pesanti e ossessivi: queste le caratteristiche che hanno sempre permesso ai quattro di distinguersi, almeno fino all'ultimo album, "Harmonicraft", che accostava le sonorità citate prima ad altre vicinissime a sfiorare il pop rock. Dopo una release che ha spaccato in due fans e critica da una parte e ha reso i Torche molto più accessibili e conosciuti dall'altra, arriva questo quarto album "Restarter". Come indica già il titolo, questo nuovo lavoro è un netto ritorno alle sonorità del passato. Tracce da segnalare sono sicuramente "Minions" (eredità del disco precedente, uno dei brani più accessibili e "commerciali" del lotto), Blasted (che fa l'occhiolino al punk più aggressivo), "Believe It" (un estremizzazione dei primi Black Sabbath riuscita ottimamente) e la conclusiva title-track (psichedelica e ossessiva come poche). Bisogna anche sottolineare che, pur contenendo pochi episodi salienti, l'intera tracklist si mantiene comunque su livelli qualitativi medio-alti. Per concludere, i Torche hanno un po' soppresso (anche se non del tutto) il loro lato più "easy-listening", per "ripartire" con le sonorità ipergranitiche degli esordi. Da tenere in considerazione, se siete amanti del genere.
Ultimo aggiornamento: 01 Aprile, 2015
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I finlandesi Santa Cruz pubblicano quest'album omonimo a due anni di distanza dall'esordio discografico "Screaming For Adrenaline", il quale aveva già a suo tempo attirato l'attenzione di molti fan del genere. In questo nuovo lavoro, le forti influenze di Mötley Crüe, Skid Row e Poison che avevano caratterizzato il debutto lasciano spazio ad un songwriting più personale ed elaborato, evidente segno di crescita della band. Una nota di merito va sicuramente anche alla copertina, che ho trovato davvero semplice, enigmatica ed efficace. Ma ora parliamo della musica: dall'opener "Bonafide Heroes" alla quarta traccia, ovvero "6(66) Feet Under", troviamo una serie di potenziali hit pronte ad "intasare" la nostra testa di ritornelli orecchiabili. "Bye Bye Babylon", con il suo incidere "Led Zeppeliano", risulta essere uno dei brani più efficaci ed elaborati della tracklist. L'ascolto si conclude con "Can You Feel The Rain", ottima ed intensa ballad che "calma le acque" dopo un disco di frenetico rock 'n' roll. Che dire quindi? Se siete appassionati del genere non fatevi sfuggire questo disco. Per i ragazzi di Helsinki la strada è ancora lunga... speriamo quindi che la loro crescita artistica non si fermi qui.
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Ottavo album per i Papa Roach, band ormai affermata della scena alternative metal statunitense. Ancora una volta, i quattro musicisti di Vacaville scelgono di andare sul sicuro proponendo un album il cui sound è praticamente un ritorno al ritorno alle origini. Sì, perché già col precedente "The Connection" la band aveva riproposto quella che, sostanzialmente, è la loro formula originaria, ciò che ha permesso loro di emergere nel lontano 1997. Dopo anche un solo ascolto e già dalle prime 2-3 tracce, appare evidente che questo non è altro che la diretta prosecuzione dell'ultimo album. Con questo non intendo negare che non ci sia il songwriting : preso singolarmente, quest'ultimo lavoro risulta piacevole e molto "catchy" con la sua forte impronta radiofonica. Tuttavia, paragonando questo a "The Connection" e agli esordi non ci si può non rendere conto di come la band sia in una fase di "stallo compositivo" (forse voluta) che sarà gradita ai fan più irriducibili e farà storcere un po il naso a tutti gli altri. E introdurre degli special guest in "Gravity" e "Warriors" non è abbastanza per dare a questo full-lenght un tocco d'originalità che possa renderlo distinto nella discografia dei nostri...
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Risale al 2008 la data di fondazione dei Winterage, band symphonic power metal di Genova nata da un idea del violinista Gabriele Boschi e del tastierista Dario Gisotti. Dopo qualche anno passato a suonare musica strumentale e la conseguente uscita di un EP, i Winterage reclutano nel 2012 il cantante Daniele Barbarossa, la cui estensione vocale non sembra aver nulla da invidiare a quella dei ben più noti Andre Matos, Michael Kiske, Tony Martin e Alessandro Conti (per citarne solo alcuni). Ed eccoci nel 2015 a recensire "The Harmonic Passage", un debut album incredibilmente ambizioso, complesso e curato, registrato con il supporto di una vera orchestra. Come avrete già vagamente intuito, l'influenza dei nostrani Rhapsody è molto presente nel sound dei Winterage e la title-track (preceduta dalla classica intro, ormai una tradizione nei dischi di questo genere) ne è la conferma. Occorre comunque specificare che, pur assomigliando non poco alla storica band triestina, la band riesce a proporre una musica tutt'altro che banale (merito del violino, soprattutto nella sua veste solista). La tracklist scorre via veloce mantenendosi su un livello di qualità eccelso, difficile dire quali siano i brani migliori... personalmente, ho apprezzato molto la teatrale "Son Of Winter" (splendida voce femminile), la più aggressiva "Panserbjørne" (molto in stile "Reign Of Terror") e la conclusiva, epica suite "Awakening" (che sfiora i 9 minuti). Da fan di band come Rhapsody, Blind Guardian e Pathfinder, devo dire che questo full-lenght è veramente magistrale. L'unica "critica" (non necessariamente negativa) che mi sento di fare alla band riguarda la voce che, a volte, sembra ricalcare troppo quella del Fabio Lione dei primi album. Disco da avere assolutamente se siete fan del genere!
Ultimo aggiornamento: 28 Gennaio, 2015
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"Dust Metal": così ai francesi (di Parigi, per essere più specifici) One Last Shot piace definirsi. In effetti, il loro è un tipo di sound un po' fuori dal comune, un minestrone (a volte caotico) che non capita tutti i giorni all'ascoltatore medio e che comprende molti generi ed influenze musicali: dal punk al metal, dal southern al grunge. L'EP "First Gear" comincia molto bene con l'opener "Brawler", brano dotato di un intro molto southern dal groove massiccio che va a sfociare in un "punk'n'roll" davvero azzeccato. Tuttavia, già col secondo brano "Skateboard Song" si cominciano a notare alcune incongruenze nel sound, testimonianza di un songwriting non ancora maturato del tutto. Il refrain molto "catchy" riesce in parte a salvare questa song. In "G.A.S." la band si avvicina ai Motorhead: questa composizione sembra, infatti, emulare (in chiave più moderna ovviamente) il songwriting tipico di Lemmy & co. con risultati discretamente buoni. "Headbangers" si dimostra un altro episodio piacevole, pur non gridando al miracolo. Con "Prophesick" i ragazzi tentano di proporre qualcosa di più elaborato riuscendoci in parte: le numerose parti strumentali (tutte di alto livello) spesso e volentieri stonano tra di loro in un brano che forse sarebbe dovuto essere più lungo per risultare più godibile. Per concludere, le possibilità ci sono. Spero di ascoltare un full-lenght d'esordio che sia la testimonianza di un avvenuta maturazione. In ogni caso, EP molto interessante ed originale, nel bene e nel male.
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