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Opinione scritta da Davide Pappalardo

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Opinione inserita da Davide Pappalardo    15 Aprile, 2018
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I Lectern sono una band romana attiva già da molti anni, dedita ad un death metal robusto di stampo vecchia scuola, giocato su linee di chitarre a motosega, voce gutturale, e batteria pestata. I Nostri (Fabio Bava: voce/basso, membro anche della band Perfidy Biblica, Pietro Sabato e Gabriele Cruz: chitarre, Marco Valentine: batteria) hanno pubblicato tre EP tra il 1999 e il 2014, ovvero "Bisbetical", "Salvific Of Perhaps Lambent" e "Lectern", e due album tra il 2015 e il 2016 ("Fratricidal Concelebration" e "Precept Of Delator"), mostrando il loro suono senza compromessi e di buona fattura., il quale presenta cambi di tempo e strutture articolate, pur senza lasciarsi andare a tecnicismi fini a loro stessi.

Ora tornano con il loro terzo full length, ovvero "Deheadment For Betrayal", dove proseguono la loro strada utilizzando sia elementi cari alla scuola americana ( e con un evidente influenza da parte dei Deicide), sia alla prima corrente svedese, tra pennate alternate, slam riff, e costruzioni sonore dove pause caustiche e cavalcate improvvise guidano l'ascoltatore in percorsi infernali. Il lavoro si apre con la title track, ovvero una vera e propria carneficina fatta di doppia cassa e mitragliate in loop, ma anche di sessioni rocciose unite a vocals gutturali e giochi tecnici con melodie atonali; le cose vengono quindi messe in chiaro grazie ad un suono greve ed esaltante, che non esclude corazzate thrash e assoli vorticanti. "Daedal Of Thy Wrath Unchrist Altar" si apre con una intro oscura e sacrale, che richiama una cerimonia demoniaca, salvo poi lasciarsi andare a colpi duri e veloci di batteria coadiuvati da chitarre segaossa e attacchi sonori old school. Il gusto della band per i tempi non regolari e per i cambi di registro improvvisi, coì come per momenti "classici" con fraseggi severi e ritmica ossessiva, non svanisce, e ritroviamo anche assoli dissonanti e corrosivi. "Perturb In Lamb Thronal" ricorda molto gli ultimi Bloodbath grazie alla sua vena greve unita a loop di chitarre e ritmiche decise, e anche qui la doppia cassa e gli interventi di corse rocciose, annunciate da fraesggi notturni, non mancano, così come dei pasaggi di chitarra evocativi e ben calibrati. La finale "Pamplet Spawn At Gelid Crypt Satan" chiude l'opera con una intro atmosferica, quasi dark ambient, presto violata da fraseggi dilatati, assoli squillanti, e rullanti battaglieri di chitarra; il suo movimento lento e mortifero ci rimanda al death dai connotati più doom e scabrosi, regalando un'atmosfera mortifera. Ma ancora una volta le cose non sono così semplice, ed ecco che una melodia vorticante introduce un galoppo sottolineato da passaggi tecnici di chitarra. Il gran finale vede anche un assolo spettrale, variegato e sviluppato in scale da tregenda, scolpite da cimbali e piatti, ma all'improvviso è la natura evocativa dai toni ambient a riprendere il sopravvento, mettendo fine al nostro viaggio nell'incubo.

Un disco che non rivoluzione il genere, e nemmeno vuole farlo, ma che riesce a donare ai fan del death metal senza fronzoli, ma allo stesso tempo curato dal punto di vista del songwriting, un episodio che richiama tutti quegli elementi capaci di esaltare i fan del genere. Insomma, ennesima realtà italiana devota alle radici del genere, ma anche attenta alla sua evoluzione, da tenere d'occhio per un sano death metal fatto per far muovere le teste.

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Opinione inserita da Davide Pappalardo    18 Marzo, 2018
Ultimo aggiornamento: 19 Marzo, 2018
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I greci Chaostar nascono come progetto di Christos Antoniou, chitarrista della band di death metal sinfonico Septicflesh. Non bisogna comunque considerarli un mero sideproject, in quanto qui il Nostro ha modo di sviluppare al massimo la sua preparazione accademica conseguita grazie ai suoi studi di musica classica tenutisi a Londra, dove si è laureato con lode. Per dare ancora più effetto ai suoi arrangiamenti e composizioni, la cantante Natalie Rassoulis si è unita con la sua voce soave, e una serie di dischi sono sttai prodotti nel primo decennio degli anni duemila.

Il progetto è poi tornato con una uova formazione ed un quarto album intitolato “Anonima”, caratterizzato dall'unione di elementi classici ed elementi musicali moderni, anche nella produzione. Il nuovo disco “The Undivided Light” prosegue su questa strada, de-costruendo molti elementi della musica rock ed elettronica in modo tale da integrarli nel background orchestrale della band.

“Tazama Jua" apre il nostro viaggio con la voce potente ed evocativa di Androniki Skoula, nuova cantante, presto raggiunta da chitarre impetuose e stringhe elettroniche, dandoci una cavalcata epocale e sentita, mentre "Blutband" gioca con arpeggi delicati e note evocative, sorreggendo la voce sospirata della Nostra.

La title track gioca con tensioni sonore ben più oscure, aggiungendo su una base greve e pulsante, dal gusto trip-hop, le linee vocali operistiche della cantante, esplodendo poi in archi trascinanti, dal passo felpato, ma dall'atmosfera magistrale, pronta ad aprirsi in momenti da colonna sonora ben più concitati. “Silent Yard” unisce un ambient etnico con gli elementi orchestrali della band, tra archi appassionanti e passaggi soavi, evolvendo poi con note di pianoforte ben più sinistre, regalandoci una trama quasi dark ambient.

In definitiva un'opera ben congegnata e realizzata, capace di creare una commistione di generi totalmente coerente, laddove in altri casi lo stesso esperimento ha portato, in mani meno abili, a prodotti confusionari; questo grazie ad una conoscenza profonda della materia musicale, supportata da un songwriting eccellente e dal forte impatto narrativo. Consigliato.

Voto: 8

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Opinione inserita da Davide Pappalardo    07 Dicembre, 2017
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Torna la band industrial rock norvegese Gothminister, all'attivo dal 2003 con sei album all'insegna di un rock elettronico a tinte gotiche, tanto nei suoni, quanto nell'immagine ad hoc curata fino al minimo dettaglio, elegante e oscura. L'ultimo disco del 2013 "Utopia" li vedeva approdare alla AFM Records con un sound più marcatamente rock e di estrazione tedesca, strizzando l'occhio a loop di chitarre alla Rammstein e cori alla Sisters Of Mercy, e il nuovo "The Other Side" sembra voler seguire proprio questa strada.

Ecco quindi tormentoni come "Ich Will Alles", pezzo trascinante fatto di riffing in levare e cori appassionati e malinconici, o "We Are The Ones Who Rule The World" con i suoi toni Gothic che vedono tastiere, innesti di voci femminili, e pestoni in doppia cassa. "The Sun" invece offre alcuni momenti più elettronici, pur mantenendo le chitarre e i baritoni magistrali ben presenti, ricollegandosi ancora una volta nelle vocals alla band di Andrew Eldritch, "Der fliegende Mann" segue ancora una volta la linea teutonica unendo momenti romatici e attacchi di chitarra dal sapore Neue Deutsche Harte.

In definitiva un disco fatto per un pubblico gotico già vicino a certi suoni, basato su una serie di elementi non di sicuro nuovi, ma dal buon effetto potenziato da un songwriting sempre competente e all'insegna del bel ritornello trascinante. Se cercate una serie di canzoni contagiose e dagli elementi oscuri, ma di facile ascolto, questo è il disco che fa per voi.

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Opinione inserita da Davide Pappalardo    24 Settembre, 2017
Ultimo aggiornamento: 24 Settembre, 2017
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A due anni di distanza dal precedente "October's Call" tornano i torinesi Lilyum (ora composti da Komos Reversum, Lod J. H. Psycho e Frozen), band black metal ormai all'attivo da diversi anni, giunta al settimo album in studio; i Nostri hanno sempre variegato la loro proposta muovendosi nel vasto mondo del metal oscuro con diversi approcci, senza però mai tradire le proprie radici ancorate nella tradizione del genere. Il nuovo lavoro "Altar Of Fear" segue questa linea, proponendo un black più aggressivo rispetto a quello dell'atmosferico predecessore, quasi una reazione attiva dopo un periodo di chiusura introversa, una riflessione che ora sfocia in un attacco senza remore, anche se i passaggi più controllati non sono del tutto banditi.

Largo quindi a bordate old school quali quelle di “Alkahest”, con i suoi loop segaossa di chitarra contornati da un drumming spietato e da vocals infernali, ricche di gelo e malinconia, o “To Dream Beneath Plains of White Ash”, pezzo che non dimentica sessioni epiche e passaggi frostbitten di ottima fattura; “Voices from the Fire” chiama in causa elementi epocali di matrice sinfonica e dark ambient, mostrando come la band sappia usare anche anime diverse, ma in un contesto coerente al genere: presto esplodono chitarre distorte e moti ossessivi dall'anima nera, tanto quanto le vocals ruggenti e i malinconici fraseggi con cori appassionati.

“Stain Of Salvation” mostra una natura malsana e paludosa, dal groove malevolo scolpito da una voce piena di effetti, ma anche qui non mancano ritornelli di buona fattura e dalla volontà trascinante, mentre la conclusiva “ Siege the Solar Towers” incorona il disco con un misto di malvagità old school e tellurica violenza raffreddata da andamenti polari, ennesimo pezzo nero come la pece, diretto e veloce.
“Altar of Fear” si conferma come un attacco black metal fedele alla seconda ondata del genere, ovvero quella scandinava, il quale però non dimentica di essere stato forgiato e prodotto nel 2017, godendo delle evoluzioni del metal più oscuro ed usandole, come d'abitudine per la band, al servizio di un disco onesto e senza fronzoli.

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Opinione inserita da Davide Pappalardo    25 Luglio, 2017
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Tornano gli statunitensi Prong, band capitanata ad oggi da Tommy Victor (chitarra, voce), Mike Longworth (basso, seconda voce) ed Arturo Cruz (batteria), con il loro nuovo album "Zero Days", pubblicato dalla Steamhammer. Attivi sin da fine anni ottanta, i Nostri hanno visto diversi cambi di suono e formazione, partendo da un crossover a tinte thrash, e passando per groove industriali, fino ad arrivare alle recenti soluzioni più rock ed orecchiabili, pur senza mai perdere una certa immediatezza di fondo, soprattutto nella voce "punk" del cantante.
Il disco si apre con "However It May End", una bordata groove/thrash che ricorda in parte i Machine Head, fatta di montanti rocciosi, cori orecchiabili, linee di tastiera e battera dai rullanti cadenzati; impossibile non ricordare i Ministry post 2005 (dove non a caso ha militato il buon Victor) ed in generale il passato recente della band. La title track ci dona un andamento sincopato, salvo poi darsi a cavalcate dai ritornelli filtrati e costruzioni incalzanti e ritmate, mentre "Forced Into Tolerance" da sfogo alla loro già citata anima punk, tra slogan urlati e galoppi robusti di sana matrice crossover. "Operation Of The Moral Law" ci investe con riff grantici, per poi travolgerci in loop circolari vecchia scuola ed ammalianti soluzioni vocali tra melodico ed aggressivo, "Wasting Of The Dawn" chiama in causa un'elettronica controllata, ributtandoci in pieno periodo fine anni novanta-inizio duemila, ma non mancano nemmeno qui chitarre thrash e cori da cantare a squarciagola, con tanto di effetti "new wave".
Tirando le somme, un buon disco che segue la scia degli ultimi anni, forse iniettando un po' più di aggressività quadrata, ma senza sconvolgere una formula ormai ben comprovata. Se già avete apprezzato i precedenti "X-No Absolutes" e "Ruining Lives", qui avrete di che godere durante i vostri ascolti.

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Opinione inserita da Davide Pappalardo    26 Marzo, 2017
Ultimo aggiornamento: 26 Marzo, 2017
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I Noise Pollution sono una band bolognese con già all'attivo un debutto omonimo, caratterizzato da un suono hard rock moderno. Ora il gruppo torna sotto l'egida della Scarlet Records, presentando un secondo disco intitolato Unreal, il quale mantiene il substrato rock spingendolo verso territori anche alternative e groove metal, con un'impronta molto statunitense.
Ecco quindi che Ame (voce), Mauri (chitarra) Tony (chitarra) Wynny (basso, voce), Labo (batteria) si dedicano a dieci tracce che ci rimandano al suono di gruppi quali i Five Finger Death Punch, senza però suonare come una copia, anche grazie all'intrusione di alcune particolarità tra cui un'elettronica controllata, e connotati sludge, nonché alcune parti più glam ed altre più heavy, giocando quindi con il songwriting, pur senza perdere la propria essenza.
Breaking Down mette in chiaro questa natura “sperimentale”, aprendosi con tastiere trance e vocals con effetti, presto seguite da un riffing robusto seguito da un cantato caldo e trascinante dal groove contagioso e dal gusto classico, mentre Gone Forever ricorda il metalcore più crossover e meno adolescenziale, tra festeggiare grevi e cantato altisonante, supportati da loop di chitarre ipnotiche e ritornelli ariosi che rimangono in testa. Shame gioca con vocals lisergiche dal sapore alternative/grunge, non dimenticando melodie vocali e corse ritmate, mentre la title track è una ballad che rappresenta l'anima più tipicamente rock del progetto, tra chitarre dagli arpeggi delicati e tastiere melodiche e malinconiche. Altri punti d'interesse sono la corsa spericolata dall'anima glam di Hole Inside Me, più legata quindi allo stile del primo lavoro dei Nostri, non dimenticando parti che ci rimandano al sano suono degli anni ottanta, ma anche di vocals legate al rock anni novanta in certe cadenze, nonché la quasi nu-metal We Can't Forget con le sue bordate ritmate ed il cantato da stadio, capace di creare ritornelli impossibili da non cantare, ma anche partiture squillanti di basso robuste.
Concludendo, un lavoro con un'anima particolare, la quale conserva sempre una base chiaramente rock, sulla quale però vanno ad innestarsi con abilità suoni di diversa estrazione, sia temporale, sia stilistica. L'ascolto è quindi consigliato ad ogni ascoltatore curioso che voglia gustarsi un disco melodico, ma non scontato, legato al passato, ma anche al presente.

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Opinione inserita da Davide Pappalardo    26 Marzo, 2017
Ultimo aggiornamento: 26 Marzo, 2017
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I Theatres Des Vampires sono una storica band romana dedita sin dalla metà degli anni novanta ad un metal a tinte oscure (inizialmente black, poi più gothic), ma dalla melodia ben presente, il quale tratta, come facilmente intuibile dal nome, di temi vampireschi tra il romantico e tinte horror, creando un proprio universo d'immagine e testi che li ha portati ad avere sia fans innamorati, sia detrattori. Ad ogni modo i Nostri hanno tirato dritto per la loro strada, arrivando ad oggi con ben dieci album (senza contare EP e raccolte), di cui l'ultimo Candyland, pubblicato dalla loro nuova etichetta Scarlet Records, trovate qui oggi la recensione.
Il disco si muove sui territori già consolidati in precedenza, tra elementi elettronici ben presenti già dai tempi di Anima Noir, le vocals femminili tra il graffiante ed il melodico, riff aggressivi e tratti più tipicamente metal; ecco quindi che Zimon Lijoi (basso), Gabriel Valerio (Batteria), Giorgio Ferrante (chitarre), Sonya Scarlet (voce), coadiuvati da Fernando Ribeiro dei Moonspell nella decima traccia, dal marito di Sonya, ovvero Tiziano Panini dei J.T.R Sickert nella terza, da Eliza Pezzuto come corista, e da Francesco Sosto (ex Klimt 1918 e Spiritual Front) e Luca Bellanova come tastieristi, rispettivamente nella settima ed undicesima traccia, ci donano undici canzoni abbastanza variegate, ma che non tradiscono il loro stile ormai consolidato. Si parte con Morgana Effect ed i suoi suoni futuristici legati a vocals aggressive e riff da terremoto, dandoci un cyber-metal che non rinuncia ad assoli dal gusto classico e parti oniriche di tastiera, mentre episodi come Delusional Denial presentano un gothic metal più robusto, anche se non mancano vocals con effetti e tastiere dal gusto orchestrale ed epico. La Title Track gioca con campionamenti ed arie horror quasi ambient, prima di aprirsi ad un incedere strisciante dal gusto trip hop, unito a pianoforte e linee sintetiche pulsanti, anch'esso però destinato a cessare in un metal più tradizionale, dai connotati melodici ben delineati. Photographic ci sorprende con la cover del famoso pezzo dei Depeche Mode primissima maniera, conservandone la struttura originaria, ma presentando naturalmente vocals femminili ed aggiungendo bordate di chitarra tagliente in stile Rammstein, mentre Seventh Room si apre con un gusto classico legato ad un pianoforte elegante, destinato però ad essere soppiantato presto da un trotto roccioso con cantato inumano, poi commutato in una sincope piena di effetti, la quale duetta con Sonya, supportata da echi sintetici e malinconie melodiche.
In definitiva, un lavoro che appassionerà chi già segue la band, e anche chi apprezza il gothic metal dai connotati elettronici, grazie ad un buon songwriting che evita di strafare o di essere pacchiano, pericolo in cui spesso molti colleghi cadono, specie in Italia. Consigliato.

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Opinione inserita da Davide Pappalardo    19 Marzo, 2017
Ultimo aggiornamento: 19 Marzo, 2017
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Gli Aborym sono un gruppo che ha sempre fatto discutere, che ha cambiato spesso pelle e suono, passando dagli albori black metal verso territori sempre più elettronici e sperimentali, salvo poi addentrarsi anche verso sfere psichedeliche e dalle tinte più rock, avvicinandosi con il penultimo “Dirty” verso lidi legati al sound industrial metal/rock di matrice americana. Ora il progetto sembra aver portato agli estremi questa fase, presentando con “Shifting.Negative” un disco che riprende molto, sia nei suoni e nel songwriting, sia nelle vocals, del Trent Reznor più malinconico e decadente, riportandoci quindi ai Nine Inch Nails di metà e fine anni novanta.
Troviamo quindi pulsioni elettroniche e vocals striscianti scosse da riff nervosi, come nell'apertura offerta da “Unpleasantness”, dove non mancano ritornelli filtrati dal tocco melodico e nasale, elementi che ritroviamo nel singolo “Precarious”, dall'incedere lento e dalla narrativa sonora che sembra fare il verso alla storica “Hurt” dei NIN, pezzo che ha ricevuto un maggior successo dopo esser stato reinterpretato da John Cage, ed un po' in tutto il disco; non mancano cavalcate roboanti come “10050 Cielo Drive”, che gode anche di pause meditative, e pestoni elettronici come “You Can't Handle The Truth”, con il suo andamento quasi alla Godflesh e le sue accelerazioni in loop.
Il risultato complessivo? Purtroppo non molto convincente. Molti pezzi si assomigliano fin troppo ed il tutto suona come derivativo e spesso troppo addomesticato, anche in confronto dei riferimenti usati, per non parlare del passato della band fatto di dischi come “With No Human Intervention”, dove la caratura della commistione tra elettronica e chitarre era di ben altra qualità; le drum machine sanno fin troppo di software, ed i riff in loop di “copia&incolla”, non pestano e non tagliano, problema spesso insito in molti epigoni di questo genere, i quali dimenticano il lato fisico del suono portato in auge da Ministry, Godflesh, Young Gods, Nine Inch Nails, ed altri. Non un'evoluzione in positivo, per un progetto che sembra aver perso identità e direzione, laddove invece in passato aveva sempre segnato una propria strada; tendenza già presente nel disco precedente, ma qui purtroppo fin troppo evidente. Non il posto migliore per incominciare con i Nostri, e forse a malincuore il migliore dove finirla, salvo sorprese insperate in futuro. Per ora rimpiangiamo gli Aborym che furono.

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Opinione inserita da Davide Pappalardo    19 Marzo, 2017
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Dopo un EP chiamato "Cold Shade Burning" del 2012, pubblicato per via indipendente, i bolognesi
The Burning Dogma giungono sotto la Sliptrick Records al loro primo album intero, ovvero "No Shore Of Hope"; Maurizio Cremonini e Diego Luccarini (chitarre), Antero Villaverde (batteria), Giovanni Esposito (tastiere), Simone Esperti (basso), Andrea Montefiori (voce) offrono qui un death metal dai tratti anche melodici ed epici, capace di essere quindi diretto e feroce, ma anche tecnico ed atmosferico, soprattutto grazie all'apporto delle tastiere molto presenti e dal gusto etereo e sognante. Ecco quindi brani come "The Brach" dove riff taglienti e pestoni ritmici creano bolge sonore accompagnate da vocals gutturali, screaming, ed aperture sintetiche orchestrali e maestose, ed ancora come "Skies Of Grey" con i suoi carri armati death stemperati sempre dall'apporto delle tastiere, e dall'intervento di voci femminili pulite che duettano con il growl generando bellissimi contrasti; un songwriting ben strutturato ed idee chiare si mettono in risalto in questi episodi, così come troviamo elementi melodeath in "Burning Times" ed altri più oldschool nella Title Track segnata da maestosi attacchi in doppia cassa, riff elaborati, ma anche d ainterventi quasi trip hop di tastiera, i quali riportano anche l'elemento "estraneo" caratteristico dei Nostri.
"Dying Sun" chiama addirittura in causa i Depeche Mode che furono, evolvendo in una cavalcata ritmica che sembra uscita da "Violator", mentre il trittico che chiude il disco, ovvero le tre parti di "Dawn Yet To Come", giocano prima su aspetti ambient e tribali, mentre poi ci regalano un metal moderno dall'andamento sincopato e dai tratti crossover, il quale non rinuncia all'epico, collimando nel finale dal gusto acustico e progressivo.
Un disco insomma particolare con fonde molte anime, senza però suonare forzato o privo di senso, pericolo spesso presente nei debutti ambiziosi dove si cerca subito di mettere molta carne al fuoco: grazie ad un songwriting già formato ed a buone idee di base, la band convince con il suo death a tratti sperimentale, di sicuro moderno, ma anche solido ed appassionante. Un ascolto consigliato.

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Opinione inserita da Davide Pappalardo    20 Novembre, 2016
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Homicidal Raptus è la one man band brutal death metal di Riccardo Cantarella, un progetto nato dal suo amore per il genere e la volontà di esprimerlo nel pratico creando da solo una serie di pezzi dove tutto è suonato da lui, affidando la parte ritmica ad una drum machine.

Il Nostro ha all'attivo tre dischi (Mountains Of Butchered Bodies, Feral Decapitation, Erotomanic Hallucinosis ) ed ora dell'ultimo abbiamo una versione rivista ed ampliata promossa dalla Broken Bones Records . Troviamo quindi dieci brani, una intro, un outro ed otto pezzi veri e propri, caratterizzati da un suono veloce e violento, condito da vocals gutturali e riff a motosega leagti alla old-school del genere; una particolarità del progetto è infatti quella di mantenere un certo legame con il death vecchia scuola ed i suoi elementi thrash, non cadendo nel puro tecnicismo che caratterizza spesso il lato più brutale del genere.

Ecco quindi bordate possenti come Dismembered and Hilariously Repatched, dove loop di chitarre severe e cantato da orco si sposano con una batteria ossessiva, presentando anche cambi di tempo da tradizione e fraseggi serrati, o pestoni tetri e violenti come Disemboweled in a Public Toilet con le sue ondate malsane al limite del delirio cacofonico. The Pride Sanitarium regala evoluzioni thrash macina ossa all'insegna delle chitarre rocciose e del cantato maligno a tratti quasi black, mentre Raped by the Mutants amplifica la lezione dei Deicide filtrando tramite l'ottica della variante europea del genere più acida e psichedelica.

Se dobbiamo trovare un appunto in un disco positivo, esso sta proprio nella batteria: di sicuro un batterista fisico gioverebbe decisamente al songwriting, non che la drum machine sia programmata male, ma in alcuni episodi la sua rigidità cozza contro l'organicità del resto della strumentazione. Inoltre forse una maggiore varietà a livello di riffing e soluzioni può portare il Nostro ad un livello superiore; detto questo, tenendo conto che è solo una persona ad occuparsi del tutto, i risultati finora ottenuti sono buoni e degni di considerazione, e fanno ben sperare sulla crescita del progetto. Promosso in attesa di ritrovarlo presto ancora più incisivo e capace di esprimere tutto il potenziale insito nella sua musica e nel suo songwriting che, si sente, non è per nulla amatoriale.

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