Opinione scritta da Dario Onofrio
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Ultimo aggiornamento: 07 Giugno, 2015
Top 50 Opinionisti -
Forse il nome Wolfheart potrà dirvi qualcosina, ma colui che sta dietro a questo progetto e che risponde al nome di Tuomas Saukkonen vi dirà sicuramente di più. Musicista e polistrumentista di successo, ritagliatosi un grande spazio in quella scena death/gothic finnica guidata dai quelli che furono i Sentenced, il nostro uomo ha avuto una vera e propia carriera lunga e duratura con i suoi Before the Dawn e successivamente con i Black Sun Aeon.
Stiamo parlando quindi di un personaggio con una storia ben definita e con un'esperienza sicuramente da non sottovalutare.
Veniamo al presente: come tutti i finlandesi che si rispettino, il nostro subisce una crisi mistica nel 2014 e scrive da solo un progetto solista di nome Wolfheart. L'album Winterborn, seppur prodotto con una produzione un po' scarsina e suonato tutto da Tuomas, ottiene un discreto successo e viene valutato benissimo da molte webzine, che lo paragonano ai primi lavori di gente come gli Amorphis.
Da qui la decisione del mastermind, ormai inattivo da 3 anni, di tirare su una band al completo e portare avanti il progetto; così, ingaggiati altri 3 compagni di viaggio, i neonati Wolfheart reincidono quell'album ampliandolo con ben 4 pezzi inediti.
Che dire di Winterborn quindi? Beh, al di là della banalità nel nome che inizialmente mi aveva lasciato perplesso, questo disco si dimostra un lavoro maturo e complesso sotto molti punti di vista. Si sente che pezzi come The Hunt, Ruota pt.2 o Gale of Winter non sono scritti da ragazzini che passavano di lì, ma da un signore maturo e con una conoscenza musicale coi controcazzi.
Tuomas miscela sapientemente la parte viking della sua produzione a quella un po' più gotica, come dimostrato dai frequenti passaggi dove le uniche protagoniste sono le chitarre, lasciandoci quel senso di freddo e isolamento tipico dei finnici. È anche un ottimo cantante e il suo growl non stanca, anzi, carica l'ascoltatore e lo attira nel pathos dei pezzi, come nell'incedere cadenzato di Whiteout.
Poi ci sono anche pezzi più vikingheggianti come Ghosts of Karelia (dal cui titolo evinco che il nostro, oltre ad occuparsi delle solite mitologie etc., parla anche un po' di politica), che richiamara palesemente i Mythotin del primo periodo nonostante i toni su cui è suonato siano molto più drammatici che guerreschi. Il pezzo che forse ho apprezzato di più è Chasm: sette minuti di cavalcata, introdotti da una chitarra acustica magistralmente suonata, che mescola sapientemente i primi Amorphis, i Moonsorrow e gran parte delle influenze che, dopo l'ondata power, hanno reso grande la Finlandia metal.
Venendo infine ai 4 pezzi inediti, posso dire che non sfigurano affatto di fronte ai precedenti, anche se 3 su 4 sono praticamente acustici. Isolation è un pezzo totalmente affidato alla tastiera che sembra essere stato suonato con l'idea di evocare un ghiacciaio; sulla stessa riga si muovono Frey (affidato invece all'acustica) e 4.19 A.M., mentre Into the Wild richiama le ritmiche di Chasm, accorciandole e ampliando il discorso su una cavalcata viking guerresca.
Tirando le somme: Winterborn è un ottimo album melodic death/vikingheggiante, che non sfigurerà nelle vostre collezioni a fianco di gente come i sopracitati Amorphis e Moonsorrow. Insieme ad artisti come Saor, Wolfheart si mostra essere una interessante novità sul panorama internazionale, nonché la riconferma che è ancora possibile suonare come vecchi album che hanno forgiato il nostro immaginario collettivo, senza però scadere nel manierismo o nell'autocitazione. Bravo, Tuomas!
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Ne vediamo di cotte e di crude nella scena folk italiana: da band che cercano palesemente di copiare chi viene da nord a altre che fanno musica solo per divertirsi e vedere gente che poga e rotola, oppure interessanti esperimenti volti a contaminare il folk metal moderno con la nostra cultura.
Provano a fare quest'ultimo passo gli Artaius con questo Torn Banners, secondogenito della band dopo la release di The Fifth Season nel 2013. Il sestetto italiano (si, ben sei elementi!) presenta un disco molto Eluveitie-Oriented, come si intuisce sin dal primo pezzo dal titolo Seven Months.
Un veloce giro di flauto e violino ci butta in un "reel" alla irlandese condito da una simpaticissima tastiera alla Alestorm e dal growl di Giovanni Grandi, che nelle intenzioni della band deve stridere con la "delicata" ugola di Sara Cucci. Questa sarà più o meno la formula che troveremo nella successiva Daphne e in un altro pezzo come Eternal Circle, quarta traccia del disco.
Dal terzo pezzo in poi iniziamo a sentire il sound diversificarsi leggermente, nonostante le linee vocali della coppia Grandi/Cucci restino sempre le stesse (variazioni solo quando la ragazza va su come soprano, e che variazioni!). Infatti Leviathan si contraddistingue per un suono quasi più sludge/modern, con la Cucci che ci regala un'ottima prestazione vocale e un'inaspettata comparsata del leader dei Ne Obliviscaris Tim Charles nell'assolo di violino.
The Hidden Path mostra un tempo più dedito all'incedere, con una tastiera che spesso e volentieri ricorda i Between the Buried and Me, mentre Pictures of Life, affidata completamente alla Cucci e al violino di Mia Spattini, è un ottimo stacco ballad/semiacuistico per riprendersi dalla parte più death metal ascoltata fin'ora.
Fino a questo momento è difficile farsi un'idea precisa di cosa facciano gli Artaius: la band mescola un po' di tutto, dal death al modern, passando a volte per l'industrial e a volte quasi per il metalcore, ma senza tralasciare delle irruzioni in campo progressive con uno smodato utilizzo della tastiera. Il pezzo che riassume efficacemente il contenuto di questo disco è Pearls of Suffering, che inizia appunto con una tastiera che sembra quasi uscita da un disco space-rock per poi lasciare spazio all'accoppiata Cucci/Spattini. A metà pezzo la band mescola ancora le carte in tavola piazzando una danza irlandese al flauto e poi buttandoci in un fantastico e lunghissimo assolo di tastiera che sembra uscito direttamente dai 70's, per lasciar finire la canzone a un "andersoniano" ospite come Dario Caradente dei Kalèvala.
L'unico pezzo che non mi ha convinto del tutto nel disco è la successiva Dualità: bella l'idea di cantare un pezzo in italiano e ci sta darci una linea melodica ben precisa e non complicata dopo il precedente; ma si rischia spesso di scadere nell'orribile banalità degli ultimi Eluveitie.
Per fortuna By Gods Stolen alza un po' il tiro nonostante sia anch'essa un pezzo decisamente lineare, per poi introdurci in By Humans Claim, pezzo che potrebbe essere tranquillamente uscito da una sessione tra Henia e i Machine Head.
Arriviamo alla conclusione con la title-track che è sicuramente un grandissimo finale: Torn Banners irrompe con ferocia nel nostro impianto audio per una vera e propria cavalcata dove persino il ritornello cantato in clean riesce ad entrare in testa. Per me che sono abbastanza intransigente col folk questa è una gran cosa: erano anni che il ritornello di un pezzo non mi restava così in testa!
Bene, finita questa recensione vi chiederete: ma perché ne hai parlato bene fino ad ora e gli dai solo 3 su 5?
La risposta è semplice: gli Artaius non sono riusciti a convincermi del tutto perché mi sembra che non sappiano bene cosa vogliono fare. Senza contare che le voci dei cantanti raramente riescono a emozionare e, anzi, mi permetto di dire che la voce della Cucci è efficace solo quando va in soprano. La parte ritmica del resto è praticamente solo un sottofondo: il basso di Enrico Bertoni, la batteria di Alessandro Agati e la chitarra di Massimo Connelli sono spesso solo dei contorni per la parte folk, cosa che ci fa pensare tantissimo a Everything Remains degli Eluveitie.
Anzi, volete saperla una cosa? Se questo disco fosse uscito sotto il moniker degli svizzeri di sicuro sarebbe esploso come una bomba a orologeria, difatti mi è piaciuto decisamente di più dell'album sopracitato e degli ultimi noiosissimi exploit degli elvetici.
Eppure solo due tracce entreranno ufficialmente nella mia playlist estiva (Torn Banners e Pearl of Suffering), mentre le altre finiranno nel dimenticatoio generale del folk metal italiano. Peccato? Non direi: se nel prossimo album i nostri troveranno una strada da seguire sono sicuro che finalmente ascolteremo qualcosa di veramente degno di nota.
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La prima domanda che mi è sovvenuta quando ho finito di ascoltare Haven è stata: "ma da quanto i Kamelot hanno smesso di fare power metal?".
Al di là (per ora) della malignità delle mie opinioni: Haven è l'undicesima prova in studio della band pilotata da Oliver Palotai, arrivata a due album dal fondamentale cambio di singer che ha lasciato un evidente segno nella band. Ahimè, purtroppo questo segno non è stato molto positivo e continua a puntare inesorabilmente verso il basso: se Silverthorn era un discreto album power, Haven non è purtroppo all'altezza del suo predecessore.
Chiariamoci: i Kamelot suonano come sempre, ovvero tecnicamente ineccepibile e molto puliti e precisi per quello che fanno. Ma la cosa brutta è che a parte due o tre canzoni (peraltro quelle con gli interventi di Alissa White-Gluz degli Arch Enemy, Troy Donockley dei Nightwish e Charlotte Wessels
dei Delain) questo album suona completamente senza un'anima.
Prendiamo in esempio il primo pezzo: Fallen Star. Una semplicità compositiva imbarazzante che non mi sarei mai aspettato da chi ha scritto capitoli FONDAMENTALI della storia di questo genere. Per non parlare del chorus di Insomnia, anch'esso a tratti ammorbante. Dopo la marcia Citizen Zero (forse uno dei pochi pezzi veramente riusciti) finalmente riusciamo ad ascoltare un po' di doppio pedale su Veil of Elysium, nonostante anche qua sia la fiera della banalità con il classico ritornello stracciamutande per le fan della band. Per fortuna la ballad Under Gey Skyes ci porta parecchio in alto e fa tirare un sospiro di sollievo rispetto al mucchio di noia accumulato da prima, con una bravissima Charlotte Wessels al controcanto e un ottimo Troy Donocley dei Nightwish dietro agli strumenti folkeggianti.
Purtroppo, dopo questo sospiro di sollievo, arriva uno dei pezzi più noiosi in assoluto: My Therapy, che ritorna su tempi regolarissimi con un chorus che ormai sarà la terza volta che sentiamo (il bravissimo Tommy Karevik reinciso e la tastiera di Palotai che non vuol più fare improvvisazione).
Fortunatamente riusciamo a restare svegli con End of Innocence, che nonostante abbia anch'essa un coro ammorbante comunque non è una palla come il pezzo precedente.
E finalmente da qui in poi vediamo uno spiraglio di luce. Infatti Beautiful Apocalypse, nonostante sia poverella d'idee, riesce comunque a strapparci un sorriso, mentre in Liar Liar torna prepotente il doppio pedale, con un Karevik al massimo dell'espressività vocale.
Lasciando perdere la ballad Here's to the fall arriviamo pure a Revolution, finalmente un bel pezzo dove fa da padrona Alissa degli Arch Enemy. Ed è qui che almeno i Kamelot riescono a regalarmi qualche emozione, sarà perché hanno dovuto scrivere qualcosa che fosse un filo vagamente violento e non la solita nenia, con un bel riffone corposo tendente thrasheggiante e un Palotai che si limita a fare di sottofondo, ma con stile.
Skippiamo pure Haven, la conclusiva "strumentale" (in realtà composta da sole tastiere).
Ciò che mi chiedo è: perché? Perché un gruppo come i Kamelot si è messa a copiare dai Nightwish di Dark Passion Play? Perché c'è 0 voglia di provare a scrivere qualcosa di nuovo come facevate un tempo? Trovatemi in stò disco un pezzo che rassomigli vagamente a When the lights are Down o a Centre of the Universe e vi darò un premio, davvero. 1Davvero non avete più nulla da dire?
Insomma, il mio giudizio su Haven non può essere positivo. Mi auguro che questo disco sia solo un passo falso per una band che sono sicuro può fare ancora molto per il power metal.
Ultimo aggiornamento: 02 Mag, 2015
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Spesso la gente si dimentica cosa significhi seriamente suonare viking metal: per fortuna ci sono gruppi come gli Skyforger, a mio avviso una delle realtà più sottovalutate all'interno della scena europea. Li avevo visti esibirsi in un eccezionale show al Fosch Fest 2013 e sono veramente contento di constatare che i nostri lettoni non hanno certo perso la loro attitudine guerresca e battagliera che li ha sempre contraddistinti, rendendoli uno dei gruppi "padrini" del pagan metal made in east Europe.
Senprūsija (Antica Prussia in lettone) arriva a cinque anni dal precedente Kurbads. Molte cose sono cambiate: un chitarrista e soprattutto la fine del rapporto di collaborazione con Kaspars Bārbals, il polistrumentista della band. Nonostante questo il disco suona benissimo e trasforma i nostri stereo in una macchina macinariffoni devastanti. Il tutto si apre con la title-track, un pezzo in pure stile Skyforger fatto di tappetoni di chitarra black/viking sparati a mille sui nostri timpani, con un bellissimo inserto di flauto a metà pezzo che ci lascia intravedere un barlume di folk.
I lettoni vogliono raccontarci l'antica storia della Prussia, una delle tre regioni baltiche oggi completamente scomparsa (nel booklet è scritto che i tedeschi che conquistarono l'area successivamente, pur facendosi chiamare prussi, non avevano affatto radici o affinità con quel popolo!) e lo fanno a modo loro: Sudavu jatnieki è forse uno dei pezzi più belli del disco, dedicato ai guerrieri del popolo sudoviano (oggi la Sudovia è una regione della Lettonia), una vera e propria cavalcata viking spinta sempre più sull'accelleratore ad ogni secondo che passa, mentre Tagad vai nekad è uno dei primi inni dell'album.
È bello vedere che i nostri, pur suonando un genere ormai inflazionatissimo, riescono a dargli un tocco particolare tutto loro. Così Herkus Monte, dedicata al principale leader della rivolta contro i soldati tedeschi nella Prussia antica, gioisce di una atmosfera sia festaiola che epica, con un incrociarsi di thrash/speed metal dal sapore motorheaddiano e soprattutto un bellissimo assolo prima della fine dei balli. Gli Skyforger riescono ad essere sia dei grezzoni che ti ascolteresti mentre ti stai spaccando di birra a qualche festival che una band in grado di rievocare atmosfere epiche come fa la successiva Ramava, che con il suo coro ci accompagna fino alla parte "cafona" del pezzo.
Il seguente episodio, Lepnums un spits, ritorna sull'effetto cavalcata che avevamo già sentito qualche pezzo fa, mentre Divi Brali ci trascina in una spirale di pogo con un bellissimo riffone supportato come al solito dall'eccelso drumming di Edgar Mazais e da un ottimo stacco folk in piena tradizione viking. Torniamo nuovamente su vette alte con Meinas Buras, un vero e proprio macigno di "viking metal come andrebbe suonato", a metà strada tra il black e l'epicità che pochi gruppi ormai riescono a trasmettere.
Gli Skyforger non perdonano i tedeschi che anni fa distrussero il popolo prusso: Nekas nav aizmirsts (Niente è perdonato) sembra essere una vera e propria dichiarazione di battaglia, un canto che va a chiudersi con la strumentale Rituals e la finale Zem Lietuvas karogiem (Sotto stendardi Lituani), un pezzo che già dal titolo lascia poca fantasia sui temi trattati e che si chiude con uno dei cori viking metal più belli che abbia sentito quest'anno.
Devo dire che con questo disco gli Skyforger entrano a pieno diritto in quell'olimpo di gruppi che sarebbero in grado di far smuovere anche la persona più pacifica della terra: Senprūsija è un album maturo, con un songwriting e una produzione ottima, degno dei migliori capitoli dei Waylander o di altri colossi della scena internazionale. Il mio consiglio? Se vi piace il viking non lasciatevelo sfuggire!
Ultimo aggiornamento: 26 Aprile, 2015
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È di qualche giorno fa la triste notizia che Reamon Bomenbreker (chitarra) e Mark Splintervuyscht (voce) hanno dovuto abbandonare gli Heidevolk per problemi legati al lavoro. Una band che arriva al quinto album con questo Velua, dedicato dopo il concept di Batavi, alla foresta a cavallo tra Olanda e Germania.
Non so chi saranno i prossimi membri della band a prendere il posto dei fondatori, ma Velua rimane una testimonianza del loro modo di comporre e suonare la musica degli Heidevolk.
L'album si apre su Winter Woede, classicissima canzone tipica degli olandesi, composta da cori, tappetoni di basso e parti di viking growlate egregiamente da Lars NachtBraecher, nuovo acquisto canoro della band. Ottimo come al solito anche il lavoro di Kevin Vruchtbaert alla solista, che inserisce abilmente fraseggi sotto a una sezione ritmica indiavolata. Stesso discorso si può fare per pezzi come Herboren in vlammen, Urth, De vervloekte jacht, Een met de storm o la penultima In het diepst der nacht.
Se il filone iniziato con Valhalla Watch permane in questi pezzi non possono mancare anche alcuni momenti più bevaioli come Drankegalg, con un coro che sembra fatto apposta per vogare, o altri più riflessivi come De hallen van mijn vaderen.
Il mix degli Heidevolk è sempre lo stesso, ma stavolta pare un po' sottotono rispetto al bellissimo Batavi: purtroppo sembra che le idee spesso scarseggino nonostante ottimi spunti folkeggianti ricavati all'interno delle canzoni sopra elencate. Fa eccezione Vinland, l'ultimo pezzo cantato in inglese dedicato al tour americano della band o anche Het dwalende licht.
Mi sembra che la band abbia un po' esagerato con la questione dei cori, rendendo spesso la parte ritmica fondamentale rispetto a quella melodica, nonostante questa cosa venga salvata dal violino della bravissima Irma Vos. Certo, gli Heidevolk senza l'effetto della doppia voce non sarebbero loro, però Velua dà come l'impressione che i nostri si siano un attimo riposati dopo l'exploit di Batavi.
In ogni caso non mi perderò per nessun motivo il loro show al Fosch Fest, visto che dal vivo anche i pezzi di un album non proprio riuscitissimo come Velua riescono a coinvolgere (specialmente Dankegalg).
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Ci sono molti modi di definire un gruppo "schizzato" o "schizoide". Di esempi ne è pieno il mondo, ma i The Monolith Deathcult sono un gradino sopra molti loro illustri colleghi per un semplice motivo: nella loro musica il gusto per il politicamente scorretto si fonde con un death metal mischiato all'elettronica e a dei sinth che non mancano di far storcere il naso ai puristi. Nel 2013 avevano dato alle stampe quello che a mio parere è una vera e propria pietra miliare del death metal sperimentale chiamata Tetragrammaton, dove parlavano tra le altre cose del genocidio del Rwanda o dell'ayatollah Komeini.
Due anni dopo i nostri, ormai famosi a livello internazionale (la provenienza è olandese), buttano fuori dalla band per motivi ancora poco chiari (descritti sul sito come "cacciata degli infedeli") Ivo Hilgenkamp (chitarrista) e Sjoerd Visch (batterista) e danno alle stampe questo EP dal titolo poco fraintendibile: Bloodcvlts, scritto su una scimitarra stilizzata con caratteri ebraici...
Eppure non si parla di islam nel disco, bensì di diverse tematiche che vanno dall'accanimento dell'Armata Rossa contro i civili tedeschi (Reign of Hell), agli dei di religioni orientali (Doom of the Tawusê Melek) fino all'Apocalisse (GeneSYS).
La formula della band è sempre la stessa: cannonate di riffoni death metal e roboanti effettoni di sintetizzatore che ben si adattano alle atmosfere apocalittiche dei loro lavori. In mezzo a questo EP secondo me spicca come bellezza la terza Der Hexenhammer, un pezzone tiratissimo che ricalca molto lo stile di Tetragrammaton. Anche GeneSYS, la conclusiva prima delle due bonus track, con i suoi roboanti effetti orchestrali e le sovrincisioni narrate, merita più di un ascolto.
Si perché oltre alle classiche track alla Monolith Deathcult troviamo anche una divertente remix di Todesnacht von Stammheim (da Tetragrammaton) e una versione acustica di Den Ensomme Nordens Dronning (da Trivmvirate), assolutamente imperdibili per i fan della band.
Sarà che i Monolith Deathcult mi stanno simpatici anche perché hanno sempre avuto delle sfighe atomiche nei live (vedi l'ultimo Rock Hard) e prendono un sacco per il culo la politica estera (specialmente Berlusconi), ma riesco a trovare qualcosa di interessante in ogni lavoro che pubblicano. Questo anche perché i testi si dimostrano sempre molto più complessi di quello che si pensa.
Quindi, per chi aspetta con ansia un nuovo album o per chi vuole iniziare a conoscere questa band allontanandosi dagli stilemi classici del death, Bloodcvlts rappresenta un interessante assaggio di quello che i nostri sono in grado di fare.
Ultimo aggiornamento: 13 Aprile, 2015
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Ricordo che sentii parlare dei Rebeldevil nel 2009 e che la cosa mi era piaciuta fin da subito. D'altronde può una band composta da gente proveninte da Strana Officina (Dario Cappanera), Extrema (Gielle Perrotti), Raw Power (Ale Paolucci) e Negrita (Cristiano dalla Pellegrina) non suscitare interesse? Ricordo un album dal titolo Against You e nulla di più, che però mi aveva lasciato piacevolmente sorpreso (anche perché spesso i supergruppi non sono all'altezza delle aspettative).
Dopo una pausa di ben sei anni i Rebeldevil tornano a far parlare di sé con The Older, The Bull, The Harder The Horn, separatisi dal vecchio batterista per far entrare in formazione Ale "Demonoid" Lera degli Exilia.
A mio parere le correnti di provenienza dei vari membri (heavy, thrash, groove, hardcore etc.) sono sapientemente mischiate in un disco che raramente annoia l'ascoltatore.
Si inizia infatti sulle note di Rebel Youth, un pezzaccio che richiama alla lontana i Kyuss di Green Machine mischiandoli con una attitudine più alla Pantera. Riffoni, un serratissimo ritmo in quattro quarti e un refrain con clean vocals rendono questo pezzo cantabilissimo e godibilissimo. Ma anche citazioni a mostri del genere (ai quali i nostri non hanno nulla a che invidiare) come i Black Label Society non mancano nella seconda Sorry o nella ballad Angel Crossed my Way.
In questa macchina tutto funziona alla grande, anche le influenze hard rock della title-track o quelle alternative di Religious Fantasy (uno dei migliori del disco a mio parere). Il missaggio e la produzione, a volte sporcati e aggressivi, sono assolutamente funzionali a un lavoro di questo calibro che nasce proprio per raccontare la ribellione e il disagio generazionale come molte band americane dal passato ci hanno insegnato a fare.
Insomma una volta tanto ci troviamo di fronte a un disco che ha tutte le potenzialità per piacere a true metallers e non: una bella ventata di aria fresca in un mercato purtroppo sempre sottovalutato come quello italiano. Augurandomi che il progetto continui a camminare per i fatti suoi non mi resta che trovare un'occasione per godermi questa fantastica band dal vivo, visto che conoscendone i membri mi aspetto fuochi d'artificio!
Top 50 Opinionisti -
"Monolith`s mission is to play what they like to call "Pure Metal", overdriven guitars, soaring vocals, facemelting solos, and lower production value than most current metal acts in order to keep the feel of the early days of metal."
Chi legge le mie recensioni sa quanto una affermazione del genere possa farmi solitamente girare le scatole in quanto detesto i "revival" del true metal e robe del genere.
Invece Against the Wall of Forever è stata una sopresa, in quanto pur copiando ovviamente dai maestri del genere si rifà alla corrente più blueseggiante dell'old school. Un plauso da fare a Aaron Howell e soci è Kindly Dr. Jest (The Interrogator), un pezzone lento e macignoso che si rifà chiaramente alle influenze di Black Sabbath e primi Manilla Road. Belle anche le influenze maideniane in The Prophet e in Elusive Prey, mentre la title-track e The All Father and The Chaos Lord sa di speed di prima mano. Il collage musicale prodotto dagli statunitensi alla fine risulta essere divertente e coinvolgente, quasi come i colleghi Skull Fist (anzi forse un po' più bravi dal punto di vista compositivo).
Non troverete niente di nuovo in un album come Against the Wall of Forever, ma sicuramente ci troverete molto di più di quello che ci si potrebbe aspettare da un disco "old-school a tutti i costi". Ovviamente se cercate qualcosa di nuovo e ce l'avete con le band che fanno queste operazioni nostalgiche... State alla larga!
Top 50 Opinionisti -
Se ci fosse sulla faccia della terra qualcuno che non conosce i Saxon e si ritiene un metallaro si faccia un segno della croce e vada direttamente a comprarsi questa ristampa.
La SPV continua la serie di re-release dei cavalieri sassoni stavolta con Heavy Metal Thunder, un mega best of che nel lontano 2002 raccolse i superclassici della band rimasterizzati (già usciti un anno prima nella limited edition di Killing Ground) in una lussuosa edizione per i fan più accaniti. C'è davvero bisogno di recensire un album che contiene perle come Princess of the Night, Denim & Leather, And the Bands Played On e altre superhit di una band che ha fatto la storia della NWOBHM e oltre?
Se qualcuno di voi non conoscesse davvero la band di cui sto parlando è il caso comunque che vi recuperiate questo disco, condito tra l'altro da un succoso live tirato fuori dal Bloodstock 2014, che va a sostituire il "bootleg ufficiale" contenuto nella prima versione del disco.
La scaletta, che ho avuto modo di apprezzare in sede live all'Out & Loud dello scorso anno, include solamente due pezzi dal nuovo corso della band: Sacrifice (title-track dell'ultima fatica in studio) e l'epicissima Battalions of Steel. Per il resto parliamo dello stesso classico lavoro dei Saxon: presenza eccelsa, Biff che potrebbe esaltare il più depresso dei depressi e una tecnica eccellente, con le altissime prestazioni degli storici Paul Quinn e Nigel Glockler, al quale auguriamo di tornare al massimo della forma per rispararci nelle orecchie la sua batteria a mille.
Unica cosa non proprio adatta ai padiglioni auricolari è che non avendo a disposizione un impianto di registrazione di livello l'audio non è proprio il massimo e pecca di basso, ma la prestazione dei sassoni è talmente potente da travolgerci comunque!
Se siete hard fan della band e avete già tutto potrete tranquillamente saltare quest'uscita, se invece state scoprendo i Saxon ora e volete approfondire il discorso non potete lasciarvi scappare Heavy Metal Thunder.
Ultimo aggiornamento: 17 Marzo, 2015
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Sul fatto che la musica unisce i popoli non ci sono dubbi, anzi, quante volte vi è capitato ai festival di incrociare persone provenienti da ogni parte del mondo? Per questo non dobbiamo stupirci se dal Botswana spunta fuori una band come gli Skinflint, cavalieri dell'heavy made in Africa.
Arrivati al quarto full-lenght dopo un inizio carriera che li ha portati persino a comparire nel documentario Global Metal, la band non tradisce le proprie radici presentandoci un sound targatamente US-heavy. Chi li chiama "I Manilla Road africani" non ha tutti i torti: le melodie create dalla chitarra di Giuseppe Sbrana e dal basso di Kebonye Nkoloso hanno un sapore marcatamente americano con un accenno di doom alla Black Sabbath.
Dal punto di vista compositivo e tecnico c'è da dire che i pezzi degli Skinflint sono davvero interessanti, con una attitudine a cambiare spesso le ritmiche in gioco e accelerare quando meno ce lo aspettiamo. Anche la batteria di Sandra Sbrana si lancia spesso in cariche heavy di piena potenza, come si può sentire in The Pits of Widha.
L'album è pervaso da una attitudine molto blueseggiante: onnipresente la distorsione con tempi rigorosamente pari, anche quando la band va a esplorare territori vagamente country come con The Wizard and his Hound o cariche alla Iron Maiden come nella conclusiva The Witches Dance.
Se fino ad ora ho elencato i lati positivi della band che, vi assicuro, sono parecchi, devo anche evidenziare il loro più grande punto debole: i ritornelli. Infatti, proprio dove una canzone dovrebbe spaccare di più, gli Skinflint cadono nella banalità più assoluta: tutti i ritornelli dell'album sono praticamente identici, giocati sullo stesso stacco e senza assolutamente fantasia.
Nyemba si rivela così un album che, con una produzione un po' più migliorata (maledetto vizio di chi fa heavy di usare la produzione old style!) e dei ritornelli più elaborati, sarebbe stato decisamente meglio del risultato finale.
Ciò nonostante le ritmiche, l'attitudine blues e l'indubbia abilità tecnica dei musicisti, li rendono una interessantissima realtà in un paese che musicalmente conosciamo veramente poco.
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