Opinione scritta da Celestial Dream
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Ultimo aggiornamento: 18 Settembre, 2022
Top 10 opinionisti -
E' un'affascinante e sognante artwork quello che subito salta all'occhio avvicinandosi a “Shangri-La”, titolo scelto per il ritorno discografico degli Edenbridge, storica band Symphonic Metal che ha gettato negli anni le basi di questo stile musicale grazie all'estro compositivo di Lanvall ed alla voce celestiale ed angelica di Sabine. Il gruppo austriaco, dopo dieci album in studio, continua il proprio percorso iniziato nell'anno 2000 con “Sunrise in Eden” ed un sound divenuto man mano sempre più bombastico, spinto da arrangiamenti orchestrali e passaggi acustici senza disdegnare ancora una volta qualche momento più spedito in grado di riportarci alle sonorità più Power Metal che delineavano i primi lavori. Composizioni sofisticate ma altrettanto abili nel catturare l'attenzione fin da subito sfruttando linee vocali raffinate.
Cori possenti e sinfonie sono subito protagonisti circondano il pezzo iniziale, “At First Light”, brano che non disdegna qualche sfuriata maggiormente decisa durante la parte strumentale e proseguendo fino ad un crescendo che nel finale intreccia varie voci (anche in stile gospel) concludendo il pezzo – di oltre otto minuti di durata – con le marce altissime. Dopo la melodica e diretta “The Call Of Eden” trovano spazio i riff più decisi e grintosi di “Hall Of Shame” e “Freedom Is A Roof Made Of Stars” mentre la lenta “Savage Land” mostra tutta la classe compositiva di Lanvall con atmosfere mistiche ed il flauto di Daniel Tomann-Eickhoff a donare un tocco Folk. Come spesso accade nei dischi firmati Edenbridge, è l'immancabile suite finale il fulcro dell'intero lavoro. E anche stavolta “The Bonding (Part 2)” divisa in più parti, si dimostra una composizione di livello eccelso, capace di muoversi attraverso tutte le sfaccettature del sound forgiato in oltre vent'anni da Sabine s soci con la partecipazione al microfono di Erik Martensson (Eclipse, W.E.T.) ad impreziosire l'ispirazione compositiva che è ben chiara in questi sedici minuti.
“Shangri-La” non è il miglior disco nella storia degli Edenbridge, e presenta alcuni alti e bassi durante la tracklist, ma è certamente un lavoro che testimonia l'abilità del gruppo austriaco nel creare un sound complesso e melodico allo stesso tempo. Una band riconoscibile in mezzo alle centinaia che affollano il mercato ed il voto qui sopra – seppur forse leggermente di manica larga – è strameritato.
Ultimo aggiornamento: 15 Settembre, 2022
Top 10 opinionisti -
I Lugnet sono tra gli esponenti da tener più in considerazione per quanto riguarda quell'Hard Rock settantiano che è tornato in voga ultimamente. Dopo un buon debutto nel 2016, ora il gruppo si rifà vivo con questo “Tales From The Great Beyond”, disco massiccio e maturo che mostra un songwriting corposo e preciso. “Still A Sinner”, che apre il disco, è costruita su riff possenti che scorrono con decisione sigillando un brano subito capace di trasmettere carica. E non è da meno la successiva “In Harvest Time”, che unisce tastiere di stampo settantiano a riff dinamici con un cantato ispirato per un brano di chiare influenze Deep Purple. La più rilassata ed intensa “Another World” si sviluppa in oltre sette minuti con una partenza acustica che passa presto ad un Hard Rock classicissimo alla Led Zeppelin con velate tinte malinconiche. Le più frizzanti “Out Of My System” e “I Can’t Wait” scorrono su ritmi più scoppiettanti con melodie vocali maggiormente spensierate, mentre nel finale prima la rocciosa “Black Sails”, con l'ugola vibrante di Johan Fahlberg a muoversi con disinvoltura durante i solidi otto minuti di questo brano, poi la strumentale “Tåsjö Kyrkmarsch”, suonata interamente con l'organo, fanno partire i titoli di coda.
Bello, intenso, ma anche fin troppo classico e senza alcun passaggio fuori dagli schemi; “Tales From The Great Beyond” è comunque un prodotto interessante per tutti gli amanti di queste sonorità. Lugnet, dopo il debutto del 2016, una conferma per gli amanti del sound settantiano!
Ultimo aggiornamento: 14 Settembre, 2022
Top 10 opinionisti -
Melodici, potenti, moderni: avevamo lasciato i Sole Syndicate qualche anno fa (e più precisamente nel 2020) con “Last Days of Eden”, un disco davvero azzeccato, ed oggi li ritroviamo con “Into the Flames”, lavoro coinvolgente e ricco di adrenalina dall'inizio alla fine: non c'è un brano fuori posto! I Nostri alternano momenti iper-catchy e delicati (“Shadow of My Love, “Do You Believe” e “Freak Like Me”) a passaggi aggressivi con riff spaccaossa esaltati da una produzione possente e limpida – opera dei Domination Studio di Simone Mularoni - (“Forsaken” e “Back Against the Wall”). Insomma è un po' come se la vecchia scuola europea incontrasse la scena più moderna americana, in un ipotetico mix tra Europe e Alter Bridge. Tutte le influenze della band verso l'Hard Rock melodico ottantiano escono con forza sulle note spedite e accattivanti di “Miss Behave”, mentre appassiona l'epico incedere di “In the Absence of Light”, pezzo maturo che con chitarre armoniche accompagna le linee vocali sofferte di Jonas Månsson. Anche qui come in qualche altro momento del disco (vedi l'opener) qualche rimando ai cari, vecchi Angel Dust è abbastanza riconoscibile. Dopotutto anche l'uso del pianoforte e di tastiere solenni sono un punto di incontro tra le due band insieme a melodie malinconiche ed oscure, come attraverso le atmosfere dark che imprimono di grigio la ruvida e moderna “Dust of Angels”. Nel finale il quartetto svedese si permette anche un brano che supera i dieci minuti di durata, un po' insolito in questo genere. Ma ne esce a testa alta alternando momenti più rilassanti a qualche esplosione sonora, il tutto condito ovviamente da melodie vocali che fanno subito centro.
“Into the Flames” è un disco davvero riuscito e i Sole Syndicate sono una band che ormai merita di essere scoperta da tutti gli ascoltatori che si cibano giornalmente di buona musica.
Ultimo aggiornamento: 13 Settembre, 2022
Top 10 opinionisti -
Hard'n'Heavy che ci riporta ai grandissimi anni '80 con la proposta musicale dei Love In Chains. Niente di nuovo quindi ma una manciata di brani spinti da una pura passione che prendono ispirazione da gruppi come Kiss, Dokken, Riot e Stryper.
Nati dall'unione tra il chitarrista Mike Floros (SteelCity) ed il cantante Rob Kane (Apocalyptic Lovers), il gruppo ha iniziato la stesura dei pezzi che ora compongono questo disco di debutto. Un lavoro fedele a ciò che le storiche band sopra citate hanno composto oramai quasi quattro decadi fa. Certo è che all'ascolto manca un po' di spinta a delle composizione varie, ma che spesso trasmettono la stessa sensazione che si prova alla guida di un'automobile che viaggia per strada senza riuscire mai ad innescare le marce alte.
La scoppiettante “Locked and Loaded“ ha il compito di aprire le danze con i suoi tre minuti scarsi prima di dar spazio alla solida “Less Than Zero”, brano che più classico non si può. Coretti e melodie zuccherose per la rockeggiante e melodica “Cherry Wine” prima di tornare a graffiare sui riff tosti di “Darkness Falls”. Rob Kane al microfono svolge bene il suo compito senza esaltare e la sua ugola limpida alza i decibel con le note elettrizzanti di “Rain”, bel brano che presenta un tocco Blues e chitarre sempre ben ispirate grazie al lavoro di Mike Floros. Buono il lavoro di songwriting nella ballata “Overdose”, tutt'altro che banale nelle linee vocali e negli arrangiamenti. A seguire si scorre rapidi sulle note esaltanti di “Down to the Wire” per poi proseguire sui ritmi più rocciosi di “Without You”. La cover di “Love Gun”, storico brano firmato Kiss, non esalta del tutto (fin troppo fedele all'originale) e così si arriva alla fine di un ascolto piacevole ma non così esaltante come avremmo sperato.
Manca un pizzico di estro ai Love In Chains, che comunque si affacciano al mercato con un disco più che onesto.
Ultimo aggiornamento: 13 Settembre, 2022
Top 10 opinionisti -
Che la Svezia sia la capitale dell'Hard Rock melodico da alcuni anni a questa parte è abbastanza palese; i Gathering Of Kings sono una di quelle band passate per certi versi un po' nell'ombra nonostante un grosso potenziale. In effetti non parliamo di un vero e proprio gruppo, ma più di un progetto – sulla scia di Tom Galley's Phenomena e Tobias Sammet's Avantasia – nato dalla mente di Ron e Nina Dahlgren che ad ogni release vede coinvolti diversi ospiti. Inoltre la scelta di non affidarsi ad una promozione tramite i soliti canali principali, come le solite etichette discografiche, ha reso i primi due dischi difficili da reperire. Una cult band quindi che solo i veri appassionati del genere hanno seguito fin dall'inizio.
"Enigmatic" è il loro terzo album in studio, un disco dove il peso del songwriting cade sulle spalle di Victor Olsson, il quale punta su sonorità ottantiane anche se supportate da una produzione più limpida e potente, tipica dell'era moderna. Nei tredici brani che troviamo si alternano alla voce cantanti di assoluto livello come Rick Altzi, Apollo Papathanasio, Tobias Jansson e Alexander Frisborg; un poker di singer di razza che interpretano alla grande song come la possente e melodica opener “Vagabond Rise”, la rocciosa “Here Be Dragons”, la powereggiante “Firefly”, l'iper-catchy “How The Mighty Have Fallen” con le sue sonorità vagamente folkeggianti e la ballatona malinconica “A Rainbow And A Star”. Il brano “ Feed You My Love”, ottimo esempio di AOR radiofonico con un assolo di tastiera che conquista, vede la partecipazione dell'intera band Pop svedese One More Time, che vede tra le proprie fila la popolare artista scandinava Nanne Grönvall, Maria Rådsten e Peter Grönvall, figlio dello storico tastierista degli ABBA, Benny Andersson. I ritmi medio-alti di “The Prophecy” colpiscono grazie ad un refrain arioso ed altamente canticchiabile, mentre tastiere Pop anni '70 conducono il perfetto mid-tempo “Clone Trooper”, che grazie a dei coretti ben assestati si erge ad uno dei migliori momenti dell'intero lavoro. Leggero calo nelle ultime battute prima della chiusura affidata alla melodica ed affidabile “Lionheart”.
Il disco funziona e fila via liscio, convincendo ascolto dopo ascolto grazie ad una tracklist sempre abbastanza coinvolgente; è tempo che i Gathering Of Kings raccolgano, anche fuori dai propri confini nazionali, i risultati del loro buon lavoro.
Ultimo aggiornamento: 11 Settembre, 2022
Top 10 opinionisti -
Da Barcellona con un impatto moderno e “in your face” arrivano i Dekta; fondati nel 2015, il gruppo della Catalogna miscela varie influenze tra passaggi ruvidi, spinti da chitarre possenti, a melodie vocali che cercano di avere subito un buon impatto. Dopo il debutto nel 2019 con un EP che ha avuto il compito di rompere il ghiaccio, ora è tempo del vero e proprio esordio con un full-length composto da nove brani ed intitolato “When Everything Burns”, disco autoprodotto ma professionale dal punto di vista sonoro. Il gruppo spagnolo mostra grinta e determinazione all'interno di composizioni dirette che non si perdono in fronzoli. Brani che spesso hanno una durata limitata (intorno ai 4 minuti ma in alcuni casi anche sotto i 3) e che viaggiano spediti alternando momenti più aggressivi, come nell'irruenta ed impetuosa “Amandla! Awethu!”, a passaggi volutamente più catchy come nel ritornello, anche un po' scolastico di “All I Want”.
Sono subito riff distorti ad aprire le danze con la vibrante title-track prima che voci filtrate e un tocco Industrial prendano il sopravvento grazie alle chitarre spaccaossa di “Untrully Savior” mentre a chiudere ci pensa l'Alternative Metal della più melodica “Dived”, che strizza l'occhio a band quali Alter Bridge e Soundgarden.
La dedizione non manca ai Dekta e alla loro proposta costruita su basi solide e possenti. Certo è che il gruppo fatica a creare interesse, colpa di soluzioni già sentite e risentite tante volte. I Dekta dovranno cercare di lavorare maggiormente su composizioni più dinamiche e melodie vocali in grado di colpire fin da subito. Ma sono giovani ed il tempo non manca al quintetto spagnolo!
Ultimo aggiornamento: 11 Settembre, 2022
Top 10 opinionisti -
Symphonic Metal dall'ambientazione fiabesca con cori possenti, orchestrazioni, ma anche riff e (rare) accelerazioni importanti; queste sono le caratteristiche del sound avvolgente che troviamo nel ritorno discografico dei Battlelore! Il gruppo si rimette in gioco dopo undici anni da quell'ultimo “Doombound” del 2011 svolgendo più che bene il proprio compito all'interno dei brani che vanno a comporre “The Return of the Shadow”; il problema, se così vogliamo definirlo, dei dischi come questo è che la personalità della band è abbastanza nascosta dietro passaggi che ci rimandano a cose già sentite da Epica, Nightwish e molti altri act dediti a queste sonorità. Bisogna altresì ammettere che il gruppo finlandese punta su evidenti atmosfere epiche e fantasy (ispirandosi ai testi del maestro Tolkien) che in qualche modo rendono la propria proposta anche abbastanza riconoscibile.
Si alternano le voci di Kaisa Jouhki, pulita e sognante, a quella aggressiva di Mykännen, nella possente "Chambers Of Fire", mentre le note più powereggianti e spedite di "Firekeeper" scorrono con sapienza spinti dall'ugola celestiale della cantante nordica. Passaggi estremi ma anche momenti più tranquilli e sinfonici si alternano durante “True Dragons”, mentre le note più ariose di “Homecoming” fanno da contraltare alla più cupa ed intensa “Elvenking”. Ad impreziosire l'uscita l'EP “Lost Lands”, posto nel finale, con “Avathar”, “Lost Lands” e “Caves of the Forgotten”, tre brani collegati tra loro che creano un finale interessante, maggiormente gotico e malinconico.
Manca qualche pezzo dall'impatto forte e deciso. Ci sono dei momenti che per molti ascoltatori potranno risultare fin troppo soporiferi per colpa di orchestrazioni fitte e melodie lente. Insomma “The Return of the Shadow” è un disco consigliato agli amanti delle sonorità più sinfoniche. Un viaggio fiabesco ispirato da Tolkien in questo ritorno discografico dei Battlelore!
Ultimo aggiornamento: 10 Settembre, 2022
Top 10 opinionisti -
Avete presente quei dischi che forse non inventano nulla e potrebbero anche puzzare di già sentito qua e là, ma che hanno un impatto fotonico che ti vien voglia di spararli a tutto volume dallo stereo? Ecco questo è “Rise of Chaos” dei Reeper! La band spagnola suona un Heavy Metal/Hard Rock moderno, spinto da una produzione bombastica, con melodie intense e subito capaci di infilarsi nel cervello. Insomma potenza e melodia a livelli elevati, il tutto miscelato attraverso un sound iper-moderno in cui l'ugola del frontman Erik Cruz, che usa degli effetti ma in generale possiede un approccio perfetto per queste sonorità, gioca un ruolo fondamentale.
Nati nel 2016, i Reeper debuttano nel 2021 con questo disco che oggi viene riproposto con un sound rivisto. Noi non conosciamo l'originale dato alle stampe lo scorso anno, ma possiamo dire che il risultato che ascoltiamo qui è davvero notevole. Prodotte da Travis Wyrick (P.O.D., Pillar, 10 Years, Nine Lashes) le tredici tracce che troviamo sono una vera e propria bomba sonora a partire da “Rebound”, corposa e catchy allo stesso tempo, al sound elettronico di “Save Me”, alla più emozionante e sentita “Home” - che presenta un ritornello che continuerete a cantare all'infinito – e poi le note aggressive della rapida e compatta “Living Fast”, nei suoi soli tre minuti di durata, ma in generale i brani firmati Reeper sono brevi e intensi. Chiaro-scuro con la ballata fin troppo prevedibile che risponde al nome di “Goodbye”, prima di ripartire sulle note Groove Metal di “Black Lucky Stone” e con gli arrangiamenti elettronici che colorano la dinamica “Firestone”. Una montagna di riff si erge sulle note della solida “Grave Damage” che chiude l'ascolto insieme alla meno convincente “Overcome”.
Se amate le sonorità moderne e potenti capaci di farvi agitare la testa in continuazione, ma allo stesso tempo ricche di melodie zuccherose ed altamente canticchiabili, cercate di far vostro “Rise of Chaos” dei Reeper!
Ultimo aggiornamento: 10 Settembre, 2022
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I finlandesi Existence Depraved debuttano via Art Gates Records con un lavoro in cui sono abbastanza riconoscibili le influenze nordiche all'interno di un Melodic Power Metal dalle tinte moderne che non disdegna partiture sinfoniche e qualche passaggio progressivo. Viaggiano spesso su ritmi spediti ricordando a tratti qualcosa dei Wintersun, con armonie di chitarre suonate a velocità elevate (con l'impatto deciso e convinto dell'opener “Endless Loop” e con la nordica e fredda “Blind Theories”), con tappeti di tastiere sempre ben presenti che si alternano a riff possenti (nel melodico e possente mid-tempo “Freezing Wind” e nell'oscura ed estrema “Solitary Star”).
Le nove composizioni che troviamo all'interno della tracklist mostrano ancora un pizzico di inesperienza – com'è normale che sia - ma ascolto dopo ascolto ci si accorge che il freno a mano che trattiene questi brani dal loro reale potenziale è la voce del singer e leader della band, tale Toni Tieaho. Se il buon Toni si limitasse a scrivere i pezzi e suonare le sei corde del suo strumento, probabilmente staremo parlando di ben altri risultati per questo debutto. Invece si cimenta al microfono dove fatica all'inverosimile. La sua voce roca e inespressiva prova a muoversi sulle linee vocali senza portare a casa alcun risultato positivo (anzi a tratti diventa quasi insopportabile). Ed è un vero peccato perché il potenziale della band è elevato visto che i vari elementi che vengono inseriti nelle composizioni riescono a trovare un certo equilibrio, creando composizioni varie. Consiglio ai quattro componenti del gruppo (e ai loro amici) di tappezzare di annunci ogni giornale e sito internet dedicato con annunci alla ricerca di un vero cantante, perché solo così la carriera degli Existence Depraved potrebbe prendere una svolta positiva.
Ultimo aggiornamento: 07 Settembre, 2022
Top 10 opinionisti -
Difficile nascondere che esisteva una certa attesa nel ritrovare i Dreamtide, band nata da una costola dei grandissimi Fair Warning e che diede alle stampe tre dischi di buon livello (“Here Comes The Flood”, “Dreams For The Daring” e “Dream and Deliver” ) prima di concedersi una lunga pausa. Il leader e fondatore Helge Engelke è un chitarrista di gran livello e, con l'aiuto di alcuni buonissimi musicisti ad accompagnarlo, è pronto a tornare dopo ben quattordici anni di assenza.
“Drama Dust Dream” è un lavoro che segue le sonorità a cui ci avevano abituati in passato; un suono corposo accompagnato dai soliti assoli esplosivi firmati dal chitarrista tedesco e melodie incisive; le dodici tracce che compongono il disco sono senza dubbio mature ed ispirate come dimostra subito in partenza “Stop Being Deep”, brano roccioso e possente. Ma è con la successiva “Spin” che si respira quell'atmosfera tipica anche dei Fair Warning con mister Hengelke che confeziona i suoi classici assoli taglienti e melodici che uniti a dei coretti raffinati, aiutano ad ottenere un brano decisamente convincente. E' già tempo di ballata con le note intense di “Around” dove la voce calda di Olaf Senkbeil colora un pezzo che funziona. Una breve pausa con la strumentale “Ni Dos Ni Agua” prima di tornare a schitarrare sulle sonorità robuste di “All Of Us” e ancora sulle note limpide ma grintose della solida “Drop The Curtain”. Altra breve intro prima di rimettersi in pista con le melodie dolci e raffinate della lenta “For The Fairies” ed il suo tocco Blues, per chiudere poi con i ritmi scatenati di “Leisure Saints”, senza dubbio tra i momenti più elettrizzanti del disco.
Manca qualche autentica hit all'interno di un lavoro maturo e certamente ben suonato, ma che forse fatica proprio conquistare fino in fondo. Un ritorno quindi valido per i Dreamtide, anche se si poteva sperare in qualcosa di ancora più convincente.
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