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Opinione scritta da Ninni Cangiano

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    19 Ottobre, 2024
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Inizio questa recensione scusandomi con la band ed i suoi fans per il ritardo con cui arriva, ma recensire in streaming è quanto di peggio e complicato ci possa essere per chi, come il sottoscritto, trascorre la maggior parte della propria giornata fuori casa e devo solo ringraziare un amico se sono riuscito a farcela; roba che, se tutte le labels ragionassero a questa maniera, verrebbe voglia di smettere e chiudere immediatamente la webzine! Dopo questa doverosa precisazione, veniamo a “Spread your wings”, settimo full-length dei milanesi Drakkar, gruppo ormai attivo da quasi 30 anni e diventato nel tempo una sorta di garanzia di qualità per il power metal nazionale. L’album, uscito a fine settembre, è composto da 9 tracce per una durata totale di circa ¾ d’ora, segno che ogni pezzo è conciso ed efficace (compresa la notevole suite finale “Ancestral river”, in cui si apprezza un Simone Pesenti Gritti da brividi!). Il songwriting ormai in casa Drakkar è consolidato da tempo ed il leader Dario Beretta sa esattamente cosa vogliono ascoltare i fans e regala loro ogni volta qualcosa di estremamente valido. Devo dire che, in questo caso, i vari brani non sono proprio così immediati, ma crescono ascolto dopo ascolto; sarà che non ho mai amato la voce di Davide Dell’Orto che trovo sporca e magari più adatta all’hard rock (ascoltatelo nella ballad bonjoviana “Stand by you” e parliamone!), ma solo dopo aver ascoltato l’album più volte ho iniziato ad apprezzarlo come merita; non a caso la mia preferita è la strumentale “Ode to Polaris”…! Canzoni comunque valide ce ne sono in quantità, dalla già citata suite finale “Ancestral river” (in cui ci si rende conto di cosa sarebbero i Drakkar con uno stile canoro pulito e non così aggressivo!), passando per l’accoppiata iniziale composta dalla title-track e da “Thunderhead”, o per la ruffiana “A man in black”, ma è comunque tutto il disco a farsi apprezzare nella sua interezza, sia per il livello qualitativo fuori dal comune che per l’energia che sprizza, sempre comunque affiancata da un ottimo gusto per le melodie. Inutile dilungarsi oltre, mi pare ormai assodato che i Drakkar hanno ancora una volta fatto centro e questo “Spread your wings” finirà sicuramente tra le migliori uscite in Italia del 2024 in campo power metal.

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    19 Ottobre, 2024
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A due anni di distanza dall’ottimo “Elements of power”, tornano a farsi sentire gli svedesi Veonity con un nuovo album intitolato “The final element”, dotato di splendido artwork realizzato da Alvaro Valverde (anche al lavoro con Elvenking, Verikalpa ed altri). Il full-length è composto da 10 pezzi (compresa una piacevole intro), per una durata totale di poco sotto ai ¾ d’ora, ed è stato registrato in maniera esemplare da Ronny Milianowicz (Shadowquest) negli Studio Seven. Si tratta del primo disco con il nuovo cantante, l’ex-Lancer Isak Stenvall, che da sempre mi ricorda alquanto Joacim Cans. E proprio questa similitudine finisce per influire sul sound dei Veonity che, soprattutto nella parte centrale della tracklist, assomiglia tantissimo ai migliori Hammerfall; prendete “Warriors code” e ditemi se il suo coro non ricorda un sacco la mitica “Heeding the call”, oppure “Riders of the revolution” se non ricorda una delle tante canzoni cadenzate degli Hammerfall, quasi si trattasse di una sorta di tributo al gruppo di Oscar Dronjak & C., da cui i Veonity hanno tratto evidentemente abbondante ispirazione. A parte queste evidenti similitudini, per il resto il sound della band si muove su un classicissimo power metal di scuola teutonico-scandinava, molto veloce e ricco di melodie, che si lascia ascoltare e ri-ascoltare in maniera estremamente gradevole, a patto di essere fans di queste sonorità ed evitando discorsi futili su originalità ed innovazione. Canzoni come “Carry on” (non ho mai trovato brani con questo titolo che non fossero piacevoli!), l’opener “Chains of tyranny”, oppure la velocissima “Powerstone”, sono ottimi esempi del livello qualitativo molto elevato raggiunto dal gruppo di Vänersborg. Tutti i musicisti si distinguono in positivo, contribuendo alla riuscita eccellente di questo disco, ma permettetemi una citazione per il batterista Joel Kollberg che con il suo strumento impone ritmi forsennati e si dimostra un mostro dietro le pelli, di sicuro tra i migliori al mondo nello specifico settore musicale! Tirando le somme, se sorvoliamo sugli evidenti richiami agli Hammerfall, questo “The final element” è un ottimo disco e conferma i Veonity su livelli di eccellenza…. E lasciatemelo dire: ma magari gli Hammerfall sapessero comporre ancora musica del genere!

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    12 Ottobre, 2024
Ultimo aggiornamento: 16 Ottobre, 2024
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Dopo quasi quindici anni (ben oltre, se contiamo anche il periodo in cui si chiamavano The Dragonslayer Project) di carriera, gli austriaci Dragony, guidati dall’espressivo e capace vocalist Siegfried Samer e dal bassista Herbert Glos, tornano a farsi sentire con il loro quinto album “Hic svnt dracones”, composto da dodici brani (bonus track compresa) per quasi 56 minuti di durata. Come tradizione per la band viennese, il sound è un Power Metal molto melodico ed orecchiabile con forti influssi sinfonici e sostanzialmente non ci sono particolari novità rispetto a quanto ascoltato quattro anni fa in “Viribus unitis”. Diciamo che le due novità principali sono i cambi di line-up, con il chitarrista russo Mat Plekhanov che ha preso il posto di Andreas Poppernitsch ed il batterista Christoph Auckenthaler arrivato al posto di Frederic Brünner. C’è poi un’altra differenza rispetto al precedente disco, ma questa volta in negativo: le tastiere! Spesso e volentieri, infatti, Manuel Hartleb tende ad esagerare ed il suo strumento sembra diventare un giocattolino per bambini (quelle belle tastierine della Bontempi!) con un suono che non entusiasma per niente; questo accade soprattutto nella seconda parte dell’album, in canzoni come “Perfect storm”, e soprattutto nell’accoppiata “Twilight of the Gods” e “Beyond the rainbow bridge”, con quest’ultima che viene letteralmente rovinata dalla tastiera, perché altrimenti sarebbe un gran bel pezzo. Non tutte le tracce hanno, quindi, lo stesso livello qualitativo ed alcune, pur essendo valide, non fanno impazzire, tipo la sinfonica “Ill met by moonlight” (errore di scrittura? Sembrerebbe mancare un apostrofo all’inizio…) che soffre di una certa ripetitività. Ciò nonostante, i brani scorrono via e si lasciano ascoltare anche piacevolmente, compresa l’intro “From the new world (1584)” che è tratta dalla famosa nona sinfonia di Dvorak. Tirando le somme, è solare che questo “Hic svnt dracones” è piacevole da ascoltare ma, a livello qualitativo, siamo un gradino sotto al suo predecessore; ciò nonostante, i Dragony si confermano su livelli superiori alla media e sono sempre più una garanzia in campo Power Metal… per la prossima volta, speriamo solo che ci siano meno tastierine e più chitarroni!

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    12 Ottobre, 2024
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Avevo conosciuto ed apprezzato gli emiliani Aether Void nel 2019, all’epoca del loro debut album “Curse of life”, uscito per la Revalve Records; li ritrovo a 5 anni di distanza con un secondo full-length per il quale sorprendentemente sono stati costretti all’autoproduzione. “Of rage and grief”, questo il titolo, è composto da 9 pezzi per la durata totale di circa 42 minuti ed ha un artwork alquanto aggressivo (a differenza di quanto realizzato per il primo album), con una specie di demone incatenato in una chiesa. Parlavo di sorpresa per l’autoproduzione, dato che il precedente lavoro era stato tra i migliori dischi in assoluto usciti in quell’anno e, con quelle premesse, è strano che per questo secondo album non ci sia stata una label a proporre al gruppo un contratto decente. E chi non l’ha fatto, sappia che ha perso l’occasione di rilasciare un album con i controfiocchi, ancora migliore del predecessore e, di sicuro, fra i migliori 3-4 dischi in assoluto di questo 2024! Già, perché questo è un album di quelli memorabili, un disco in cui non c’è nemmeno una nota che non funzioni alla perfezione, un cd di quelli che non si possono non avere nella propria collezione, un full-length di fronte al quale bisogna solo mettersi in religioso silenzio all’ascolto, facendosi catturare dalla Musica con la “M” maiuscola che solo in pochi, pochissimi sanno realizzare! E’ il primo disco con il nuovo bassista Giovanni Bergianti (che ha preso il posto di Bruso), ma soprattutto con il nuovo frontman Alfredo Pellini, cantante da brividi (ascoltatelo in “No tomorrow” e poi ditemi…), che non fa rimpiangere assolutamente il pur validissimo Thore e che ha contribuito con una prestazione eccezionale all’ottima riuscita finale di questo disco! Già dall’opener “Crucified” (intelligentemente scelta per la realizzazione di un video) si può comprendere il notevole valore di quanto realizzato dagli Aether Void, ma è andando avanti con la scaletta che si rimane letteralmente a bocca aperta… se poi vi sparate in una buona cuffia a volume adeguato i vari pezzi, allora vi si aprirà l’orizzonte e potrete comprendere il livello qualitativo superlativo raggiunto da questo gruppo. Se dovessi citare una canzone preferita sarei in estrema difficoltà, così di getto direi la splendida “Ungrateful” che, in un certo senso, mi ha ricordato i primi fantastici Spellblast. (forse anche per il fatto che lo stile di Pellini mi ha ricordato quello del compianto ed indimenticabile Jonathan Spagnuolo) La batteria di Albi è splendida protagonista, le due chitarre di Bond (solista) ed Erik (ritmica) sono incredibili, supportate alla grandissima dal pulsare del basso… il cantato poi è estremamente espressivo, aggressivo quando serve, ricco di energia e qualità fuori dal comune. Inutile andare avanti con la recensione, davanti a questo heavy metal moderno, ma anche estremamente legato alla tradizione, con un’attenzione direi quasi maniacale per la melodia e la potenza, c’è solo da fare i complimenti agli Aether Void, sperando che continuino a lungo a regalarci perle di splendore e qualità assolute come questo “Of rage and grief”!

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    05 Ottobre, 2024
Ultimo aggiornamento: 05 Ottobre, 2024
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Devo ammettere che non conoscevo i canadesi Antioch, gruppo dell’Ontario attivo da una decina d’anni e con alle spalle una serie di EP e quattro full-length, prima di questo “Antioch VII: Gates of obliteration”. L’album ha un artwork molto old school ed è composto da otto canzoni per oltre 43 minuti di durata totale; è stato rilasciato a fine settembre dalla tedesca Iron Shield Records, ormai una specie di garanzia per quanto riguarda le sonorità old school. Già, perché anche gli Antioch suonano un Heavy Metal ispirato alla vecchia scuola, con forti echi di King Diamond e Judas Priest e qualche tocco di US Power. Nulla di nuovo sotto questo cielo quindi, ma qualcosa comunque anche godibile, a patto di non andare a cercare innovazione o originalità, dato che sembra siano vocaboli sconosciuti al trio canadese; loro suonano la musica che amano, fottendosene altamente di mode o modernità. L’ago della bilancia è la voce di Nicholas Allaire, sporca, roca ed isterica che, nel bene e nel male, contraddistingue il sound della band; deve piacervi un certo tipo di singer aggressivo ed arrabbiato che non bada ai virtuosismi, ma urla la sua grinta praticamente senza soluzione di continuità (forse nella sola “Tired of fire” si modera un attimo) evidenziando però dei limiti notevoli sulle note alte; personalmente non apprezzo questo tipo di cantanti, ma è questione di gusti personali che, in quanto tali, sono sempre ampiamente opinabili. Il songwriting non è fatto male, ma tre canzoni su otto che superano abbondantemente i 6 minuti di durata sembrano un po’ troppe e forse la band avrebbe dovuto fare maggior attenzione all’efficacia dei propri componimenti e dare qualche ulteriore sforbiciata qua e là, evitando inutili ripetitività ed in modo da aumentare la fruibilità e l’attrattiva dei vari brani. Ciò nonostante, i vari ascolti dati a questo disco, anche grazie ad una produzione di buona qualità, sono stati sempre gradevoli, a patto di amare (come il sottoscritto) certe sonorità “vintage”. Gli Antioch non passeranno mai alla storia dell’Heavy Metal, ma questo “Antioch VII: Gates of obliteration” è un disco che strappa una sufficienza ampiamente meritata.

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    05 Ottobre, 2024
Ultimo aggiornamento: 05 Ottobre, 2024
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A cinque anni di distanza dal buon debut album “Vice world”, tornano i tedeschi Turbokill con un secondo full-length, intitolato “Champion”, dotato di piacevole artwork e composto da dodici tracce (compresa la solita inutilissima intro), per una durata totale di quasi 54 minuti. La proposta musicale sostanzialmente non è variata, anche se dobbiamo registrare una certa virata verso sonorità più vicine al Power a discapito (fortunatamente) dalle contaminazioni hardrockeggianti che si sentivano ogni tanto in passato. Certo, qualcosa c’è ancora, come nella title-track (alquanto banale e ripetitiva), o nella lenta “Shine on” (che forse soffre di eccessiva lunghezza e con un paio di minuti in meno avrebbe avuto un migliore funzionamento), che costituiscono i pezzi meno riusciti dell’album, ma fortunatamente la maggior parte dei brani sono più robusti e di migliore qualità. Prendiamo l’eccezionale opener “A million ways”, o l’ottima “Wings of the thunder hawk” come fulgidi esempi, tanto che se tutto l’album fosse a questo livello qualitativo fuori dal comune, staremmo qui a parlare di un discone, di quelli da non perdere assolutamente! La voce del buon Stephan Dietrich è sempre squillante e potente, ma anche espressiva, come il genere impone; le due chitarre di Ronny Schuster e Daniel Kanzler sono splendide protagoniste, con quest’ultimo che regala anche ottimi assoli, mentre il basso di Marco “Fox” Grünwald si fa sentire eccome, non rimanendo praticamente mai relegato al ruolo di comprimario. Questo è anche il primo album con il nuovo batterista Kevin Käferstein che ha preso tempo fa il posto di Philipp “Nafta” Dießl e che, detta sinceramente, non lo fa assolutamente rimpiangere, grazie anche ad un ottimo uso della doppia cassa. Ho ascoltato più e più volte con grande piacere questo disco e devo dire che i Turbokill sono migliorati in maniera evidente; c’è ancora qualcosa che poteva essere fatto meglio in questo “Champion”, ma ci troviamo davanti comunque ad un album decisamente piacevole, soprattutto per chi ama sonorità Heavy/Power.

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    29 Settembre, 2024
Ultimo aggiornamento: 29 Settembre, 2024
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I Mechanic Tyrants nascono a Norimberga nel 2021 ed arrivano in questi ultimi giorni di settembre 2024 al loro debut album, intitolato “St. Diemen riots”, uscito per la svedese Jawbreaker Records. Il full-length è composto da dieci pezzi, per una durata totale di circa 43 minuti, è registrato egregiamente (anche se almeno il rullante della batteria non mi convince del tutto) e, a livello di testi, ci troviamo davanti ad una sorta di concept che parla, almeno in parte, della città di Meanhattan (scritta proprio così, con evidenti richiami alla reale Manhattan), del caos e della violenza che la contraddistingue e di tutti i conflitti, sociali e non, che ci sono. I Mechanic Tyrants partono da una base di Speed Metal con forti richiami al buon vecchio Thrash di scuola americana, specie della East Coast (Overkill ed Anthrax su tutti). Sono protagoniste del sound con riff assassini ed assoli molto veloci le due chitarre di Jakob Struve e Florian Fait, con quest’ultimo che se la cava egregiamente anche come cantante, pur nei limiti concessi dal genere. Tra i brani dell’album c’è anche una bellissima breve strumentale (“Madrugada”), esattamente come si usava fare in tanti album Thrash degli anni ‘80/primi ’90. Ecco, è proprio quello l’arco temporale a cui i tedeschi si ispirano per il loro sound ed anche per il loro outfit, incuranti di mode ed originalità (vocaboli che credo ignorino volutamente), ma dediti a suonare solo e soltanto la musica che amano, con lo stesso look che avevano i loro idoli tanti anni fa. E già solo per questo ritengo meritino il massimo rispetto, perché fottersene del tempo che passa è un’ottima medicina per la mente e per dimenticare i problemi che ognuno di noi ha (più o meno) nella vita di tutti i giorni! Se poi ci aggiungiamo una musica piacevole e ricca di energia e grinta come quella che ho ascoltato in questo LP, allora il quadro è indubbiamente completo. Non mi addentro oltre nell’analisi dei singoli brani che, bene o male, si somigliano un po’ tutti quanti a livello strutturale (tranne la predetta breve traccia strumentale), basti sapere che non ci sono fillers di sorta, o cali di qualità e passaggi a vuoto; tutto fila come si deve ed è stato un piacere ascoltare e riascoltare questo “St. Diemen riots” che consente ai Mechanic Tyrants di ottenere un risultato più che lusinghiero. Se amate lo Speed Metal, non esitate a far vostro questo disco!

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    28 Settembre, 2024
Ultimo aggiornamento: 29 Settembre, 2024
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Sono ormai dieci anni che i Serious Black sono sulla scena e festeggiano l’anniversario con il loro settimo album, intitolato “Rise of Akhenaton”, dotato di splendido artwork naturalmente ispirato allo storico faraone dell’antico Egitto. E’ anche il secondo disco con il talentuoso cantante serbo Nikola Mijic, che ricorda tantissimo il nostro Ivan Giannini (5 minuti di vergogna per chi non conosce questo vocalist italiano!); provate a sentirlo nell’ottima opener “Open your eyes” e poi ditemi se il suo stile non ricorda parecchio quello del cantante dei Derdian e dei Vision Divine! Sui vari musicisti che fanno parte del gruppo ritengo inutile soffermarsi particolarmente, dato che tutti sono estremamente esperti e navigati, avendo fatto parte e facendo ancora parte di altre numerose bands; basta solo dire che anche a livello strumentale, oltre che canoro, siamo su alti livelli. Di ottima qualità anche la produzione affidata a quel mostro sacro di Bob Katsionis, che ha affiancato il leader Mario Lochert. Ma allora perché solo una sufficienza? Quello che non mi ha convinto in questo album (seguo i Serious Black sin dai loro esordi!) è il songwriting: ci sono alcune canzoni fin troppo melodiche e che non convincono, anche per ritmi alquanto blandi (per non dire “mosci”). Mi riferisco, ad esempio, ad “I will remember” che è un pezzo Rock che potrebbe ben figurare in un disco dei Toto o dei Survivor, ma anche in uno di Bon Jovi, non di certo in uno di un gruppo Power Metal! Anche l’altra ballad “When I’m gone” non convince più di tanto, così come qualche altro brano un po’ più melodico come “Silent angel”. Per fortuna ci sono pezzi vincenti, come la già citata opener, oppure l’accoppiata “United” (molto Freedom Call) e “Rise of Akhenaton”, fino alla conclusiva “Metalized” che rialzano le sorti del disco. Dispiace dirlo ma in questo “Rise of Akhenaton”, i Serious Black sono andati troppo a corrente alternata e non sono riusciti a realizzare un album totalmente convincente, come invece accaduto in passato.

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    28 Settembre, 2024
Ultimo aggiornamento: 28 Settembre, 2024
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Seguo i Grimgotts da tanti anni ed ho sempre apprezzato il loro sound, un Symphonic Power con diversi richiami al Folk ed, in genere, alla parte più “happy” del genere In questi giorni è uscito, grazie alla romana Elevate Records, il loro terzo full-length (il quarto contando la compilation “Tales, sagas & legends” del 2021), intitolato “The time of the wolfrider”, sorta di concept che racconta l'epica avventura di un eroe che combatte streghe e licantropi nella terra mitica di Andria (immagino non ci sia nessun riferimento alla meravigliosa cittadina pugliese nel cui territorio c’è il mitico Castel del Monte). L’album è composto da dieci pezzi per una durata totale di quasi 57 minuti, segno che alcuni brani hanno durate “importanti”; il songwriting, infatti, ogni tanto ne risente in termini di efficacia, soprattutto quando ci sono lunghe parti parlate (come, ad esempio, nella prima e nella terza traccia) che saranno anche importanti per il concept, ma appesantiscono non poco l’ascolto. Emblematica, in tal senso, la terza canzone “Darkwood”, che è divisa in tre diversi movimenti, ma ha una durata eccessiva, accompagnata ad un ritmo non sempre brillante, il che la rende di complessa assimilazione. Diciamo che, a differenza di quanto accaduto in passato, l’album non è così immediato ed easy-listening e ci sono tracce che funzionano peggio di altre; tra queste citerei ad esempio “Wings of wonder” che ha delle parti in growling che non entusiasmano per niente (anche qui, però ci sono le necessità del concept da accettare, come accade anche nella prima traccia), oppure l’altra lunga “Return to the sea” che decolla a fatica. Alcune canzoni, inoltre, è come se avessero delle intro al loro interno e non vanno subito al sodo, perdendo in efficacia. Di contro, ci sono canzoni semplicemente strepitose, come la folkeggiante e divertente “Swallowed by darkness” (di gran lunga la migliore del disco e, guarda caso, anche la più breve) che non ci si stanca mai di ascoltare e rimanda a gente come Spellblast (quelli dei primi due fantastici dischi) ed Elvenking, ma anche la solenne “The rise of the wolfrider”, l’ottima opener “An amber dawn” (dopo il primo minuto) o la conclusiva “Lord of the battle” che a tratti ricorda l’Happy Metal dei Freedom Call. Da segnalare infine che si tratta del primo disco con il nuovo bassista Jack Stanley, che ha preso il posto di Nelson Moreira. Come detto, questo album è il meno immediato della carriera dei Grimgotts e necessita di diversi ascolti prima di essere assimilato pienamente; non tutti i pezzi di “The time of the wolfrider” hanno però lo stesso livello qualitativo e questo dato abbassa il risultato finale, che comunque resta più che positivo.

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    22 Settembre, 2024
Ultimo aggiornamento: 22 Settembre, 2024
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Circa una ventina di anni fa, sulla scia del successo dei Lacuna Coil, in Italia sono nate un sacco di Gothic Metal bands con voce femminile che hanno anche realizzato dischi davvero notevoli, facendo poi perdere le proprie tracce con il passare del tempo; mi riferisco, ad esempio, ai milanesi Macbeth, oppure ai baresi Godyva, ma anche agli udinesi Tystnaden. Questi ultimi, dopo ben dodici anni di silenzio dall’ultimo album e con una serie di cambi di formazione, sono tornati a farsi vivi in questo mese di settembre 2024 con un nuovo full-length intitolato “The black swan”, dotato di splendido artwork, composto da dodici tracce (compresa l’immancabile inutilissima intro) per una durata totale di circa 3/4 d’ora. Parlavamo prima di cambi di formazione: accanto al leader Cesare Codispoti ed al fido batterista Alberto Iezzi, sono arrivati ormai da qualche anno il bassista Stefano Galioto e la chitarrista Giulia Coletti, ma soprattutto è tornata la carismatica cantante Laura De Luca. Il sound è fortunatamente rimasto ancorato al passato, a quel meraviglioso Gothic con qualche breve tocco sinfonico che da sempre contraddistingue la musica della band friulana; c’è qualche accenno di Modern Metal, soprattutto sul groove delle chitarre, e qualche effetto sulla voce sempre splendida della rossocrinita singer, ma si tratta di brevi tratti che non incidono assolutamente sul risultato finale (contrariamente a quanto accade per bands più blasonate, ormai rovinate irreversibilmente). E l’esito è appunto estremamente positivo, dato che ho potuto ascoltare undici canzoni decisamente gradevoli, ben fatte, efficaci e convincenti (il songwriting è di ottima qualità), oltre che ricche di quelle atmosfere romantico-decadenti che fanno del Gothic un genere estremamente particolare, quanto affascinante, intrigante e seducente. Doveroso infine un accenno ai testi: il titolo dell'album è un omaggio al saggio di Nassim Nicholas Taleb che tratta del forte impatto di alcuni avvenimenti rari e imprevedibili e della tendenza umana a trovare retrospettivamente spiegazioni semplicistiche di questi eventi, appunto conosciuta come "la teoria del Cigno Nero". Anime oscure del Metal, chiudete il mondo fuori dalla porta, isolatevi con delle buone cuffie, alzate il volume e fatevi inondare la mente dalle note di questo “The black swan” che vi trascinerà nel mondo dei Tystnaden, una band che ha raccolto decisamente molto poco di quello che merita, per talento e qualità della musica! Ed ora speriamo di non dover attendere altri dodici anni…

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