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Opinione scritta da Luigi Macera Mascitelli

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    03 Ottobre, 2022
Ultimo aggiornamento: 03 Ottobre, 2022
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Il Black Metal è probabilmente - gusti personali a parte - il genere che più di tutti riesce a penetrare in profondità nell'animo umano e a portare a galla sentimenti, emozioni e stati d'animo molto spesso ritenuti perfino innaturali. Soprattutto i filoni più moderni del genere, in particolare Post-Black e Blackgaze, si concentrano maggiormente sulla potenza evocativa della musica combinando la cruda ferocia del genere con una disperata quanto languida e triste melodia. Questo ossimoro apparentemente insolubile è invece fonte di tanta, tantissima pelle d'oca, poiché diventa persino indescrivibile il ventaglio di sensazioni che si riescono a provare. Ecco, gli austriaci Ellende, one man band creata dal mastermind L.G. undici anni fa, riescono perfettamente in questo intento proponendoci una musica che negli anni è diventata sempre più riconoscibile e stratificata tanto che, ad oggi, assieme ai loro connazionali Harakiri For The Sky possono essere considerati tra le più importanti realtà del Post-Black Metal. A testimonianza di quanto affermato subentra "Ellenbogengesellschaft", quarta meravigliosa opera firmata Lukas Gosch e probabilmente la più bella, stratificata ed emotivamente potente di tutta la sua carriera. Mai ci saremmo potuti aspettare un qualità di questa portata, considerando anche lo strepitoso lavoro svolto con i capitoli precedenti. Eppure il buon L.G. è riuscito nell'intento di regalarci un viaggio ultraterreno nel quale la tristezza, la gioia, l'amore, l'odio, la disperazione e la spensieratezza si uniscono in un solo piano esistenziale senza che ogni singola componente si possa riconoscere. "Ellenbogengesellschaft" è esattamente quel tipo di album che metti in cuffia al buio o quando passeggi nei boschi e vuoi isolarti completamente dove nessuno può vedere le lacrime uscirti dagli occhi. Non è un caso, tra l'altro, che nel brano "Ruhelos" sia presente proprio il vocalist degli Harakiri For The Sky, come a voler testimoniare che le due realtà siano imprescindibili nel bagaglio culturale di chi ama questo genere. Andando più in profondità in questi 50 minuti di ascolto, possiamo notare come la musica degli Ellende tenda ad avere sempre quella vena più morbida e meno spigolosa; lavoro reso possibile dalla costante presenza del pianoforte e delle tastiere che alleggeriscono la sferzata morente delle chitarre. Di contro queste ultime ci offrono uno spettro compositivo notevole: dall'incanto degli arpeggi alla teatralità dei riff più dal sapore Black fino alle struggenti melodie in acustico... Una potenza evocativa che raramente la s'incontra in un disco, soprattutto se è sempre costante quel sapore Progressive che dà all'ascolto il suo fascino ipnotico ed imprevedibile, come se da un momento all'altro ti aspetti un determinato passaggio, ma poi ne giunge un altro. Ecco, giocando su questo mood altalenante L.G. è riuscito ad imbastire un'opera d'arte di una bellezza indescrivibile nel quale la struggente tristezza di sottofondo fa da contraltare ad un'eleganza e teatralità quasi regali. Eppure ciò che resta alla fine è l'angoscia d'aver concluso il viaggio, colmi di lacrime e con la voglia di ripeterlo ancora e ancora in un loop infinito nel quale poter scorgere le infinite sfaccettature che gli Ellende hanno da offrirci. E forse è questa la capacità più grande che va riconosciuta alla band: l'estrema eterogeneità che, tuttavia, punta sempre e comunque verso un'unica direzione, come un veliero distrutto che continua incessante verso la sua rotta...la bellezza del nulla. Complimenti!

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    03 Ottobre, 2022
Ultimo aggiornamento: 03 Ottobre, 2022
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Atmosfere tetre, freddo glaciale, voce mortifera ed eterea come un'eco lontana... la morte come qualcosa di tangibile e non ultraterreno. Temi che, presi in assoluto all'interno di un disco potrebbero tranquillamente non suscitare chissà quale clamore; soprattutto se si parla di Black Metal. Tuttavia non è tanto il cosa, quanto il come queste tematiche vengano proposte a fare la differenza tra un lavoro mediocre o nella media ed un capolavoro. Ecco, oggi siamo - fortunatamente - in quel rarissimo secondo caso con il qui presente "Lagu": quarto album dei francesi Caïnan Dawn che, senza giri di parole, sono tra le migliori band a proporre un certo tipo di Black Metal. Degni eredi del collega d'Oltralpe Esoctrilihum, i Nostri portano in musica qualcosa di estremamente sfuggente: un mix di sperimentazioni, sferzate Avant-garde e sfuriate Raw sorrette da una maligna quanto ben percepibile atmosfera di sottofondo che eleva il tutto su di un altro piano esistenziale. Forse l'unico aggettivo per descrivere "Lagu" è "ipnotico"; a cominciare dalla copertina che ritrae un vasto oceano al crepuscolo, come a voler dare all'ascoltatore un'idea già visiva di quanto andrà ad ascoltare: la pura contemplazione della morte nella sua forma più concreta e tangibile. Non si tratta, dunque, di un semplice viaggio astrale verso dimensioni lovecraftiane dove il terrore ed il male inghiottono ogni cosa. O meglio, non è solo questo. Nove tracce complesse, stratificate, maligne come delle litanie dimenticate nelle quali l'arte, la follia, l'eleganza e la morte danzano all'unisono portando lo spettatore in una sorta di trance uditivo dal quale si esce cambiati; forse più consapevoli della caducità della vita. A generare questo mortale flusso velenoso contribuisce un songwriting che sa essere scarno negli intenti ma estremamente stratificato nella sua esecuzione: ad un primo ascolto la musica dei Caïnan Dawn è fredda, resa tale dalle chitarre mortifere ed estremamente pungenti. Ma andando avanti ci si rende conto come questa sia solo la punta dell'iceberg. Minuto dopo minuto il comparto strumentale si apre mostrando costanti cambi di mood: arpeggi, tremolo, parti cadenzate... il tutto, ripetiamo, poggiante su uno spesso strato di nebbia morente dato dalle atmosfere e melodie di sottofondo che danno ai riff la nota spettrale ed elegante che rende "Lagu" il capolavoro che è; sicuramente superiore al già praticamente perfetto "F.O.H.A.T." del 2017. Questo, in definitiva, è uno di quei casi in cui è veramente impossibile riuscire a darvi un'idea di siffatta opera con le parole, semplicemente perché ogni orpello fisico sembra sgretolarsi di fronte alla bellezza del nulla che questo disco porta alla luce. Esattamente come Caronte porta Dante negli abissi più profondi dell'inferno, allo stesso modo i Caïnan Dawn con la loro spettrale bellezza trascinano per quasi un'ora di tortura e morte l'ascoltatore.

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    29 Settembre, 2022
Ultimo aggiornamento: 29 Settembre, 2022
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Giunge al suo sesto album con "Earth Penetration" la one man band finlandese Hail Conjurer, side project di Harri Kuokkanen, già vocalist degli Hooded Menace. Un disco, questo, che si configura come un'opera alquanto originale e sui generis. Se vi aspettavate il classico Black Metal finnico o comunque un genere tutto sommato riconoscibile entro certe coordinate, allora siete proprio fuori strada. Quella che andrete ad ascoltare una volta premuto il tasto "play" è una vera e propria tortura mentale: un mix allucinogeno e mortifero di Black Metal, Noise, Ambient, Doom Metal, urla, litanie... il tutto volutamente registrato in maniera scarna e scheletrica per dare maggior risalto alle chitarre zanzarose e al senso di smarrimento e morte che si respira per 35 minuti circa. Insomma, quella messa in musica da Mr. Kuokkanen è una blasfema orgia in cui lo sporco e il marcio si mischiano alla malattia mentale, riuscendo così a darci in pasto un disco che è Black Metal nelle intenzioni ma Doom - in senso lato ovviamente - nell'esecuzione. Potreste scorgere elementi degli ultimi Darkthrone, così come la vena Raw dei colleghi di casa Behexen o quel frangente dal sapore sperimentale dei Ride for Revenge; o, infine, quel tocco liturgico tipico dei Batushka e la vena Ambient degli ultimi lavori di Burzum. In ogni caso è evidente come il lavoro svolto solo in apparenza risulta caotico e senza senso; tuttavia riconosciamo come Hail Conjurer sia un ascolto tutt'altro che facile, dove la perdita del focus è sempre dietro l'angolo se non ci si concede quella mezz'ora di tranquillità per poter apprezzare ogni elemento dell'album. Da qui, dunque ne traiamo la conclusione che questo "Earth Penetration" sia un'opera veramente complessa e, spesso, così eterogenea da risultare quasi riduttivo inquadrarla in un filone musicale ben preciso. Quindi di certo non si tratta di un lavoro universalmente fruibile, ma qualcosa che si rivolge ad un pubblico piuttosto esigente o mentalmente aperto. A parte le tastiere mortifere, il senso claustrofobico e la malatissima voce dell'artista finlandese, non troverete altri punti di riferimento qui, se non l'angoscia di una lenta tortura che spegne ogni singolo barlume di vita.

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    23 Settembre, 2022
Ultimo aggiornamento: 23 Settembre, 2022
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Che i Venom Inc. fossero diventati nettamente superiori agli storici Venom del mastermind Cronos lo si era già intuito nel 2017. Proprio in quell'anno la band capitanata da Tony "Demolition Man" Dolan pubblicò il primo disco "Avé": un concentrato adrenalinico di purissimo Black/Heavy/Speed Metal old school suonato con una classe senza eguali. A confermare la questione, poi, fu proprio il disco uscito l'anno dopo dei Venom originali che risultò nettamente inferiore e molto più "caciarone": segno che molto probabilmente Cronos e soci si siano fin troppo adagiati su quello che, a buon diritto, è il sound da loro inventato ma che a conti fatti oggi non ha più presa; almeno non come quarant'anni fa. Insomma, quella che veniva considerata solo una costola degli originali Venom senza arte né parte alla fine si è rivelata essere una realtà tutt'altro che copia/incolla di quella originale e con un'identità tutta sua. Oggi, dunque, siamo qui per presentare questo magnifico "There's Only Black", secondo satanico sigillo che segna il ritorno dopo cinque anni del trio inglese sotto la sempre granitica egida di Nuclear Blast Records. Senza troppi giri di parole ci troviamo di fronte ad un vero e proprio capolavoro che trasuda old school da tutti i pori, MA con un approccio estremamente moderno e curato, tanto da risultare ferocissimo come una volta ma super godibile e scorrevole. Insomma, è ormai consolidato, sicuro, cristallino e inoppugnabile come Demolition Man e soci siano una band che ha saputo mantenere fede alle proprie origini, ma allo stesso tempo ha sviluppato una linea tutta sua. Il processo, infine, ha portato alla luce questo secondo fenomenale disco, che definire adrenalinico e feroce sarebbe perfino riduttivo. Innanzitutto la novità più importante è l'abbandono del leggendario Abaddon sostituito dal nuovo batterista War Machine che, diciamolo subito, non ha sfigurato minimamente in questa sua prima prova dietro le pelli. A seguire, poi, il micidiale Mantas, colui che scrisse il leggendario riff di "Black Metal", con tutte le conseguenze che seguirono dopo quel fatidico 1982. Un chitarrista che si è rivelato a dir poco sbalorditivo e soprattutto affatto relegato ad un copia/incolla dei suoi vecchi fasti. Al contrario: la sua ascia nei Venom Inc. si è evoluta enormemente abbracciando il classicissimo approccio Motorhead, Venom e Sodom e soluzioni molto più moderne che non disdegnano pennellate melodiche, arpeggi e assoli ben strutturati. Che si tratti della micidiale opener "How Many Can Die" o alla simil ballad "Burn Liar Burn", Mr. Mantas ha saputo imprimere in questo disco tutto il suo ventaglio di conoscenze in un modo a dir poco notevole. Tradotto: non siamo di fronte a qualcosa di scontato che ti aspetteresti da una band di questo calibro. Al contrario "There's Only Black" è un lavoro molto più complesso e stratificato di quanto si possa pensare e non un semplice specchietto rivolto agli anni '80. A coronare il tutto, infine, il mitico e cattivissimo Demolition Man al basso e alla voce, il vero sigillo infernale dei Venom Inc. con le sue corde vocali forgiate nel metallo più nero. Una performance canora che riconosceresti tra un milione che deve tutto al compianto Lemmy per lo stile così scabroso ma al contempo intonato.
Potremmo stare qui ancora a tessere le lodi dei Venom Inc. ma ci limitiamo a far notare come anche un disco molto più "classico" sarebbe comunque stato eccezionale. Eppure i Nostri non si sono accontentati preferendo invece saltare oltre l'ostacolo e proporci qualcosa di nettamente superiore alle già più rosee aspettative che avevamo. Quindi, che siate fan die hard della vecchia scuola o delle nuovissime leve alle prime armi con l'Heavy Metal, questo secondo album del trio inglese DEVE assolutamente far parte del vostro bagaglio culturale. Complimenti!

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    21 Settembre, 2022
Ultimo aggiornamento: 21 Settembre, 2022
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Iniziamo e chiudiamo la recensione con una domanda: ma il senso di questo EP quale sarebbe? Ora, per dovere è nostro compito fornire qualche spiegazione in più, perciò vediamo il perché di questa domanda. Oggi parleremo di una nostra vecchia conoscenza, la one man band inglese Foul Body Autopsy, progetto nato dalla mente del mastermind Tom Reynolds e dedito, inizialmente, ad un Thrash Metal tinteggiato di Melodic Death e Death piuttosto interessante e ispirato al maestro dell'horror George A. Romero. Almeno così è stato fino al 2018, anno del secondo e - per ora - ultimo disco. Dopo tre anni l'artista torna con un EP, questo "Shadows Without Light - Part One" - più la seconda parte nel 2022, dato che il lavoro in questione è del 2021; scusate il ritardo - che ci presenta la band sotto tutt'altra luce: Melodic Death nella sua forma più pura totalmente imbevuta di Soilwork, Dark Tranquillity e Insomnium. Un trittico che si riflette nell'unica traccia presente che si rivela essere davvero interessante e ricca di elementi. Allora perché la domanda iniziale? Semplice: le altre due tracce sono dei remix terribili della prima e basta. Quindi, siamo di fronte ad un EP che in realtà è un singolo brano; da qui la domanda: ma il senso quale sarebbe, dato che anche la seconda parte del disco segue lo stesso schema?

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    15 Settembre, 2022
Ultimo aggiornamento: 15 Settembre, 2022
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Potremmo tranquillamente definire questo "Netherheaven", ottavo sigillo degli statunitensi Revocation, come il punto di svolta o il salto di qualità tanto agognato per la band di Boston. Basti pensare al fatto che si tratta del primo disco ad uscire a quattro anni di distanza dal precedente, anziché dopo i canonici due (a volte anche uno) a cui ci hanno abituato. Segno che per David Davidson era forse arrivato il momento di sedersi a tavolino e rivedere completamente la proposta partendo proprio dalle basi. Perché se da un lato è sempre stato evidente l'enorme comparto tecnico dimostrato, dall'altra parte non si poteva dire lo stesso per l'originalità, troppo spesso relegata ad un manierismo da 6 politico e nulla di più. Bene, dimenticate tutto questo, perché "Netherheaven" è semplicemente un discone dall'inizio alla fine, completamente rinnovato nel sound, nello stile e nel songwriting: finalmente il primo capitolo per il trio americano degno del nome Revocation, destinato a dare alla band il credito che realmente merita.
Innanzitutto preme far notare come la componente Thrash Metal sia del tutto scomparsa; o meglio, intelligentemente assorbita all'interno di uno spettro più ampio. Il sound è molto più oscuro, costantemente pennellato da sferzate melodiche riconducibili ai Sylosis o agli Arsis, ma sempre e comunque orientato a fornirci l'immagine più cruda e feroce della band, che questa volta non si è imposta nemmeno un freno inibitore. Delle nove tracce presenti non ce n'è nemmeno una che sfiguri: il viaggio che si intraprende è un costante saliscendi tra gli inferi, con le chitarre che riecheggiano, di tanto in tanto, di qualche richiamo Black, soprattutto nelle sezioni in tremolo picking ("Galleries Of Morbid Artistry" ne è l'esempio migliore). E tuttavia, ascolto dopo ascolto, risulta impossibile riuscire a definire tutte le influenze che permeano i (nuovi) Revocation: dalle basi Thrash un po' old school fino al Prog, al Death, al Black... con precisione chirurgica i Nostri hanno tirato fuori dal cilindro un lotto di brani ricchissimi di materiale ma mai stantii o fini a sé stessi: la ritmica è spaziale e perfettamente in grado di dare ad ogni riff la sua giusta quadra; le chitarre si intrecciano costantemente oppure si serrano in una sfuriata tipicamente dal sapore Death Metal. La voce scabrosa di Davidson, il mastermind del trio americano, è la ciliegina sulla torta: mai troppo sporco, mai troppo gentile. Insomma, una costruzione certosina e precisa, frutto di un lavoro che ha visto i Nostri distruggere dalle fondamenta il loro sound e ricomporlo con quegli elementi sempre toccati ma mai veramente trattati nei capitoli precedenti. Il risultato è questo "Netherheaven": un disco nel quale si potranno trovare tranquillamente influenze di Obscura, Arsis, Cannibal Corpse, Death, Cynic, Sylosis e via dicendo. E MAI troverete un punto poco chiaro, né, tantomeno, una perdita di rotta: i Revocation hanno preso una mole enorme di materiale e l'hanno usata tutta con intelligenza imbastendo un'opera perfetta e con un focus forse mai stato più chiaro di così. Quindi, non vi resta che premere "Play" e tuffarvi nel primo vero grande lavoro targato Revocation. Complimenti!

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    15 Settembre, 2022
Ultimo aggiornamento: 15 Settembre, 2022
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Ci scusiamo enormemente per il ritardo con cui esce questa recensione, perciò speriamo che con le nostre parole riusciremo a farci perdonare. Anche perché, sinceramente parlando, sarebbe pressoché impossibile trovare un difetto in questa band, gli Swelling Repulsion, e nel disco di debutto qui in esame, "The Severed Path". Dell'act statunitense si sa poco trattandosi di una realtà giovanissima nata solamente nel 2016 e che dopo cinque anni si presenta al grande pubblico con questo mastodontico biglietto da visita. I Nostri sono solamente in due, ma la loro musica dà tutt'altra impressione trattandosi di un lotto di nove tracce una più interessante dell'altra. Quello che Dono e Bage ci presentano è una summa, se così si può dire, tra il Melodic Death americano che fa fede a gente come Arsis, The Black Dahlia Murder e Inferi, ma con l'aggiunta di elementi presi dal Prog Death canadese. Il risultato è perciò un disco che sa subito di USA ma con quel tocco personale in più. Se, quindi, sono ben definite le coordinate americane nel loro stile, è altresì vero che gli Swelling Repulsion non si siano limitati a presentarci un ennesimo album facente parte di quel filone, ma abbiano decisamente alzato di più l'asticella. Il ventaglio musicale presentatoci è estremamente variegato con costanti rimandi a sound e melodie più morbide e liquide nelle quali la chitarra solista si staglia, ma costantemente pennellati dalla ferocia spigolosa del Melodic Death americano giocando quindi su questo costante equilibrio tra i due punti focali. I brani sono corti, forse troppo con una media di 3 minuti scarsi, diretti e di impatto, che mostrano ottime capacità di songwriting mai eccessivamente fini a sé stesse; tuttavia qui siamo nel caso opposto, ossia quello in cui ci si potrebbe aspettare qualcosa di più. Invece la durata breve dei pezzi ed un andamento, a volte, un po' timido lasciano intendere come il duo debba ancora capire bene quale sia il vero focus del gruppo. Non fraintendetemi, non vogliamo lasciar intendere che il disco si perda; al contrario: è proprio ascolto dopo ascolto che vien voglia di avere qualcosa di più dai Nostri, come se il disco volesse restare adagiato su una comfort zone. Tuttavia se siete fan di questo genere troverete certamente spunti molto interessanti negli Swelling Repulsion: una realtà che, lo sottolineiamo, con un biglietto da visita come questo, al netto di qualche difetto poc'anzi messo in luce, potrebbe ritagliarsi una buona fetta di pubblico.

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    09 Settembre, 2022
Ultimo aggiornamento: 09 Settembre, 2022
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Giunge al suo primo full-length la Brutal Death Metal band internazionale Awaken the Misogynist con "Decended from Vast Dimensions", edito da Comatose Music. Formatosi nel 2019 per mano di artisti provenienti da USA, UK, Svizzera e Hong Kong, il gruppo si rivolge ai fan più intransigenti dello Slam/Brutal Death grezzo ed ignorante, figlio diretto di gente come Abominable Putridity, Vulvectomy, Visceral Disgorge e compagnia bella; e lo fa con una formula classica quanto funzionante. Spulciando un po' in giro si scoprirà che ciascun membro presente nel progetto già milita in altri gruppi, tutti appartenenti al filone Brutal e Slam. In effetti ci si mette poco per capire che qui non si scherza ma che dietro ci sia gente competente. Quindi, se da una parte possiamo constatare un curriculum di tutto rispetto, dall'altra tuttavia non si potrà non notare quanto il disco di base sia fin troppo classico, senza un effettivo guizzo di genio o con elementi innovativi. Non che lo Slam sia un genere avvezzo alle soluzione eterogenee, ma nemmeno a proporre qualcosa che ha fin troppo da spartire con i capisaldi del genere pocanzi citati. Sembrerebbe, dunque, che gli Awaken the Misogynist abbiano semplicemente voluto unire le forze ed omaggiare il genere musicale proposto nel modo più genuino e semplice possibile; ed in effetti la formula funziona alla grandissima. L'ascolto risulta scorrevole, con un giusto equilibrio tra i breakdown cadenzati e pieni di armonici e sezioni molto più camminate. Ma, dicevamo, trattasi comunque di un lavoro da 6 politico, che chi naviga in questo genere sicuramente scarterà dopo un solo ascolto. Quindi, se siete dei novizi troverete certamente nella proposta della band internazionale un buon assaggio di Slam/Brutal Death suonato a regola d'arte. Se, invece, siete da palato più raffinato, di certo i Nostri risulteranno fin troppo basic e standard. Da parte nostra ci riteniamo soddisfatti di un disco che, nel suo piccolo, il lavoro lo svolge bene.

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4.5
Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    02 Settembre, 2022
Ultimo aggiornamento: 02 Settembre, 2022
Top 10 opinionisti  -  

Parlare dei leggendari Megadeth è un'impresa difficile, al limite dell'impossibile, trattandosi di una realtà che, nel bene e nel male e al di là delle diatribe tra i fan, siede di diritto sull'Olimpo delle band che hanno fatto - e stanno ancora facendo - la storia del Metal. Appurato questo, ci ritroviamo oggi a parlare di "The Sick, the Dying... and the Dead!", sedicesimo album in casa Mustaine che giunge dopo sei anni dall'ottimo "Dystopia", il disco che diede il via a quella che potremmo definire una nuova giovinezza dell'act statunitense. Ciò che ci troviamo davanti in questa nuovissima fatica, tuttavia, è ben lungi dall'essere semplicemente l'ennesimo disco tirato fuori dal cilindro che si adagia sulle vecchie glorie senza portare di fatto nulla di nuovo. Dicevamo come il precedente lavoro avesse riportato in carreggiata i Megadeth dopo anni di piattume, soprattutto dopo "Endgame" del 2009 - ovviamente è un parere personale -. Ecco, sulla scia del predecessore, "The Sick, the Dying... and the Dead!" non fa altro che presentarci un album che sa veramente - e finalmente - di Megadeth, senza quelle fin troppo eccessive vene Prog che di fatto allontanarono la proposta di Mustaine e soci da quello che era, è e sarà sempre il loro territorio. Va detto, poi, che la band ha cercato sempre di sperimentare potendo contare sull'ineccepibile ed insindacabile bravura e capacità compositiva del mastermind e della seconda chitarra. Tuttavia siamo tutti d'accordo nell'affermare che tra i miliardi di cambi di line-up che ci sono stati la coppia d'oro è sempre quella Mustaine-Friedman per attitudine, intesa e songwriting. Se, dunque, questo sedicesimo sigillo è riuscito nell'impresa di (ri)portarci su quei lidi, è certamente merito del sodalizio tra MegaDave e Kiko Loureiro, che risulta estremamente tecnico ma mai fine a sé stesso; cosa che non si poteva dire del precedente Chris Broderick, che di contro risultava troppo "progheggiante" o eccessivo. Da ciò, segue anche la dipartita dello storico bassista Dave Ellefson, rimpiazzato dal mitico Steve Di Giorgio che certo vanta un curriculum che non ha bisogno di presentazioni. Insomma, tante grandi novità confluite in questo "The Sick, the Dying... and the Dead!", che è semplicemente quello che è: un album che sa di Megadeth al 100%, in grado di ripescare in quelle sonorità leggendarie di fine anni '80 adattandole però all'approccio moderno che la band ha ormai incastonato nel proprio sound. Del resto ci si era già resi conto che la musica fosse cambiata - in tutti i sensi - con la pubblicazione dei singoli, uno più micidiale dell'altro: taglienti, incisivi, ficcanti e pregni di tutta la maestria di chi è in pista dal 1983. Ed è proprio su quest'ultimo punto che vogliamo fare una riflessione. Di certo "The Sick, the Dying... and the Dead!" non è un album che vuole in qualche modo riprendersi la vecchia gloria o imbonire i fan attempati, come se i Megadeth avessero bisogno di affermare nuovamente il loro primato. Piuttosto lo riteniamo un disco che dimostra in pieno come dopo quasi quarant'anni di carriera i Nostri siano ancora qui presenti ed in grado di divertirsi e scrivere musica in maniera istintiva; quella che ti fa esclamare: "QUESTI sono i Megadeth". Non riconoscerlo e ritenere l'album un prodotto fallato vuol dire due cose: o siete sordi o in malafede. Non si può non amarlo, sia che siate dei vecchissimi fan nostalgici, sia delle nuove leve ancora nella fase di formazione con i big del Thrash Metal. In entrambi i casi l'effetto sarà sempre e solo uno: pelle d'oca dall'inizio alla fine. Metallari gioite: i Megadeth son tornati!

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    31 Agosto, 2022
Ultimo aggiornamento: 31 Agosto, 2022
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Questa è una di quelle recensioni che risulta superflua e completamente inappropriata di fronte a cotanta ignoranza e ferocia: stiamo parlando del secondo EP dei War Ripper, "Strength in Numbers". Ora il nome della band, anzi della one-man-band, ai più potrebbe non dire nulla. Eppure chi c'è dietro è ben lungi dall'essere un personaggio sconosciuto: Joel Grind dei Toxic Holocaust, uno dei migliori progetti Speed/Black al mondo. Potevano, dunque, i War Ripper risultare poco appetibili ed interessanti? Certo che no; d'altronde la classe non è acqua e Mr. Grind anche in questa prova si rivela esattamente per quello che è: un mastermind che non bada ad ignoranza e ferocia quando si tratta di un suo progetto. Cinque sono le tracce che compongono l'EP in questione, con una durata di un minuto e mezzo l'una, in pieno stile -core. Ed in effetti è proprio quello che ti aspetteresti da una band come i War Ripper: Black/Thrash pesantemente influenzato dalla vena Hardcore Punk che ti fa schizzare il cervello fuori dalle orecchie. se siete fan dei Toxic Holocaust qui troverete esattamente pane per i vostri denti, con l'unica differenza che in questa sede si è voluto dare maggior risalto al versante Punk. Il risultato è dunque un lotto di pezzi spaccaossa che per otto minuti circa non faranno altro che prendervi a mazzate sulla testa senza nemmeno darvi il tempo di respirare. A coronare il tutto subentrano le sempre ben presenti sfuriate Black/Thrash che ricordano i primi Sodom e Destruction, ma anche i Midnight o la prima ondata Black di stampo Venom, Bathory e compagnia bella. Insomma, old school ma fatto come si deve e non relegato al mero copia/incolla citazionistico. Segno ulteriore di come Joel Grind sia una artista che in questi territori sa perfettamente come muoversi. Il resto, son solo chiacchiere.

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