Opinione scritta da Dario Onofrio
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Ultimo aggiornamento: 25 Settembre, 2015
Top 50 Opinionisti -
Iniziare questa recensione per me ha un che di strano: abbandonai gli W.A.S.P. qualche annetto fa, peraltro considerando solo i dischi fino a The Crimson Idol.
Non conoscevo assolutamente il nuovo corso preso dalla band di Blackie Lawless, ormai diventata un vero e proprio progetto solista di uno dei personaggi più discussi della storia del metal. Su di lui ce ne sono di gossip da raccontare, di cui però sinceramente ci importa poco o niente: quello che importa oggi è Golgotha, l'ultima fatica in studio degli statunitensi.
La band che conoscevo è cambiata radicalmente, ma non ha perso di vista il punto fondamentale: fare heavy metal come si deve. E così, anche se si finisce palesemente sull'hard'n heavy (non troveremo una Blind in Texas o una On your Knees su questo disco), Golgotha si dimostra essere uno dei dischi più belli di questo 2015.
Non saprei dirlo meglio di così: quando un album nasce da una esigenza prettamente artistica e non commerciale si sente sin da subito, sin dalle prime note di quella Scream che ci aveva anticipato la caratura del disco. Ogni cosa qui trasuda sentimento, poco importa se in alcune tracce sono nascosti palesi messaggi cristiani o complottisti: non c'è praticamente una nota fuori posto. Dicevamo di Scream: sicuramente la traccia degna di fare da opener. Catchy al punto giusto, malinconica pure, è la dimostrazione che il songwriting di Blackie si è fatto si più adulto, ma non ha perso lo smalto e il carisma di sempre. Mi chiedo come faccia ancora a cantare in questo modo, ma quella sarà una curiosità che mi toglierò in sede live. Echi dai Who compaiono nelle successive Last Runaway e Shotgun: due pezzoni con un chorus trascinante, sostenuto da una produzione a dir poco sbalorditiva. Tra l'altro un elemento fondamentale di questo disco mi sembra il basso di Mike Duda, che ci trascina con le sue numerose sleppate nella maggior parte dei pezzi ed è persino messo in evidenza in alcune parti di Miss You, la prima ballad del disco.
Nonostante i pezzi durino dai 5 minuti in su, la proposta musicale degli WASP è talmente energica che il tempo sembra scorrere senza colpo ferire: dopo le prime quattro tracce siamo già a quasi mezz'ora, ma il tiro non diminuisce. È sugli stupendi assoli del ritrovato Doug Blair che andiamo sul pezzo più "commerciale" del disco: Fallen Under è un motivo che poteva uscire tranquillamente suonato da qualche gruppo pop, ma qui siamo in presenza di artisti supernavigati che lo trasformano in un ottimo "break" all'interno dell'album. Fino a questo momento la sapienza dei duetti di chitarra ha fatto da padrona: è tempo di cedere nuovamente terreno al basso per un pezzo che ai più potrebbe sembrare maideniano: Slaves of the new world order. Se questa canzone fosse comparsa su The Book Of Souls probabilmente avremmo gridato al miracolo, nonostante personalmente non mi abbia convinto del tutto il ritornello. Fantastiche le pause e le interruzioni durante tutta la canzone, ma soprattutto lo stacco prima dell'assolo che è probabilmente uno dei punti più alti dell'album.
Manca la tripletta finale: Eyes of my Maker ritorna sulle ritmiche cadenzate con un ritornello trascinante e una tastiera che ogni tanto salta fuori per un commentino (chi ha sentito il disco inoltre la sentirà spesso come sottofondo, quel giusto che basta per dare una atmosfera "alla Deep Purple"). Hero of the World invece è assolutamente uno dei pezzi più belli del disco (e anche quello meno lungo): nonostante strizzi in modo inequivocabile l'occhio ai vecchi W.A.S.P. non risulta essere noiosa né autocitazionista, con un piglio a metà tra il southern rock e l'heavy tipico di Blackie. A chiudere tutto la title-track, un pezzo che mette in evidenza la conversione recente del leader, caratterizzata da un ritmo quasi da ballad che ci porta alla conclusione di un disco veramente ottimo.
Insomma, resta poco da dire: dopo una lunga pausa di sei anni Blackie Lawless ha tirato fuori dal cilindro un ottimo album hard'n'heavy, indubbiamente trascinante e coinvolgente. Ci saranno pezzi di questo disco che ci ricorderemo con probabile piacere nei prossimi anni e che potranno entrare a pieno titolo nelle scalette della band. La vespa punge ancora!
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I Dark Witch sono un gruppo di quelli che puoi tranquillamente mettere nel calderone del power roccioso alla Astral Doors/Nightmare. Nati addirittura nel 99' e dopo una serie di cambi di line-up, oggi portano sulle scene il loro primo The Circle Of Blood, per la Heart of Steel Records.
Mettendo il cd nello stereo si intuisce sin da subito come questo quartetto brasiliano peschi a piene mani da diversi gruppi-idolo di quel paese, come Grave Digger e Iced Earth. Infatti, nelle 12 tracce che compongono il disco, ci sono diversi richiami ai vari stili delle band: dalle rocciose cavalcate alla Tunes of War alla chitarra frenetica di John Shaffer. Eppure l'album non decolla mai: si mantiene su un buon livello per tutto il minutaggio, specialmente su Cauldron e Lighthouse Ripper, ma non riesce a spiccare il balzo. Infatti, dopo le prime quattro tracce che danno decisamente carica, Firestorm segna una specie di battuta d'arresto, quasi una dichiarazione "non possiamo fare meglio di così". Stessa cosa per le ultime due tracce che appaiono decisamente fiacche: Siegfried dovrebbe essere un cavallo di battaglia da cantare a squarciagola, ma finisce per essere un fastidioso ripetersi delle cose già precedentemente ascoltate. Stessa cosa per To Valhalla We Ride, il cui ritornello non riesce proprio ad acchiappare.
A chiudere l'album una cover di Voz da Consciência degli HARPPIA, magistralmente reinterpretata dai nostri.
Insomma, i Dark Witch sono rimandati con debito, specialmente per quanto riguarda la produzione dell'album e l'esagerazione (penso che questo disco sarebbe stato molto più bello e scorrevole senza uno o due pezzi). Ciònonostante sono contento di vedere che la scena brasiliana è ancora attiva e capace di sfornare nuove band.
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William Hope Hodgson è stato uno scrittore britannico vissuto a cavallo tra 800' e i primi del 900'. A soli 14 anni si imbarca su un mercantile per una carriera di 8 anni nel mondo nautico: diventerà un sottufficiale, ma a spese di continui e tremendi abusi da parte del resto dell'equipaggio; esperienze che lo segneranno per il resto della sua vita.
Forse per questo, trasferitosi nel 1906 in Francia, il ragazzo diventato ormai uomo decide di sfogarsi in un modo davvero singolare: trasfigurando e mettendo in scritto la superstizione dei marinai verso il mare e l'assenza di umanità sulle navi. È così che sono nati capolavori della letteratura horror come I pirati Fantasma e soprattutto The House on the Borderland, che Howard Phillips Lovecraft riconobbe come una delle principali influenze nella genesi dei miti di Chtulhu.
Il primo vero e proprio romanzo di Hodgson fu proprio "The Boats of the Glen Carrig": la storia di un naufragio di due navi su un'isola deserta e la follia che mano a mano si instilla nei due equipaggi lasciati al loro destino in una terra ignota e sconosciuta, popolata da mostruosi esseri. Se vogliamo fu un predecessore dei moderni thriller psicologici.
Tutta questa premessa, estrapolata in gran parte da wikipedia, serve per farvi entrare nel concept di The Boats of the Glen Carrig, l'ultima fatica in studio dei tedeschi Ahab: un gruppo che è riuscito a riportare in auge un genere ormai "scomparso" come il funeral doom. Ma se le premesse per un nuovo capolavoro del combo c'erano tutte, devo dire che, rispetto al precedente The Giant, è stato fatto un piccolo passo indietro. Vuoi perché ormai esci sotto Napalm Records e significa che sei importante, vuoi che magari ti apri ad un pubblico più grande, ma spesso ho sentito nelle cinque lunghissime tracce che compongono questo concept delle svarionate abbastanza strane.
Qualcuno le ha definite "trovate alla Opeth": in effetti, l'utilizzo quasi smodato dei clean vocals potrebbe far storcere il naso a chi era abituato al growl gutturale dei ragazzi, senza contare che non stiamo ascoltando un gruppo technical death ma una band doom metal...
Siccome è difficile analizzare dei pezzi da minimo 6 minuti mi limiterò a darvi qualche idea sparsa su come i nostri hanno affrontato la questione: anzitutto gli stacchi acustici, marchio di fabbrica della band, con una clean vocal molto poetica, che sfumano sempre verso i riffoni più mastodontici e doomeggianti. Questa formula appare praticamente in tutti i pezzi, tranne forse in The Red Foam dove si parte già con i riffoni ma senza growl e col clean vocals. Ora, non dico che potrebbe avere degli spunti geniali: ci sta riproporre un metodo che vedi funziona, ma alla lunga questa continua alternanza lineare scoccia, mentre in The Giant l'acustico era quella perla in mezzo al petrolio nero. Le "svarionate alla Opeth" le potete udire perfettamente in The Thing That Made Search, forse il pezzo più riuscito dell'album, dove il growl messo in eco dà esattamente l'idea di perdizione mentale. Altra cosa fondamentale di questo disco penso sia la quantità di assoli sparsi qua e là: sembra che gli Ahab abbiano dipinto la follia umana mescolando vari colori (come quelli della copertina), in modo da ottenere uno spaventoso monolite di angoscia. L'idea finale che ci si fa una volta tolto il disco dallo stereo è proprio questa: sensazione di essere sprofondati in un abisso per poi essere risaliti.
O, almeno, è quello che dovrebbe dare all'ascoltatore: personalmente se con The Giant eravamo scesi fin nel profondo dell'oceano, con The Boats of the Glen Carrig scendiamo nell'abisso, ma non ne tocchiamo per qualche strana ragione il fondo.
Sarà per la svolta "intellettual/commercialoide"? Sarà perché facendo doom metal alla lunga si rischia di non avere più idee? Intendiamoci: The Boats è un ottimo disco, con un bel piglio e una bellissima produzione, basato su un concept fantastico per chi adora l'horror. Ma per qualche ragione non riesce a spiaccare sugli altri lavori del combo tedesco, che sembra aver trovato la sua formula per "restare a galla". Speriamo solo che il prossimo disco presenti qualche elemento di rinnovamento.
"And so, after a voyage which lasted for nine and seventy days since getting under weigh, we came to the Port of London, having refused all offers of assistance on the way."
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C'era un tempo in cui il metal non era ancora ultradiffuso come oggi, un tempo in cui qualunque cosa facessi poteva risultare straordinaria e innovativa e dove ti bastava registrare dei riff o qualcosa con un semplice mangianastri per diventare leggenda. Se quel tempo in Europa è passato in fretta, non è così per l'est del continente: un mondo misterioso che per anni non abbiamo conosciuto se non attraverso band underground che, pur avendo buone idee, non erano mai riuscite a sfondare.
In un contesto di probabile euforia dovuta alla fine dell'Unione Sovietica, un giovane serbo di Novi Sad decide di portare la sua band fuori dalla polvere della censura e dell'oblio. Djordje Letich, solista e polistrumentista, dà la luce agli Armagheddon, progetto esistente dal 1987 ma diventato effettivamente attivo solo 3 anni dopo innumerevoli cambi di line-up e difficoltà dovute alle condizioni economiche.
Battendo di tre anni in anticipo tutta una serie di illustrissimi colleghi quali Rhapsody e Rage, questo sognatore aveva un progetto: creare una metal opera e una vera e propria sinfonia metal, integrando alle sonorità del progressive/speed metal che andava forte in quegli anni una serie di special guest tra violinisti, cantanti e chi più ne ha più ne metta.
È così che nel 1993 vede la luce Eternal Mistery, frutto di un lunghissimo lavoro di registrazioni da uno studio all'altro, mix a metà e quanti più problemi può avere una band. Un disco che se ascoltato oggi può sembrare parecchio ingenuo e forse un tantino pretenzioso, ma che forse ai tempi era qualcosa di assolutamente unico. Oggi quel disco, che ai tempi uscì solo in audiocassetta, rivive con una nuova veste grafica e un nuovo missaggio stereo grazie alla Grom Records, sotto la quale la band è a contratto dal 2012, dopo un lungo periodo di silenzio.
Solo 7 tracce (tra cui due intro) per un disco che probabilmente fosse uscito in Europa con un'ottima produzione e sotto una grossa label sarebbe stato un capolavoro assoluto. E non lo dico soltato per fanboysmo ma con cognizione di causa: le composizioni dell'album sono bellissime, a partire dal riff ripetuto della prima No Advice e dai suoi numerosi cambi di tempo. Come potrete sentire il sound è una summa di ciò che facevano all'epoca i Fates Warning e, perché no, anche un po' gli Europe tastierosi e tamarri. Non si può nascondere che determinate trovate chitarristiche sono senza ombra di dubbio di grande presa sull'ascoltatore, e persino i cori, nonostante la qualità a cui sono registrati, hanno una grande dignità e fanno il loro porco mestiere. Formula che viene leggermente "tirata" nella successiva Black Swan, dove Branko Badžic sfoderava una bella prestazione heavy power di alto livello. Tirata perché appunto è una traccia concepita come classica speed track, dove si conta di più la velocità che il resto, ma non per questo meno bella della prima.
Le fortissime influenze progressive metal tornano nella successiva Magic Star, che oltre alla consueta formula delle canzoni classiche presenta due bellissimi stacchi che danno tempo a Djordje di esprimere tutta la sua bravura chitarristica. Prima della traccia finale c'è anche tempo di una piccola reinterpretazione della Sarabanda di Handel, un pezzo di musica classica che tutti conosciamo e che all'epoca i ragazzi vollero probabilmente inserire per rimarcare il loro orientamento verso il classico.
Ma veniamo a questa The Eternal Mistery - Heavy Metal Symphony. Un succoso pezzo di ben 27'47" di durata, tutto strutturato su giochi di tastiera, violino, cori di cantanti lirici e quant'altro. La cosa bella è che tra tutti i vari cambi di tempo difficilmente un pezzo così esaltante rischierà di annoiarvi: dopo un po' non arriva la classica voglia di schiacciare su skip, anzi, si arriva ad apprezzare il bellissimo stacco acustico a metà pezzo, la ripresa a furia di riffoni mai uguali e la narrazione finale (che, stando al concept dell'album, parla dell'inizio dell'esistenza). Una vera e propria suite epica ante litteram.
A chiudere questa riedizione 4 bonus track: le versioni radio di No Advice e Heavy Metal Symphony (ovviamente accorciata fino a 4 minuti), una reinterpretazione di Sarabanda, suonata principalmente con la chitarra elettrica e arricchita di una parte vocale nel finale, e una inedita Mordor che non è nient'altro che il Poema dell'Anello di Tolkien arrangiato in musica.
Insomma, sicuramente questo disco non farà magari la vostra gioia di ascoltatori, ma vi permetterà di riscoprire un piccolo capolavoro del passato. Se Eternal Mistery avesse avuto la fortuna di essere stato scritto e composto in Germania o giù di lì, sicuramente il destino degli Armageddon sarebbe stato sicuramente diverso.
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Per quanto sembri assurdo mi ritrovo a recensire una band che col metal ha poco o nulla a che spartire.
Sto parlando dei Russkaja, una di quelle formazioni che assieme a Kontrust e un altro paio di nomi costituiscono l'investimento più "pop" della Napalm Records. Il problema è che il sottoscritto se ne intende ben poco di ska, per cui in questa recensione seguirò esattamente soltanto le emozioni che questo album mi ha dato.
Il sunto di questa presentazione è che, pur non avendo mai approfondito davvero questo genere, Peace, Love & Russian Roll è un album gradevolissimo per fare caciara, guidare e altre azioni che magari vogliamo condire con una musica non troppo impegnata. Il Russian Turbo Polka Metal dei viennesi è subito messo in primo piano dalla opener Rock'n Roll Today, per poi passare alla ritmata Slap your Face: impossibile non pogare, agitarsi o saltare con i loro pezzi. La cosa veramente simpatica comunque è l'attitudine gipsy e l'utilizzo del basso e delle trombe: non di rado compaiono riferimenti alla musica balcanica e al suo carico di insegnamenti, come si sente chiaramente nella successiva Hometown Polka. Se con questi pezzi i Russkaja mettono subito in chiaro di che pasta sono fatti, con il prossimo There was a Time dimostrano anche che durante i loro concerti può capitare di tirare fuori gli accendini e cantare a squarciagola in preda alla nostalgia più totale.
Inutile dire che inoltre il loro orientamento politico è ben sottolineato da una traccia come El Pueblo Unido, in assoluto uno dei migliori pezzi del disco che vi farà venire non poca voglia di bere e agitarsi. L'unico punto forse più critico dell'intero album sono le due successive Lovegorod e Parachute, che ho trovato un po' troppo rallentate rispetto al ritmo che si era preso fino a questo momento. Non per questo sono brutte canzoni, anzi, sono arrangiate stupendamente e si fanno tranquillamente ascoltare, ricordandoci a tratti Manu Chao o il reggae d'annata. Dopodiché il disco riparte a cannone sulle tre successive Let's die Together (Mon Amour), Salty Rain e You are the Revolution. Se il primo di questa tripletta riscopre le influenze balcan/gipsy, il secondo pezzo è un bellissimo mid-tempo accompagnato dalla tromba di Rainer Gutternigg, mentre l'ultimo è una vera e propria cavalcata ska che sarebbe capace di svegliare i morti. Una cosa che emerge da questo ultimo pezzo è la capacità dei Russkaja di essere comunque vari e divertenti nonostante il genere suonato: poche volte sento degli stacchi acustici in mezzo a canzoni così sparate! A chiudere questo lavoro la bellissima Radio Song, ideale se uscite con una ragazza e volete dedicarle una canzone, e la title-track, destinata anche quella a entrarvi nelle orecchie e rimanerci per un po'.
Insomma: se vi piacciono la musica balcanica e lo ska correte nel negozio di dischi più vicino a comprare questo album. Se invece, come il sottoscritto, siete metallari, potreste anche pensarci visto che una volta tanto ho trovato un disco che mi suona bene nelle orecchie ed è divertente nonostante non appartenga all'ambito della musica pesante. Il voto che dò è dovuto proprio al fatto che ci troviamo su una webzine metal, e dare a questo disco di più non sarebbe proprio in tema. Comunque, lunga vita alle strizzate d'occhio alla cultura russa, se continuano a uscire album come questo!
Ultimo aggiornamento: 26 Mag, 2016
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Ormai puntuali come un orologio tornano a farsi sentire i Drudkh di Roman Saenko, questa volta e finalmente con un disco completamente nuovo, dopo un anno passato tra best of e split.
Chiusa ormai del tutto la parentesi shoegaze di Handful of Stars e degli Old Silver Key, la band è tornata a calcare i lidi che più gli sono cari: quell'ambient black metal che li ha resi famosi nell'underground, con pezzi lunghi (in questo album non si scende mai sotto i 6 minuti), caratterizzati da stacchi acustici e inserti di tastiera, riprese e ossessività del riffing. Purtroppo però, rispetto al precedente Eternal Turn of the Wheel, mi sembra che le idee per il nostro quartetto inizino a scarseggiare. Sarà la voglia di tornare al passato, ma a parte la spettacolare Embers, caratterizzata da un ottimo utilizzo della tastiera, i pezzi di A Furrow cut short non riescono a entrarmi in testa come i precedenti lavori degli ucraini. Sono lontani i tempi della "sperimentazione" di Microcosmos: nonostante la ripetitività e l'ossessione del riffing siano stati sempre un marchio di fabbrica per i Drudkh, qui la ripetizione esagera e manca di mordente, specialmente considerando i vecchi classici passati.
Ancor di più, e può sembrarvi ridicolo, mancano delle vere e proprie sfuriate black. Mancano quei pezzi tiratissimi che avevano caratterizzato il precedente lavoro e i grandi classici della band, e questo si intuisce anche dal fatto che due dei pezzi hanno una specie di "sequel" all'interno del disco. Intendiamoci: Cursed Sons I e II e Dishonour I e II sono comunque degli ottimi pezzi arrangiati bene e suonati meglio, ma mancano proprio di presa sull'ascoltatore. Inoltre arrivano ad un punto in cui si somigliano troppo tra di loro: so che la band gioca sull'equilibrio black/acustico, ma in alcuni casi mi pare che ci sia un eccessivo autocitazionismo.
Insomma forse questo per me è il primo vero passo falso di una band che fin'ora si era mantenuta su un buon livello. Speriamo solo che Roman ripeschi alcuni elementi del passato e rinnovi così la sua produzione musicale, magari abbassando anche il minutaggio di certi pezzi.
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Se dal punto di vista discografico possiamo dire che UDO, storico frontman degli Accept, sta subendo un "buon declino", dal punto di vista dei dischi dal vivo il ranocchio si attesta come uno dei migliori istrioni di sempre.
Navy Metal Night è l'ennesima collaborazione con un'orchestra sinfonica, in questo caso la German Navy Orchestra. Registrato a febbraio 2014, il live contiene tutta una serie di brani storici e non della carriera del singer, riarrangiati a mio parere in modo assolutamente eccelso. Sin da Das Boot, primo pezzo strumentale, possiamo renderci conto di come la musica di UDO unita all'orchestra sia qualcosa di assolutamente frizzante ed energico, nonostante la sensazione di "già sentito". E via per una carrellata che va da pezzi come Future Land alla leggendaria Animal Instinct, percorrendo piano piano tutta la discografia del ranocchio.
È così che una marcia come quella di Heart of Gold diventa veramente presente e quasi ballabile, mentre Dancing with an angel, con la partecipazione di Doro Pesch, diventa un momento obbligato per levare gli accendini al cielo.
Devo dire che era dai tempi della Lingua Mortis Orchestra che non sentivo degli arrangiamenti così ben fatti: Faceless World è un pezzo che carica in una maniera incredibile e che rende il chorus più che coinvolgente, persino rispetto all'originale. Dopo la strumentale Ride e l'immancabile Days of Hope and Glory, la cavalcata finale inizia attraverso una swingheggiante Cut me Out, la storica Trainride in Russia e alcuni pezzi degli ultimi anni. Risentire King of Mean, Stillness of Time e Book of Fate in questa veste mi ha dato un'energia pazzesca, specialmente al Wacken dove UDO ha riproposto lo stesso show in maniera leggermente ridotta. Il gran finale è affidato al superclassico Animal House, escludendo ormai i pezzi degli Accept che per UDO sono un capitolo chiuso (peccato perché al Wacken ha suonato sia Metal Heart che Princess of the Dawn in una versione stupenda).
Insomma se siete fan degli Accept e di UDO non potete lasciarvi scappare questo piacevolissimo doppio live, inoltre potrebbe essere un buon acquisto anche per chi ha intenzione di iniziare ad ascoltare la discografia solista del singer.
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La Francia è una di quelle regioni europee dalle quali potresti aspettarti di tutto fuorché una scena metal attiva e graffiante. Eccezion fatta per i Nightmare in effetti, musicalmente la nazione è più legata al folk (almeno per quanto riguarda noi metallari) o al black; eppure qualcuno di tanto in tanto salta fuori con un disco di altri generi come i Deafening Silence.
Attivi dal 2003, i nostri arrivano con Scapegoat of Ignorance alla terza prova in studio, forti di un sound stile Helloween del primo periodo, o comunque che si può tranquillamente ricondurre al primissimo power metal.
Eppure l'album, nonostante sfuriate heavy e valanghe di riffoni, ha qualcosa che manca e non graffia: nonostante il coro coinvolgente di The Call o i riff di memoria "Vicious Rumors" di Death Squads, l'album si mantiene tutto il tempo su un livello piuttosto anonimo che non lascia particolarmente impressionato l'ascoltatore. Anche pezzi come Carved in Stone, che dovrebbero essere cavalli di battaglia, finiscono per attestarsi su un livello buono ma tremendamente anonimo. Sarà anche perché come al solito la band esce con una produzione vecchia "apposta" per far contenti i fan degli anni 80', ma proprio sulla suite The Last Stand la batteria è spesso fastidiosa e insopportabile.
Insomma un disco copiaincolla come Scapegoat of Ignorance sicuramente non fa breccia nel mio cuore da fan dell'heavy, magari piacerà a qualcuno che ammira l'ondata di old school che in questi ultimi anni sta imperversando negli USA... Ma secondo me proporre un album simile nel 2014 è abbastanza imbarazzante.
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Ad un certo punto della vita di un musicista capita sempre quel periodo di "stanca", dove gli album tendono a sfoderare 1 o 2 pezzi di rilievo mentre gli altri vengono abbandonati dopo pochi ascolti.
Questo è in sostanza il commento che potrei fare sull'ultima prova in studio della coppia DeFeis/Pursino, gli alfieri dell'epic metal senza se e senza ma.
Il nuovo album dei Virgin Steele si presenta come "un viaggio attraverso le religioni, le divinità e il concetto che di esse ha l'uomo", proseguendo dunque il discorso di The Black Light Bacchanalia di qualche annetto fa. Nonostante le buone intenzioni però DeFeis tende sempre a partire con il cavallo sparato a mille (con la bellissima opener Lucifer's Hammer) per poi rallentare e fermarsi del tutto.
Nocturnes of Hellfire and Damnation però soffre di un problema ancora più fondamentale: ben un'ora e venti di minutaggio, con canzoni lunghe che tendono a sfiancare e sfiduciare dopo pochissimo l'ascoltatore. Inoltre i nostri reincidono pure una cover dello storico progetto thrash/speed dell'86: Queen of the Dead proviene infatti da Nightmare Theatre, dove DeFeis sfoderava persino una specie di scream primordiale!
Ma non tutto è da buttare, tranquilli. Se nella seconda parte tendiamo a naufragare nei deliri delle sovrincisioni made in Virgin Steele, fino a Devilhead ci godiamo un bel disco che cerca pure di recuperare alcuni elementi tipici del sound "vecchio stile" (diciamo sulla falsariga di Life Among the Ruins) come i riffing graffianti che nel penultimo lavoro erano un poco spenti. Purtroppo da questa canzone in poi i nostri frenano costantemente, puntando più sulle emozioni che sulla tecnica e la velocità: finiamo per ritrovarci con ben tre ballad in chiusura (per quando belle siano se estrapolate fuori contesto)!
Niente signor DeFeis, stavolta non ci siamo proprio o quasi.
Se The Black Light Bacchanalia all'ascolto era piacevole e filava via abbastanza liscio, quest'ultimo lavoro rischia di ammorbare inutilmente gli ascoltatori come il sottoscritto che sinceramente si aspetterebbero qualcosina di un po' più fresco e non drammatico a tutti i costi da una band importantissima per l'evoluzione dell'epic metal.
Ci rivediamo tra qualche annetto cari Virgin Steele, spero che vi rendiate conto che proporre 80 minuti di musica non è il massimo... Ma incidere qualcosa di orchestrale a questo punto?
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Si sa che ultimamente il brutal orchestrale/tecnico è una moda abbastanza diffusa, tanto da raggiungere elevati livelli di vendite come gli ultimi album dei Septicflesh oppure quelli dei nostrani Fleshgod Apocalypse.
In questo fertile humus si muovono svariati gruppi, alcuni di ottima fattura, altri un po' meno.
A metà strada tra questi due percorsi si trovano i quipresenti Whorion, creatura di Ep Rautamaa che nel tempo purtroppo ha visto una serie di sfighe abbattersi sulla band. Cambi di line-up, rimandi vari etc. non hanno certo giovato a The Reign of the 7th Sector, debut album della band.
Eppure nonostante la valanga di sfighe a cui Rautamaa è stato sottoposto, il disco si regge bene sulle sue gambe a partire dall'opener Flesh of Gods. Un po' prendendo dai Nile e un po' dagli Atheist il nostro si è creato un sound che si, è molto ricalcato su band più famose, ma in certi pezzi sfoggia vene creative mica male. Un esempio è l'inizio della successiva When the Moon Bled, che oltre all'ottimo riff d'apertura può contare sul drumming eccelso di Heikki Saari, nuovo acquisto dei Finntroll. Che questo disco sia suonato da finlandesi si evince perfettamente dagli spunti chitarristici melodici piazzati nel bel mezzo di pezzi come Blood of the Weak e soprattutto Forbidden Light, cosa che alleggerisce un po' il sound e lo rende magari più ascoltabile per chi ha le orecchie delicate. Un peccato che, a mio parere, il disco scada nella banalità sugli ultimi due pezzi: intendiamoci, Immaculate e Arrival of Coloss sono due canzoni complesse e sicuramente impegnative, però purtroppo sanno un po' di plastica anziché suonare fresche come potevano essere le tracce precedenti.
Insomma, per i Whorion è stata una mezza occasione sprecata. Sinceramente io li vedrei a suonare meglio senza la tastiera che a volte è usata soltanto come contorno e mai come protagonista... Comunque le buone idee non mancano in The Reign of the 7th Sector: semplicemente i nostri dovranno sedersi attorno a un tavolo e pensare a lungo prima di sparare un'altra release.
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