Opinione scritta da Dario Onofrio
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Top 50 Opinionisti -
Dai ammettetelo, l'idea di prendere un disco con sopra il solito vichingo con la bandiera alzata non vi attira per niente.
Neanche a me, sinceramente, prendeva di fare la recensione di Into Battle degli austriaci Heaten Foray, ma devo dire che mi sono felicemente ricreduto dopo i primi ascolti dell'album.
Questo perché i nostri, consci di non essere assolutamente in grado di ambire al livello di popolarità di band come Ensiferum e Eluveitie, si sono costruiti un sound tutto loro a metà strada tra viking e power metal, come dimostra l'opener Fight: un vero e proprio inno lanciato a mille con clean vocals come ritornello. La cosa che probabilmente vi salterà all'orecchio sin da subito è l'immensa bravura del chitarrista Zhuan, un vero e proprio portento per quanto riguarda riff e assoli, cosa che lo rende la vera colonna portante della band (dai, l'assolo verso la fine di Silence sembra una roba uscita da un qualche cd di virtuoso anni 90').
Ma se pensate che tutto il disco sia impostato sull'alternanza durezza/parti di solo lanciate vi sbagliate: dopo qualche traccia, in Wofür ich streit`, si iniziano ad udire... Dei riff industrial? Ebbene si, scorrete la playlist fino a Knüppeltroll, che sembra un pezzo scritto dai Rammstein, e vi renderete conto che in fondo il songwriting di questa band non è così male. Purtroppo per i nostri, comunque, non tutto il disco si attesta sui livelli dei pezzi che ho citato, risultando essere un divertente passatempo per fare i cazzoni a qualche festival e attirarsi la simpatia dei tedeschi. Anzi, è divertente vedere come la band renda meglio nei pezzi in lingua che non nei pezzi in inglese.
Tralasciando l'outro finale Wigrid, che riprende gran parte dei temi del disco, e la spettacolare versione acustica di Winterking (che mi dicono essere una vera e propria hidden track), possiamo tranquillamente dire che se troverete Into Battle in giro a un buon prezzo e vi piace il folk ignorantone e buzzurro non dovete assolutamente avere esitazioni a prenderlo. Pur non dicendo nulla di particolarmente interessante, gli Heathen Foray sono uno di quei gruppi che metterei volentieri su per bere.
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Passano gli anni e le mode, ma c'è chi come U.D.O., i Saxon o altri gruppi leggendari pubblica un disco "di mestiere" facendolo passare in sordina.
Ecco, mi chiedo quanto impegno ci sia dietro a un lavoro come Game of Sins, nuovo arrivato di casa Axel Rudi Pell: quanto un disco così nasce da un'esigenza artistica e quanto da una prettamente di mercato? Già la copertina mi faceva presagire il peggio: scarna e priva di un vero significato. Almeno quella di Into the Storm era colorata.
A parte questo, il disco è la solita sfilza di tamarrate made in shredding come è sempre stato nello stile del chitarrista crucco: troverete dalle tirate di Sons in the Night fino alla solita ballad Lost in Love. Ormai la band è talmente focalizzata sulla stessa linea compositiva da anni che quasi riusciamo a immaginarci cosa ci sarà da una canzone all'altra, dai ritornelli ai bridge fino agli assoli. In mezzo a tutto questo fortunatamente almeno Breaking the Rules spicca per la ritmica hard rock leggermente più spinta rispetto al trascinarsi del resto delle canzoni, per non parlare della bellissima cover di All Along the Watchtower nella versione di Jimi Hendrix.
Per non tirarla troppo lunga: vi piace il power metal e volete ascoltare qualcosa di superclassico? Qua dentro troverete tutto quello che vorrete. Personalmente preferisco altri tipi di power un po' più complesso e variegato, ma è innegabile che comunque il buon solista crucco riesce sempre a sfornare degli album quantomeno piacevoli.
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I Bone Gnawer sono l'ennesimo progetto di Kam Lee, un uomo a cui molto del death metal odierno deve gran parte del proprio sound. Ex membro dei Death dei primordi e poi felicemente approdato alla corte dei Massacre, il gigantesco frontman non ha mai perso l'attitudine a quel sound primordiale che piace a molti deathster (così, come mi pare di aver capito dalle foto, l'appetito), così come allo humor nero e al non prendersi sul serio.
In effetti come si fa a prendere sul serio un EP che si intitola "Canale di Carneficina" che esce a pochi mesi dall'ultimo full-lenght The Cannibal Crematorium? Quello che troverete qua dentro è putridissimo e demenzialissimo death metal in puro stile USA, perché non si può parlare di serietà quando una band scrive canzoni come The Female Butcher o Circle of the Cannibals. Persino la title-track ha un testo da amanti dello splatter che parla di uno scontro tra lupi mannari e vampiri che finisce in carneficina.
Se vi piacciono growl marcio, chitarre sparate a mille e un'atmosfera da film splatter, vi consiglio vivamente di recuperare l'ultimo disco Cannibal Crematorium, e se vi piace quello prendervi anche questo ep. Con i Bone Gnawer qualunque amante del death metal passerà un quarto d'ora in buona compagnia.
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Se pensavo che il folk metal italiano avesse sparato tutte le sue cartucce mi ritrovo costretto, dopo l'album dei Selvans e questo "Manere, Ombre, Briscole" dei M.A.I.M., a cambiare idea.
Si, perché è vero che siamo pieni di band che esaltano l'alcolismo come fonte di ispirazione e di vivere, ma pochissimi avevano composto delle canzoni epico-demenziali come i M.A.I.M. (non chiedetemi per cosa stia la sigla). Detto questo andiamo a confermare tutto ciò che scrisse il buon Ninni a marzo dell'anno scorso, quando recensì l'ep.
Ma cosa rende simpatici i M.A.I.M. oltre ai titoli bizzarri (Casera Death Trip, e ho detto tutto)? Sarà che persino il loro aspetto da metallari della prima ora più che incutere timore incute voglia di andare a bere qualche birraccia del discount (diciamo un Eurospin, giusto per iniziare) nel Fantabosco con Tonio Cartonio (tutto questo in senso buono, intendiamoci) e che musicalmente i nostri citino quasi palesemente gli Skyclad del periodo post-Martin Walkyier. Infatti, se riuscite ad ascoltare bene perché non siete ancora abbastanza sbronzi, l'intreccio musicale tra chitarre, flauto, tastiera, basso e batteria ricorda palesemente quegli esempi d'oltremanica che gli Elvenking dei primi album avevano provato a imitare, per poi spostarsi su terreni più commerciali. Sicuramente Quest for Perfection impone di alzare la gradazione alcolica e passare al vinaccio da osteria, anche se la voce narrante del cantante Dario de Nart ci mette in guardia dal fatto che la nostra patente potrebbe non tornare (si, dice davvero così ad un certo punto della canzone). Comunque la band mi sembra molto preparata tecnicamente, anche dal punto di vista interpretativo dei pezzi (in Polenta & Dragon alcune note sembrano quasi dissonanti col resto per creare una atmosfera nonsense/demenziale). Tutto ciò contribuisce ad accrescere il mio desiderio alcolico e mi spinge a imbracciare dell'ottimo sidro del BENNET (catena di supermercati presente nel comasco) quando passo a Bruledì, cantata, credo, in dialetto bellunese. Verso la fine del disco vediamo pure un tentativo di spingersi su terreni più epici, cosa che mi costringe a passare a del Calvados quando attacca Blood Stained Walls (il giro iniziale non vi ricorda un po' The Declaration Of Indifference degli Skyclad?).
Insomma, la band bellunese non inventa assolutamente nulla di nulla, ma almeno fa un folk metal senza mjolnir e robe pagane alle quali la penisola ci ha tristemente abituati. Peccato solo per i suoni, che sono palesemente registrati "da primo album", con una batteria confusionaria e senza un sentimento di "pienezza" nel sound, e per il buon singer che non riesce esattamente a prendere tutti gli acuti del caso.
Nonostante questo vi impongo di andare subito a comprarvi "Manere, Ombre, Briscole", e la prossima volta che un trve folkster ov davkness vi impone di pregare Odino ditegli di farsi una risata e sapparsi una birra in vostra compagnia.
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Riconquistare la mia fiducia dopo un disco come Legions of the North si prospettava sin da subito un'impresa molto difficile, se non impossibile, per gli svedesi Månegarm. Non avevo sopportato la svolta con le canzoni in inglese e quasi senza violino, che mi era sembrata oltre che commerciale anche deleteria verso i pezzi della band, seppure io sia il primo a vestirmi da deficente col kilt e il torque per andare al Fosch Fest come ogni anno.
Per questo avevo le peggiori aspettative su Månegarm, album che già a partire dall'omonimia mi aveva fatto rabbrividire. Per non parlare poi del singolo Odin Owns Ye All.
Invece, devo dire la verità, fin dalla epica Blodörn ho sentito lo spirito del lupo nordico tornare in quasi piena forma. Finalmente i pezzi in svedese riprendono pieno posto nell'album, così come gli strumenti tradizionali come lo scacciapensieri e il violino che ha reso tanto famosa la band. Bene o male tutti i pezzi in lingua sono ottimi, ben strutturati e ben fatti, mentre i pezzi in inglese perdono veramente di fascino rispetto al resto. La decisione, però, di mettere ben due pezzi acustici a metà album smorza un po' il lavoro e lo fa apparire monco rispetto ai suoi illustri predecessori (escluso Legions of the North).
Quello che traspare da Manegarm è che i nostri sono ancora in grado di scrivere dei bei pezzi, ma che iniziano a scarseggiare le idee e l'originalità che consentiva alla band di miscelare sapientemente il black e il viking metal con inserti folk. Insomma, sembra quasi che questo disco sia frutto di riarrangiamenti di vecchie idee e vecchie canzoni, nonostante queste si attestino su buoni livelli. La cosa migliore, probabilmente, che ha giovato in fase di scrittura, è stata la partecipazione di Ellinor Videfors, che ha portato un tocco di freschezza in quella che poteva essere una disfatta totale per il quartetto.
Tutto sommato non posso dirmi deluso da un disco come Månegarm, se non contassi che Erik Grawsiö è il genio che ha scritto Vargstenen. Pure la copertina mi ha lasciato un po' perplesso: tamarra oltre ogni limite e fatta apposta per piacere ai fan degli Amon Amarth.
Indubbiamente non comprerò questo disco, terrò giusto la prima traccia e qualche altra da sentirmi durante l'inverno 2015 e poi me ne dimenticherò. Un peccato per una band che un tempo era una delle cose più belle che esistessero in questa nicchia di mercato.
Ultimo aggiornamento: 20 Novembre, 2015
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Vi è mai capitato di entrare in un bosco e seguirne i sentieri in assoluto silenzio, rimirando solo quello che avete intorno e senza nemmeno avere una meta ben precisa? Una volta una amica mi raccontava che lei di notte si muoveva nei boschi sempre a suo agio, anche se nessuno voleva mai seguirla in quelle passeggiate notturne.
Sono convinto che sensazioni come queste siano traslabili in musica. In passato ci sono stati moltissimi nomi che si sono dedicati a questa "traduzione", dai Falkenbach ai Windir, fino ad arrivare ai più recenti Finntroll o gli ultimi arrivati Saor. Veniamo ora all'Italia, paese che è sempre stato dedito principalmente alla parte cazzona/guerriera del folk metal.
Ecco che i Selvans invece tirano fuori un disco che sembra veramente eccheggiare della magnificenza delle nostre foreste, senza risultare pacchiano o eccessivo. Non mi dilungherò troppo sulla biografia di questa band, che molti di voi sicuramente conosceranno per essere stata fondata da due ex Draugr, ma passerei direttamente alla musica.
In realtà su Lupercalia non c'è tantissimo da dire: la sensazione è sempre quella di essere sospesi nel silenzio della foresta (si, anche se è black metal), in una atmosfera di tensione da "preda e cacciatore". Già solo per come parte Versipellis molti di voi capiranno che tipo di album stanno per ascoltare: per sei lunghe tracce l'amalgama di strumenti tradizionali e metal ci investe come un fiume in piena, trasportandoci nel mondo onirico dei Selvans, che cantano persino un paio di pezzi in italiano. Insomma, in mezzo a quella che potrebbe sembrare solo una gran confusione, io invece ho trovato molto potenziale e molte cose da dire.
L'unico problema dell'album è che forse i nostri connazionali avevano TROPPE cose da dire e, anziché scriverne un altro, hanno riversato tutta la loro creatività qui. Questo perché alla lunga Lupercalia è si affascinante, ben congegnato e diretto, ma anche troppo pesante come lunghezza. Forse sarebbe stato meglio splittare un pezzo come N.A.F.H. in almeno due parti, per dare tempo all'ascoltatore di riprendersi tra un pezzo e l'altro.
Ciò nonostante, il disco mantiene un fascino e una freschezza compositiva che molti altri artisti della penisola si sognano, e conferma i Selvans come una delle realtà più interessanti del panorama folk metal moderno.
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Il doom metal oggi vive un momento di rinascita, spogliato da molte delle sue peculiari caratteristiche e adattato per essere un po' più fighetto/di nicchia. Ve ne sarete accorti con l'esplosione di diverse band come Ahab, High on Fire etc., ma si possono tirare anche dentro tutte quelle band del revival 70's, come Graveyard, Blues Pills etc.
Sarà che il Mammut sopracitato è un animale dall'incedere lento e antico, come forse si immaginano moltissimi artisti di questa rinnovata scena, tra cui gli svedesi Mammoth Storm. Ecco, messo Fornjot in riproduzione però non si riesce a capire dove vogliano andare a parare i nostri: volete essere epici come gli Ahab o marci come gli Electric Wizards? O alternativi come i Kyuss? Daniel Arvidsson è un discreto cantante, ma non riesce particolarmente a emozionarci, mentre il comparto ritmico è apprezzabile specialmente per l'organetto di Emil Ahlman.
Insomma, non è che Fjornot sia un disco riuscitissimo, magari apprezzabile per alcuni frangenti come la title-track o la successiva Horns of Jura, ma nulla che possa arrivare a maestri sacri del genere. Se cercate riffoni mastodontici (sempre di mammut parliamo) e atmosfere da era glaciale diciamo che potreste anche essere nel posto giusto, ma a parte la bellissima copertina bisogna ancora attendere il disgelo perché i Mammoth Storm si possano considerare padroni di un proprio genere personale...
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Se Franco Battiato fosse nato durante la NWOBHM probabilmente oggi suonerebbe con gli Arcana Opera. Questo è ciò che ho pensato al termine di De Noir, seconda fatica del gruppo veneto che avevo già intervistato al Fosch Fest di quest'anno (link nella descrizione).
La ricerca per il grottesco e per la parola ermetica sono connotati portanti della musica della band, senza contare l'apporto fondamentale della tastiera e dei violini. Quello che risulta è una specie di gothic/folk metal dalle tinte noir e avantgarde, roba da ammazzarsi di oppio insieme a qualche poeta francese maledetto. Forse è proprio per questo che difficilmente un disco del genere potrà annoiare l'ascoltatore: ogni canzone presenta delle caratteristiche che spesso differiscono dalla precedente e aggiungono nuovi elementi (basti solo pensare alle differenze tra un pezzo come Quetzacoatl e Il Letto Rosso). Così pezzi come Caffé Marco Polo o La Danza della Forca finiscono per entrarci in testa come veri e propri tormentoni, nonostante la complessità dei testi, rendendo il disco anche ricco di punti di aggancio per l'ascoltatore "medio".
Una critica che si potrebbe fare alla band è quella di eccedere verso la "sperimentazione" per rendere la loro musica inaccessibile, io invece sono convinto che se un'esigenza artistica arriva dalla pancia (e mi sembra che sia il caso di questo album) non si tratta di operazioni commerciali come i più maligni possano pensare. L'unica nota dolente che mi sento di sottolineare è la produzione dell'album, a tratti un po' troppo incasinata per la quantità di strumenti suonati contemporaneamente. Per il resto penso che un disco come De Noir meriti di essere sostenuto e comprato, se non per un po' di orgoglio nazionale almeno per la fantasia e il coraggio con cui gli Arcana Opera affrontano un genere popolare come il metal, rendendolo unico e particolareggiato.
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Sarà la nostalgia o la voglia di sentirsi giovani, sta di fatto che esce per Napalm Records questa raccolta con i vecchi pezzi dei Grave Digger risuonati con un nuovo sound.
Ne sentivamo davvero il bisogno? Per un fan sfegatato come me una roba del genere è manna dal cielo, anche se tutto ha una tinta malinconica e un po' ironica. Sarà perché Chris Bolthendahl non tiene più le note come un tempo e in numerosi casi la band ricorre a sovrincisioni con cori più acuti per dare i vecchi effetti.
In effetti, al di là della parte strumentale eccelsa che è da sempre il marchio delle produzioni Grave Digger uscite sotto Napalm Records, l'unica nota stonata sembra essere proprio il roccioso singer. Ma in fondo, cosa ci impedisce di vestirci di pelle come una volta e andare a scapocciare sotto al palco con queste nuove versioni di Headbanging Man, Witch Hunter, Shoot her Down e We Wanna Rock You? Niente.
Questo disco è un tributo agli anni 80' (basti anche vedere il tamarrissimo video, dove dei decrepiti Grave Digger ricoverati in un ospizio incontrano il mitico Reaper al cimitero e vengono ringiovaniti mentre orde di zombie fanno headbanging), al vecchio stile di una delle band che amo di più al mondo e ai fan che da anni li seguono per il mondo, consapevoli che nella vita la cosa più importante è il metallo.
Quindi prendetelo solo se siete dei die hard come me... Per chi non avesse mai sentito nulla della band teutonica c'è sempre l'ottimo Masterpieces uscito per Gun Records qualche annetto fa, facilmente reperibile in giro.
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Da qualche tempo a questa parte i Monster Magnet hanno preso a rilasciare nuove versioni dei loro recenti album, operazione che probabilmente farebbe saltare giù dalla sedia chiunque segua un minimo la scena musicale rock/metal moderna. In effetti: che senso ha fare una cosa del genere? Inoltre, con nuove versioni, non si intendono remastered o altro, ma veri e propri riarrangiamenti in chiave space rock degli album più melodici.
Dopo Milking the Stars (remake di Last Patrol), stavolta è il turno del buon vecchio Mastermind, uscito ormai cinque anni fa e che ai tempi recensii con entusiasmo, salutandolo come una delle migliori uscite dell'anno.
Che i Monster Magnet abbiano una attitudine "space" che si può sentire solo su pochi gruppi lo sappiamo, così come chi conosce la loro discografia sa a cosa stiamo andando incontro: Cobras & Fyre riprende i temi e le melodie di Mastermind ampiandole, spogliandole della parte hard rock e regalandocele in una atmosfera post-apocalittica. Anche se il quartetto statunitense è famoso per non prendersi mai sul serio a questo giro di boa ci regala un disco davvero introspettivo e complesso, anche se un pezzo di apertura come She digs that hole potrebbe sembrare catchy e amichevole verso l'ascoltatore. Anche Watch me Fade è un pezzo quasi pop, con quella tastierina molto alla "college rock"... Eppure già in questo pezzo iniziamo a sentire quello che tra poco ci si distenderà intorno alle orecchie, un universo di echi, sovrincisioni perfettamente studiate e riffoni con pochissime note.
Se c'è una cosa che i Monster Magnet sanno fare bene è suonare in un modo originale e divertente pur non inserendo tecnicismi nei loro pezzi, come ci dimostrano le rielaborazioni di Mastermind, Hallucination Bomb e Gods & Punks. In questi tre pezzi la band statunitense sperimenta, si butta sugli Hawkwind restituendoci delle atmosfere da trip sciamanico, esagera con la seconda arrivando a nove minuti di lunghezza: non per questo annoia e anzi, con i tocchi e le distorsioni particolari usate da Garrett Sweeny ogni pezzo si accresce e acquista un valore diverso dall'originale. Atmosfere apocalittiche anche in The Titan, che dovrebbe essere una rielaborazione di The Tytan who Cried Like a Baby... Ma al contrario dell'originale è talmente asciugata da sembrare tutt'altro, compreso l'inserto finale "da colonna sonora". Si torna invece sullo space rock con le successive tre tracce: When the Planes Fall from the Sky, Ball of Confusion e la stupenda versione "karaoke" di Time Machine vi proietteranno in un universo di psichedelia totale, da cactus allucinogeno!
La finale I Live Behind the Paradise Machine: Evil Joe... Può essere una summa di questo "redux": nove minuti di pura acustica dove i Monster Magnet sperimentano fino all'esasperazione, riprendendo qua e là temi delle altre canzoni (come quello portante di Gods & Punks) e allungandoli, accorciandoli... Per poi chiudere su un arpeggio finale ripetuto all'esasperazione.
Insomma i Monster Magnet si confermano essere una delle realtà più genuine che in questo momento popolano la scena, facendo sempre il loro mestiere con quel bello stoner cupo americano. Cobras & Fyre è un album dedicato però solo a chi ne è un frequente ascoltatore, per questo, per quanto mi sia piaciuto, lo sconsiglio verso chi si vuole approcciare alla band del New Jersey. Per chi invece è un fan beh... Buon divertimento.
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