Opinione scritta da Ninni Cangiano
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Top 10 opinionisti -
Dietro il nome Mystyc Blade si cela il musicista francese Christophe Danjon che ha messo su questo suo progetto personale nel 2023, rilasciando inizialmente un EP nello stesso anno, arrivando poi a metà ottobre 2024 a rilasciare, grazie alla nostrana Wormholedeath Records, il proprio debut album intitolato “The master is inside”. Il full-length ha un piacevole artwork che credo raffiguri Ganesha (divinità indiana della saggezza e dell’acume, colui che difende le buone azioni e crea difficoltà ai malvagi) ed è composto da 11 tracce per la durata totale di quasi 63 minuti, segno che le singole canzoni non sono brevi. E questa particolarità alla lunga può essere anche un difetto: spesso, infatti, ci sono tracce che sembra si ingolfino su sé stesse, quasi ci sia una sorta di voglia di strafare dell’artista che gli fa perdere di vista la struttura stessa del brano e la sua efficacia; molti pezzi avrebbero miglior sorte e sarebbero più convincenti con diverse sforbiciate di qualche minuto, in modo da tenere la durata non oltre i 4-5 minuti al massimo. Emblematico il caso di “Song of butterflies” che ha una specie di intro che dura quasi la metà del pezzo che inizia a decollare solo dopo 3 minuti abbondanti, oppure quello di “Forever alone” che sembra letteralmente un collage fra due brani differenti di breve durata, uniti al centro da una parte strumentale di quasi un paio di minuti sostanzialmente inutile. Se, insomma, nulla si può obiettare (e ci mancherebbe, dato che Danjon ha studiato al Music Academy International di Nancy!) sulla tecnica strumentale e canora, ci sarebbe da rivedere il songwriting che risulta alla fine alquanto prolisso sacrificando l’efficacia delle singole canzoni sull’altare del auto-compiacimento del musicista. Non abbiamo ancora accennato al genere musicale suonato da Mystyc Blade: il suo è un heavy metal dai forti influssi power, con qualche inserto di sonorità orientaleggianti e neoclassiche, che tutto sommato non dispiacerebbe per niente, se solo avesse evitato di “allungare il brodo” in maniera eccessiva. Non è stato reso noto chi si sia occupato di suonare basso e batteria (immaginiamo qualche ospite o lo stesso Danjon), ma naturalmente lo strumento protagonista è la chitarra del leader, mentre gli altri sono solo da contorno per esaltare al meglio la prestazione del chitarrista. Tirando le somme, questo “The master is inside”, debut album della one-man band Mystyc Blade, ci permette di ascoltare un discreto heavy-power che sicuramente poteva essere ancora migliore; speriamo, quindi, per il futuro che Christophe Danjon presti maggiore attenzione all’efficacia dei singoli pezzi riducendone drasticamente l’eccessivo minutaggio.
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I Bloody Idol sono la creatura del tastierista calabrese Joey Mauro, noto anche per la sua militanza negli Hunka Munka, prog rock band attiva dagli anni ’70; il progetto ha avuto inizio in questo 2024 e Mauro ha chiamato attorno a sé vari musicisti navigati e soprattutto 4 differenti cantanti che hanno scritto pagine memorabili del metal italiano. Questo “The last crusader” è il loro primo album, un concept che racconta la storia di un contadino europeo che lascia la sua terra in cerca di fortuna e gloria partendo per una crociata; di fatto, attraverso varie vicissitudini, il protagonista finirà per impazzire immaginandosi come l’ultimo crociato rimasto a difesa della terra santa. Ma cosa suonano i Bloody Idol? Il loro è un power metal, ricco di parti progressive, qualche tocco sinfonico e persino qualcosa di medieval folk (come in “The wraith”, forse la migliore della tracklist); naturalmente sono protagoniste del sound le tastiere del leader, ma anche la chitarra di Gianluca Quinto ha la sua importanza, con assoli di gran gusto; per gli appassionati dei paragoni, direi che è come se gli Shadows of Steel incontrassero gli Skylark. Naturalmente tutto gira attorno alle 4 voci, tutte fantastiche, ma ognuna differente dall’altra, quasi a voler scandire le varie atmosfere ed i differenti momenti del concept. L’album è composto da 12 tracce, di cui ben 4 strumentali (non imprescindibili, per essere sincero), fra cui le consuete intro ed outro. Ho ascoltato e riascoltato più e più volte questo disco, uscito a metà settembre per Elevate Records (ma arrivatoci solo ad inizio novembre), e devo confessare di averlo fatto sempre con estremo piacere, del resto stiamo parlando di musicisti talentuosi ed esperti e di cantanti di livello fuori dal comune. Canzoni piacevoli ce ne sono in quantità, oltre alla predetta “The wraith”, citerei ad esempio l’opener “Kingdom of dreams” (il cui coro ricorda non poco quello di “La isla bonita” di Madonna) e la successiva “Middle eastern sky”, oppure la lenta “Voices of angels” (ottima per momenti romantici) e la ritmata “Dreamstealer”, fino alla title-track posta in conclusione; è comunque tutto l’album a farsi apprezzare per varietà ed efficacia. Segnatevi il nome dei Bloody Idol perché sono sicuro sapranno in futuro regalarci altre perle dello stesso valore di questo ottimo “The last crusader”.
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Presentati come un gruppo adatto a fans di Anthrax, Overkill e Megadeth, mi aspettavo dagli statunitensi Symetria un bel thrash tosto, tra Bay-Area ed East coast, ma invece non ho trovato nulla di tutto questo nell’EP “Where did we go wrong”, in cui ho potuto ascoltare un heavy metal dal taglio moderno e null’altro. Avevo già conosciuto la band all’epoca del proprio debut album omonimo del 2017 non rimanendone particolarmente colpito, ero quindi curioso di scoprire cosa fosse successo in questi 7 anni e quali cambiamenti (oltre al fatto che l’unico membro fondatore era rimasto il vocalist Vince Santonastaso, dopo l’uscita del chitarrista Kevin Cust) ci fossero stati per una presentazione del genere. Di fatto l’unica cosa che è cambiata è l’approccio meno vintage rispetto al passato; direi anzi che questa svolta modern forse può anche essere vincente e sicuramente più al passo coi tempi. La voce grezza e sporca di Vince, infatti, meglio si adatta a queste sonorità poco melodiche e molto aggressive; certo, si potrebbe ancora disquisire sulla mancanza di versatilità e di espressività del leader, ma si era già detto nella precedente recensione che non ci troviamo davanti ad uno dei migliori cantanti metal in circolazione, anche se obiettivamente bisogna riconoscere che c’è molto di peggio in giro. Per il resto, i musicisti che fanno parte del gruppo sono tutti personaggi navigati (hanno militato in vari gruppi underground) e non più giovani di belle speranze, quindi si tratta di gente che sa suonare come si deve ed il sound ne trova giovamento. L’energia di questi tre pezzi è evidente, così come la rabbia che ci mette il singer nell’urlare dal primo all’ultimo momento. Ho ascoltato e riascoltato diverse volte questo EP (del resto dura nemmeno 14 minuti), ma purtroppo non ho trovato mai niente che mi abbia fatto impazzire, forse anche per via del fatto che non amo particolarmente queste sonorità modern. Tralasciando, quindi, i suddetti paragoni del tutto campati in aria, c’è da dire che questo “Where did we go wrong” è un EP onesto che non potrà permettere ai Symetria di uscire dall’underground, ma in grado di strappare una risicata sufficienza.
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I Metal Riot si formano in Finlandia (paese con la più alta percentuale di heavy metal bands al mondo) nel 2015; della formazione iniziale restano il vocalist Joonas Myller ed il bassista Benjamin Sairamo. Dopo vari cambi di line-up, la band arriva a maggio di quest’anno ad autoprodursi il proprio debut album, poi rilasciato dalla nostrana Wormholedeath Records in questa metà di novembre, intitolato “Birth of terror”. Il full-length, dotato di piacevole artwork, è composto da 8 tracce per la durata totale di circa 35 minuti, segno che il gruppo finlandese non si perde in inutili ammennicoli, ma bada al sodo con canzoni concise ed efficaci. Il loro sound è un heavy metal molto old-style, ispirato agli anni ’80 ed alla NWOBHM, con qualche venatura thrash e speed; non addentriamoci quindi in tediosi discorsi su originalità ed innovazione perché sono argomenti che evidentemente non interessano ai Metal Riot, dato che loro suonano la musica che amano, fottendosene altamente delle mode. Piuttosto un piccolo discorso va fatto sul cantante; il pur volenteroso Joonas Myller non è questo granché, diciamo che la natura non è stata particolarmente generosa con la sua ugola: quando cerca di essere aggressivo vi riesce anche discretamente (ma tende ad esagerare), quando invece cerca di essere più pacato e melodico (ad esempio in “Echoes in eternity”) risulta poco o nulla convincente ed anche leggermente stridulo e fastidioso. La sua prestazione alla fin fine risulta il classico tallone d’Achille che inficia il risultato finale. Già perché musicalmente la band non è niente male, ma forse sarebbe meglio che Myller tornasse a suonare la chitarra (come faceva agli esordi) e lasciasse il microfono a qualcuno più dotato e talentuoso. Le musiche dei Metal Riot, seppur come detto non originali, non dispiacciono assolutamente, soprattutto se si è dei metalheads attempati che hanno avuto la fortuna di vivere la propria gioventù negli anni ‘80/’90; il batterista sa picchiare come si deve, dando spesso ritmi belli frizzanti, il basso è spesso ottimo protagonista alla pari delle due chitarre, quindi sarebbe davvero piacevole ascoltare questo heavy metal, anche per via di una produzione che non è assolutamente vintage, ma anzi al passo coi tempi. Certo, qualche canzone funziona meno di altre (“Into the fire”, ad esempio, risulta un po’ troppo ripetitiva), ma basterebbero pochi ritocchi per migliorarle. Resta purtroppo la pecca del cantato, che non permette a questo “Birth of terror” di raggiungere la sufficienza che, invece, avrebbe meritato. Speriamo in meglio per il futuro!
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I Distant Past sono un gruppo nato in Svizzera nel 2002, per iniziativa del bassista Adriano Troiano (di chiare origini italiane), inizialmente come progetto da studio; il successivo arrivo dell’ex-cantante degli Emerald Jvo Julmy nel 2014 trasformò il gruppo nell’attuale dimensione da live band. Nel frattempo, passati alla label spagnola Art Gates Records, arrivano a pubblicare il loro quinto album, intitolato “Solaris” e dotato di notevole artwork. L’album è composto da 10 brani (cui si aggiunge la solita inutilissima intro), per una durata totale di poco sotto ai 44 minuti, segno che il songwriting è conciso e non si perde in inutili ammennicoli. Il power metal degli svizzeri, infatti, bada al sodo e, pur avendo diverse digressioni nell’heavy metal più classico (chi ha detto Irons?), non risulta né troppo old-style, né scontato. Al contrario, il disco è pieno di ottimi brani che si lasciano ascoltare più che gradevolmente; prendiamo, ad esempio, l’ottima “Fugitive of tomorrow”, canzone frizzante e brillante, dotata di ottime parti soliste di chitarra, cantata in maniera egregia e piena d’energia dall’ottimo Jvo Julmy. E su questo livello ce ne sono diverse, fino alla conclusiva “Fire & ice” (il cui inizio, ad onor del vero, è un po’ troppo simile a quello dell’ottava traccia “Speed dealer”); l’album, insomma, si lascia ascoltare senza difficoltà ed anzi alla fine viene anche voglia di pigiare ancora il tasto “play” per ricominciare. Non trovo particolari difetti, il gruppo sembra maggiormente a proprio agio quando il ritmo è più veloce, ma comunque anche quando Remo Herrmann alla batteria non pesta come un ossesso (come, ad esempio, nella lenta “The watchers”, dotata da parti soliste di chitarra semplicemente spettacolari), la musica è sicuramente godibile e ben fatta. In conclusione, possiamo tranquillamente affermare che i Distant Past, disco dopo disco, stanno sempre migliorando e questo “Solaris” è probabilmente l’album meglio riuscito della loro ormai più che ventennale carriera.
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I Nurcry sono un gruppo spagnolo formatosi nel 2021 grazie alla passione dell’ormai attempato chitarrista (penso coetaneo di questo recensore) Ángel Gutiérrez, che ha finalmente coronato il suo sogno mettendosi a comporre musica. E bisogna dire che è anche estremamente prolifico, dato che questo “Renacer” è già il terzo album della band in soli tre anni di attività (il quarto se contiamo la versione cantata in inglese del debut), a cui si sono anche aggiunti un’EP ed una lunga serie di singoli. Il full-length, dotato di piacevole artwork, è composto da ben 13 canzoni, per la durata totale di quasi 55 minuti; il songwriting, quindi, non è eccessivo ma abbastanza conciso, con canzoni che non sono mai troppo lunghe. Piuttosto, una considerazione la trovo doverosa: questo trend di realizzare album di così tante canzoni non la ritengo la scelta migliore; d’accordo che non siamo più negli anni ‘70/’80 in cui si registrava su dei nastri e non si poteva andare oltre alla loro durata (mitico il caso di “Smoke on the water” dei Deep Purple che fu improvvisata in pochi istanti, semplicemente per riempire il nastro!), però ogni tanto magari si possono tenere delle canzoni meno ispirate come scorta per eventuali altre pubblicazioni di secondo piano. Mi riferisco, ad esempio, nel caso di questo disco a “Grita al cielo” che, oltre ad essere la canzone più lunga, è anche quella meno convincente e quasi noiosa per il ritmo monotono e lento che la contraddistingue. Fortunatamente si tratta, in questo caso, solo di un paio di episodi (l’altro è il lento conclusivo “Eterna oscuridad”) che non inficiano il resto del lavoro, ma non sempre va così bene! Cosa suonano i Nurcry? Il loro sound è assimilabile parecchio ai primi quattro dischi dei Tierra Santa (i migliori, per capirci!), sia per il riffing delle chitarre (che nei Nurcry sono addirittura tre), che per il ritmo frizzante della batteria, ma anche per una certa somiglianza nello stile canoro tra Kike Fuentes ed il mitico Ángel San Juan. Diciamo che se i Tierra Santa avessero suonato a questa maniera e con questa ispirazione negli ultimi 20 anni, non sarebbero caduti in basso come invece è successo! Come dicevamo, canzoni valide in questo album ce ne sono parecchie, dal singolo “Galileo” che in alcuni passaggi fa pensare addirittura ai Queen, alla successiva “7 brujas” il cui attacco ricorda tanto gli Iron Maiden, oppure l’infuocata accoppiata iniziale “Indómito” e “Niño invisible”, fino alla bonus track “Cuestión de rock n roll” che non merita assolutamente questo ruolo secondario; se comunque vi piacciono questo tipo di sonorità ed il cantato in spagnolo, qui avrete solo l’imbarazzo della scelta. Migliorabile, infine, la produzione che ho trovato un po’ “cupa” (ma potrebbe anche dipendere dalla qualità non eccelsa dei files avuti a disposizione…). Non conoscevo questi Nurcry, ma devo dire che “Renacer” è sicuramente un gran bell’album ed un ottimo modo per approcciarsi ad un gruppo di così recente formazione; adesso sono davvero curioso di ascoltare gli altri dischi di questi spagnoli….
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Avevo conosciuto gli americani Seven Kingdoms diversi anni fa all’epoca del loro quarto album “Decennium” che non mi aveva convinto particolarmente, soprattutto per via della prestazione non eccelsa della cantante; ritrovo oggi la band con un EP, intitolato “The square”, composto da 5 pezzi per la durata totale attorno ai 20 minuti. Fortunatamente, nonostante siano rimasti gli stessi protagonisti, il gruppo della Florida ha fatto passi da gigante; in primis, Sabrina Valentine è migliorata tantissimo in espressività e versatilità, evitando di andare a cercare sempre le note più alte, ma dando calore e colore alla propria interpretazione, risultando così più convincente nel suo ruolo. Anche i musicisti si sono un attimo ridimensionati; il power metal della band non è più così veloce e mutuato dai Dragonforce, ma più meditato e meno derivativo (oserei usare anche il termine “personale”, quasi che il sound della band abbia un proprio trademark). Ho apprezzato tantissimo la prestazione del basso (non ne è stato reso noto l’autore) che è protagonista alla pari delle due chitarre di Kevin Byrd e Camden Cruz, mentre l’altro Byrd (Keith) alla batteria pesta sempre come si deve, dando comunque un ritmo frizzante e brillante, ma mai esageratamente veloce. Si sente anche ogni tanto una tastiera, ma anche qui non ne è stato reso noto l’autore. I vari ascolti dati a questo EP sono sempre stati gradevoli, grazie anche ad una produzione pressoché perfetta che mette nella giusta evidenza i vari strumenti e la voce (sulla quale ogni tanto notiamo effetti piazzati sapientemente); persino l’ultima traccia, la cover di “Kyrie” dei Mr. Mister, gruppo pop-rock americano degli anni ’80, non dispiace più di tanto, pur risultando alquanto avulsa dal contesto (onestamente se ne poteva fare a meno!). Se le premesse sono queste, non vedo l’ora di ascoltare il prossimo full-length dei Seven Kingdoms, dato che con questo “The square” hanno realizzato un disco davvero molto piacevole!
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I Valkyrie’s Fire sono una symphonic power metal band nata a Nashville in Tennessee nel 2020 per iniziativa del bassista Dave Hale, cui pian pianino si sono uniti i vari membri, iniziando dal cantante Adam Sanders nel 2021, fino ad arrivare alla soprano Beth “Bettie” Floyd, unitasi al gruppo nel 2023. In questo mese di novembre 2024, il quintetto americano arriva al debutto discografico con questo EP (o mini-LP, scegliete voi) intitolato “Ascension”, composto da 5 pezzi per la durata totale di circa 22 minuti. Naturalmente, suonando power sinfonico, le influenze della musica classica si sentono eccome, iniziando dall’opener “Ride of the Valkyrie”, mutuata dall’omonima di Richard Wagner; anche la cantante sfrutta le sue doti canore con qualche passaggio lirico; fortunatamente il songwriting è intelligente e non abusa dei liricismi della vocalist, così da non renderne stucchevole la prestazione; la Floyd, invece, usa le doti che madre natura le ha conferito in maniera convincente, dimostrando una non comune versatilità ed espressività che le consente di spaziare tra vari stili di cantato. Non male anche le capacità dell’altro cantante, Adam Sanders, che è ottimo protagonista nella quarta traccia “Nectar of the Gods”, quella meno sinfonica della scaletta. Non ho trovato nulla che non vada in queste 5 canzoni che, anzi, scorrono via molto piacevolmente e si lasciano ascoltare e ri-ascoltare senza alcuna difficoltà, segno che il songwriting è ben fatto e decisamente convincente. Vengono, infatti, evitate esagerazioni che alcune bands dedite al symphonic invece tendono a commettere, forse per inesperienza o per la voglia di strafare; i Valkyrie’s Fire, al contrario, hanno sempre ben presente la struttura dei singoli componimenti e non si perdono in inutili ammennicoli. A questa maniera, grazie anche alle ottime capacità dei due cantanti ed al talento dei vari musicisti, l’ascolto è sempre gradevole ed andrei a scomodare gente come i Temperance, a titolo di paragone per la fruibilità della proposta musicale. Unico neo che, però, potrebbe dipendere dalla qualità non eccelsa dei files avuti a disposizione per questa recensione, è il fatto che in alcuni momenti la musica è registrata a volume troppo alto ed il suono tende a distorcere; mi auguro che sul cd la produzione sia perfetta e non abbia questa problematica. Nel 2024 abbiamo avuto un sacco di opere prime di ottima qualità, adesso bisognerà aggiungere sicuramente questo “Ascension” degli americani Valkyrie’s Fire, gruppo a cui prestare la massima attenzione, dato che, con simili basi di partenza, promette grandi cose per il futuro!
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Con in copertina una donna-fabbro alquanto scollata, i californiani Pounder rilasciano il loro terzo LP intitolato “Thunderforged”, uscito per la label Shadow Kingdom Records. Il sound del gruppo americano è un classicissimo heavy metal, molto legato alla tradizione di gruppi come Judas, Irons & C.; nulla di nuovo insomma, o che non abbiano suonato in migliaia prima di loro (ed anche meglio, ad onor del vero). E’ però abbastanza evidente che al trio di Los Angeles non interessa minimamente essere originali o innovativi, dato che suonano la musica che amano fottendosene altamente delle mode e del tempo che passa. Fin qui nulla di male, ci mancherebbe, ma in questo disco (composto da 8 pezzi per circa 40 minuti di durata totale) ci sono alcuni particolari che finiscono per compromettere il risultato finale. In primis la produzione è decisamente vintage e non al passo coi tempi, particolare che personalmente ha stancato ampiamente: non siamo nel 1984, ma sono passati 40 anni! E la tecnologia permetterebbe, ad esempio, di assaporare meglio il rullante della batteria (a proposito, non si sa chi l’abbia suonata, dato che non è stato reso noto) che invece ha il fastidioso effetto da “fustino del detersivo”; si potrebbe anche ascoltare meglio il basso di Alejandro Corredor che, invece, è nell’impasto sonoro fin troppo in sottofondo. Ma il vero tallone d’Achille è il vocalist Matt Harvey che meglio farebbe a concentrarsi solo sulla sua chitarra ed a lasciare il microfono a qualcuno a cui la natura ha donato un’ugola migliore. Il suo stile è fin troppo sporco ed alquanto monocorde, mandando a farsi benedire l’espressività; in canzoni come, ad esempio, “Get pounded” (che sarebbe anche piacevole) si sente forte la mancanza di un cantante degno di tal nome. C’è poi il songwriting che, in alcuni casi, tende ad esagerare, come se la band volesse strafare negli assoli ed “allungare il brodo” per forza, sacrificando l’efficacia dei singoli componimenti (l’accoppiata finale di canzoni ne è un esempio). Confesso di aver faticato ad ascoltare più e più volte questo full-length; dispiace dirlo, ma in “Thunderforged” i pregi sono alquanto inferiori ai difetti; c’è di meglio, molto di meglio in giro e, continuando a questa maniera, dubito che i Pounder possano mai uscire dall’underground. Good luck guys!
Ultimo aggiornamento: 02 Novembre, 2024
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I MinstreliX arrivano da Osaka in Giappone, dove sono attivi da ormai 20 anni; nella loro carriera hanno realizzato numerosi singoli ed EP, oltre a ben 6 LP, di cui questo “Minstrelics” è l’ultimo, distribuito anche in Europa, grazie alla label olandese Shaded Moon Entertainment. L’edizione europea è composta da 11 pezzi (la bonus track è diversa da quella presente sull’edizione giapponese) per circa 62 minuti di durata, segno che i componimenti hanno anche in alcuni casi minutaggi elevati; anche l’artwork è leggermente differente tra le due edizioni, pur se c’è sempre un menestrello in copertina come soggetto principale, richiamando chiaramente il nome del gruppo. Ma cosa suonano questi giapponesi? Il loro sound è un power metal di chiara matrice neoclassica, grazie soprattutto all’impostazione chitarristica dell’ottimo Takao che è evidentemente cresciuto a riso & Malmsteen. Ogni tanto si sente anche una tastiera (non ne è stato reso noto l’autore) che contribuisce a dare l’impronta neo-classica al power metal della band. Sempre velocissimo il ritmo imposto dalla batteria del grande Ochoco, una sorta di mostro tentacolare dietro le pelli ed alla doppia-cassa! Naturalmente importante anche il contributo del basso di Syo-Go che ricama in sottofondo, forse un po’ penalizzato in fase di produzione (mi sarebbe piaciuto sentirlo più in evidenza). C’è poi la voce del frontman Leo Figaro, acuta, teatrale, espressiva e versatile, come ogni buon cantante di power metal dovrebbe essere; fa un certo effetto ascoltare il cantato in giapponese che spesso viene alternato all’inglese e che, per chi (come il sottoscritto) ha avuto la propria giovinezza negli anni ’80, non potrà non far venire in mente le vecchie sigle dei primi cartoni animati arrivati dal paese del Sol Levante (Tekkaman & C.). Non ci sono canzoni che non funzionano o non convincono, come detto in precedenza forse in alcuni casi si sarebbe potuto evitare un minutaggio importante al fine di rendere i brani più efficaci (mi riferisco a “Silhouette of time” ed alla suite “Gathering under the same sky ~大空の下に集いし者たち~”), ma si tratta di gusti personali che, in quanto tali, sono sempre ampiamente opinabili. Quello che non è opinabile è che mettersi all’ascolto di questo disco, a patto di essere fans del power metal, è sicuramente un’esperienza piacevole; personalmente ho ascoltato e riascoltato l’album sempre in maniera gradevole, cosa che non sempre purtroppo accade, senza mai accusare stanchezza, ma anzi con la voglia di pigiare ancora il fatidico tasto “play”. Bisogna quindi dare il giusto merito ai MinstreliX, perché questo loro album quasi omonimo “Minstrelics” è davvero ben fatto e merita sicuramente attenzione!
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