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Opinione scritta da MASSIMO GIANGREGORIO

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Opinione inserita da MASSIMO GIANGREGORIO    23 Settembre, 2023
Ultimo aggiornamento: 23 Settembre, 2023
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Avevo già recensito gli Apostolica in occasione dell'uscita dell'album "Haeretica Ecclesia" due anni orsono e ne sono stato ben felice perché sono un appassionato del Medioevo e, soprattutto, delle tematiche legate all'eresia ed alla Santa Inquisizione. Tematiche dalle quali attingono a piene mani gli Apostolica, forse anche perché - in quanto italiani - hanno anche loro nel DNA le reminiscenze connesse alla costante presenze del Vaticano nella nostra storia, con tutto ciò che ne scaturisce e ne consegue. Diciamo subito che, questa loro seconda fatica sulla lunga distanza, segna una prosecuzione senza soluzioni di continuità, con il full-length di esordio; praticamente è come se iniziasse esattamente da dove era finito il predecessore: i cinque membri dal biblico nome e dal look inquietante (tipo chi ha osato guardare Medusa) hanno, così, inteso dare ulteriore spinta alla loro proposta, ritagliandosi il giusto spazio nel metalrama autoctono ed internazionale. La opening nonché title-track si appalesa quanto mai maestosa nel suo incipit, per poi aggredirci subito con un organo monumentale in grande evidenza (come sarà lungo tutto il percorso del CD) con un coro da brividi, degno di fungere da supporto musicale di una allegra sessione di torture varie in puro Torquemada-style. La traccia seguente - dedicata alla amazzone che fu fondatrice di Smirne - è vieppiù grandiosa nella sua struttura epica, quasi orchestrale/operistica; così come fortemente epicheggiante è il pezzo dedicato alla controversa figura di Rasputin, tacciato di essere amante della moglie dello Zar di tutte le Russie Nicola II Romanov. La successiva "Black Prophets" si discosta un po' dall'alveo dell'album, manifestandosi più mid-tempo Heavy, con Ezechiele che sfodera una performance vocale ragguardevole mentre con l'accoppiata "Gloria" ed "Heretics" i nostri cinque tornano subito a riprendere il filo del discorso, in guisa - se possibile - ancor più furente e con la chitarra di Isaia sugli scudi. A tratti, mi hanno riportato alla mente i teutonici Powerwolf, i quali, peraltro, trattano le medesime tematiche. Dopo una "Tomorrow Belongs to Me" un po' fuori luogo, non poteva mancare un pezzo inneggiante al potere del fuoco ("Fire") con la sua forza purificatrice, espressa attraverso i famigerati roghi sui quali le streghe decedevano (beninteso, per soffocamento e non in quanto bruciate vive). "Veritas" invece si riferisce alle pseudo confessioni che venivano estorte a tutti (ma, soprattutto, a tutte) i/le malcapitati/e nelle grinfie degli esperti torturatori della Santa Chiesa. Una potente e ben calibrata "Skyfall" funge da anticamera alla traccia finale, più che mai classicheggiante e che pone il sigillo definitivo ad un'opera al nero sontuosa, questo "Anima Haeretica" che consegna agli annali del metallo una band di alto livello, certamente destinata a fare grandi cose e che seguiremo con grande interesse.

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Opinione inserita da MASSIMO GIANGREGORIO    16 Settembre, 2023
Ultimo aggiornamento: 16 Settembre, 2023
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Di formazione piuttosto recente (2019), i Vision Master sono duo in cui ci si è divisi la sezione ritmica da una parte (Reuben), ascia e ugola dall'altra (Dan). Mi sembra di vederli, i due amiconi, che - al pub, davanti ad una birra - in quel di Snohomish / Olympia, Washington complottano per prendere d'assalto il metalrama mondiale. Certamente, tantissimi buoni propositi, innumerevoli idee bellicose, una pletora di proclami... Un EP uscito nel 2021 ("Orbs") ed un singolo ("Wolves in the Shadows") quest'anno come antipasto del full-length di esordio, nel quale è stato inserito. Il risultato? Non ci siamo proprio! Un debutto alquanto opaco, composto da pezzi quasi tutti spompati, con (a tratti) delle idee decenti ma avvilite da una esecuzione al limite dello scolastico. Un compitino striminzito, da minimo sindacale in cui "spicca" la voce di Dan del tutto fuori luogo... da ragazzino che si cimenta con il metallo, una vocina che vorrebbe giocare con l'Heavy, ma che finisce con il bruciarsi. Che poi, è la sensazione che pervade tutto l'ascolto di questo album al punto da sperare solo che finisca il prima possibile, per quanto è banale e - a tratti - persino urtante. Già alla quarta traccia non se ne può più. Che si tratti di una coppia di giovani che vogliono giocare a fare i metallari duri e trve? Poco importa, perché ciò che conta davvero è la proposta musicale che - in questo caso - risulta da declinare fermamente. Concedo loro un due di incoraggiamento, auspicando che - alla prossima release - elevino notevolmente la media compositiva ed esecutiva, in questo incipit discografico davvero bassina... In più, anche l'artwork è tutt'altro che affascinante.

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Opinione inserita da MASSIMO GIANGREGORIO    09 Settembre, 2023
Ultimo aggiornamento: 09 Settembre, 2023
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Questa volta siamo al cospetto dei Breforth, quintetto tedesco di recente formazione che, dopo aver dato alle stampe buona parte dei brani di cui si compone questo loro full-length di esordio, vengono fuori ora con questo lavoro niente affatto malvagio, dal titolo eloquente "Metal in My Heart". Il five piece teutonico (che, presumibilmente, ha mutuato il moniker dal cognome del suo fondatore ed axeman Jurgen) ci propone un metallo iper-classico con venature di quello che un tempo veniva definito "Adult Oriented Rock" (A.O.R.), ossia con una strizzatina d'occhio al riff "catchy" di pronta presa melodica - di quelli che ti si schiaffano immediatamente nel cervello e non ne vogliono più sapere di uscirne - al punto che, in taluni passaggi, mi hanno riportato alla mente gli Europe della prima ora (quelli ante-"The Final Countdown", tanto per intenderci), solo più incazzati. Prova ne sia la voce di Peter, che vanta un'estensione di tutto rispetto e risulta, nell'arco dei brani, tutt'altro che monotona, ben coordinandosi con il sound massiccio originato dal resto della band: la sezione ritmica formata dal tandem di acciaio Jens/Arne costituisce il giusto alveo nel quale vanno a confluire le asce di Jurgen ed Eric, affilate come bisturi. Apre le ostilità una anthemica "Reset My Sanity", a cui fa seguito "Diggin' in the Dirt" che ti colpisce in pieno volto. In "Dynamite" la band sfodera un innesto di hammond davvero sapiente sul quale irrompe un assolo al fulmicotone davvero ragguardevole. "Wheel of Fortune" è la immancabile ballad, alquanto struggente e con l'ugola di Peter in gran spolvero, mentre "Social suicide" addirittura snocciola a sorpresa il ritornello della mitica "Balls to the Wall" dei colossi Accept; "Nighttrain to Paris" irrompe a in stile bulldozer. La traccia finale "Need More Rock'n'Roll" chiude degnamente una fatica che consegna alle cronache metalliche una band assolutamente annoverabile tra quelle delle quali sentiremo sicuramente parlare in futuro, perché in grado di propagare il verbo e la tradizione del Metal negli anni a venire. Da tenere d'occhio.

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Opinione inserita da MASSIMO GIANGREGORIO    30 Agosto, 2023
Ultimo aggiornamento: 30 Agosto, 2023
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Davvero singolare la breve (ma intensa) storia di questo sestetto italo-tedesco, sorto appena lo scorso anno e che – nel volgere dei dodici mesi – ha sfornato quasi tutte le tracce che compongono questo loro full-length di debutto sotto forma di singolo, per poi approdare all’album di esordio ricomprendendoli nella tracklist di cui sopra. Questa loro opera prima mette subito le cose in chiaro: gli All For Metal hanno come missione quella di rinverdire i fasti dell’Epic Metal di matrice nordico-teutonica, ispirata alla fulgida storia dei Vichinghi, attingendo a piene mani dalla loro copiosa mitologia. E di farlo attraverso delle composizioni caratterizzate dal rispolverare una modalità che, a dir il vero, si era un po’ persa per strada: quella dell’anthem. Infatti, tutti i pezzi che compongono questa loro release sono dei potenziali inni da cantare a squarciagola durante i concerti: immaginiamoci l’effetto da brividi che provocherebbero se cantati all’unisono da migliaia di fans, magari abbinata alla classica remata di gruppo, ormai diventata un classicone dei gigs di bands come Amon Amarth (tanto per fare un nome qualunque da accostare al nostro sestetto teutonico/italico). C’è da sottolineare la superba performance vocale di Antonio e Tetzel: voci come se ne sentono poche, all’altezza della energica altisonanza dei brani, in grado di rievocare efficacemente la grandeur dei mitici Manowar che furono (vedi la speech-intro di “Prophecy of Hope”). Più che un album, questa è una vera e propria saga - coerentemente al suo titolo ("Legends") - nella quale anche gli assoli di Ursula e Jassy appaiono epici. Il suono è sempre altamente vigoroso e muscolare, esaltato da una produzione in grado di esaltare viepiù la maestosità delle linee melodiche proposte e magistralmente eseguite. Nessuna sbavatura, nessun cedimento di sorta: questo CD è un monolite massiccio come pochi. Persino il look della band è perfettamente in linea e coerente con il tutto, atteso che i componenti sono tutti palestratissimi e fisicatissimi, agevolando in tal modo una indiscussa credibilità a tutti i livelli. Monumentali!

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Opinione inserita da MASSIMO GIANGREGORIO    25 Agosto, 2023
Ultimo aggiornamento: 25 Agosto, 2023
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E rieccoci ad avere l’incommensurabile onore di recensire ancora una volta l’altrettanto immenso Udo! Riuscire a trovare i termini più calzanti per esprimere ciò che crea quello che – senza tema di smentita - è uno dei pochissimi frontmen per antonomasia rimasti, è impresa davvero ardua. La sconfinata discografia del cantante teutonico è paragonabile ad un inesauribile giacimento di tesori metallici: la vena compositiva del leader indiscusso del metallo germanico sembra non avere mai fine. Sicuramente, tra i suoi tanti meriti, c’è anche quello di riuscire a circondarsi sempre non di semplici gregari, bensì di musicisti con i contro-attributi in grado di dare il loro significativo apporto in termini di freschezza sia compositiva, che esecutiva. Difatti, questa ennesima release di Udo riesce – pur mantenendo intatto il sound costituente il “marchio di fabbrica” di casa Dirkschneider – a proporre dei pezzi di puro ed incontaminato Heavy Metal tedesco sempre al passo con le ultime evoluzioni del nostro beneamato genere, ma sempre con un occhio alla tradizione che fu dei mitici Accept (come, ad esempio, l’innesto di scampoli di musica classica alquanto noti come in “Fight for the Right”). L’ugola è quella di sempre, pronta a sfoggiare vocalizzi al vetriolo come ai vecchi tempi (davvero un’ugola “highlander”!) mentre il “cucciolo” di famiglia Sven sfodera performances bestiali dietro le pelli, assecondato dal basso modello scala Richter di Peter. Le chitarre di Andrey e Dee sono come bisturi impazziti, sia pur nel pieno controllo di questi due virtuosi axemen. Il risultato è un sound vigoroso, di grande impatto, caratterizzato da caterve di riffs che ti trapanano la scatola cranica e non ne escono più se non dopo averla fatta esplodere causa headbanging iper-scatenato, innescato da pezzacci da paura che si susseguono senza requie, portando sugli scudi la opening track "Isolation Man" super-efficace, “The Flood” e “The Double Dealer's Club”, senza dimenticare l’ennesimo riff-killer di “Sad Man’s Show” e quell’autentico terremoto della title-track finale. Insomma, ancora una volta Udo si conferma tra i mostri sacri degni di sedere nell’Olimpo del Dei del metallo! Imperituro!

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Opinione inserita da MASSIMO GIANGREGORIO    08 Agosto, 2023
Ultimo aggiornamento: 08 Agosto, 2023
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Il quartetto trevigiano dedito alle più raccapriccianti rappresentazioni del Teatro dell’Inferno - Hell Theater, appunto - si è formato nel 2009. Ha esordito nel 2011 con il vampiresco demo “Smell of Blood” preludio al loro debut full-length “Reincarnation of Evil”, forgiato nelle fucine infernali nell’anno 2012. Dopo dieci lunghi anni di silenzio, che presumibilmente saranno serviti per riemergere dal profondissimo abisso degli Inferi in cui erano precipitati, i nostri quattro veneti tornano all’opera maledetta con questo “S'Accabadora” datato 2022. Già l’intro intitolata alla bambola che ride (che fa tanto “Annabelle”) ci catapulta in un’atmosfera orrorifica nella quale rimarremo inesorabilmente immersi fino alla outro liberatoria. La opening track “Eyes Painted Blood” spazza via ogni dubbio: questo quartetto è formato da epigoni dei migliori Mercyful Fate ed il singer Victor è un emulo del grandioso King Diamond e non solo per l’utilizzo delle modalità canore e per il look di scena: la struttura dei brani è oltremodo variegata e complessa, a tratti non facilmente intellegibile (senza mai risultare incomprensibile), ma pur sempre terribilmente (è il caso di dire..) godibile. E’ come se i nostri avessero optato, al fine di esplicitare al meglio il concept di teatro infernale, per un micidiale connubio tra gli indiscussi capostipiti dell’Horror Metal italico (i Death SS) e gli immensamente tetri maestri danesi: il risultato è devastante ed orripilante; il quadro fosco tracciato dalla complessa struttura melodica e ritmica perennemente cangiante viene squarciato dai saettanti assoli delle due ispiratissime ed affilatissime asce, che innescano continui duelli ed intrecci iperbolici. Da rilevare anche gli innesti – qua e là – di figure e concetti derivanti dalla tradizione sarda (presumibilmente opera del Solinas, visto il suo cognome), come la voce narrante della intro e il pezzo “Mamuthones Dance” davvero molto originali ed interessanti. D’altronde, il titolo dell’album ("S'accabadóra") significa, letteralmente, “colei che finisce”. Il termine deriva dal sardo s'acabbu ("la fine") o dallo spagnolo acabar ("terminare") ed in Sardegna stava ad indicare una donna che si incaricava di praticare l’eutanasia ai malati senza più possibilità di essere curati, su richiesta dei familiari o della vittima stessa. L’arpeggio iniziale di “In the Dark Room” è ipnotico e fascinoso, mentre fantastici sono gli intrecciati assoli di “Domus de Janas”, in cui Victor sfiora il tenorile, per poi concludere con testo sardo (sì, lo so, è riduttivo perché vi è enorme differenza tra i dialetti isolani.. ma non sono in grado di distinguere quello utilizzato in questo CD). Comunque, tutta la release è come un romanzo dell’orrore pieno di colpi di scena che ti fanno sobbalzare e rabbrividire fino a farti giungere ad un passo dalla accabadora, per poi liberarti in extremis, come ogni maestro del terrore che si rispetti.

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Opinione inserita da MASSIMO GIANGREGORIO    02 Agosto, 2023
Ultimo aggiornamento: 02 Agosto, 2023
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La Toscana è sempre stata una delle regioni che più ha elargito fior di bands alla causa del metallo. Basti pensare agli Strana Officina, agli albori degli anni ’80, ai Deathless Legacy dei giorni nostri, giusto per citarne una minima parte. E i Darking - con tanto di gentil donzella come cantante - si inserisce perfettamente in questo filone aureo di gruppi megatosti che solcano l’italico stivale propugnando il credo di un metallo a tinte scure, esattamente equidistante tra Power, Epic e Doom. Sorti nel 2005, hanno forgiato nella loro fucina due release: "Sons of Steel" nel 2010 e "Steal The Fire" nel 2015, per poi approdare a questo full-length che rappresenta una vera e propria rinascita del moniker in tutti i sensi. I Darking (ottimo il gioco di parole) riemergono dall’oblìo più feroci che mai, con una singer che ha un background Hard Blues (e si sente tutto) e che conferisce – contrariamente a quanto si possa pensare – il giusto pathos interpretativo appannaggio (di solito) dei vocalist maschietti. Le trame sonore sono interessanti lungo tutti gli otto pezzi che compongono l’opera, con un incedere caratterizzato da mid-tempo pesantissimi e rocciosissimi, ma pur sempre oscuri e darkeggianti come nel caso di “The Tower Of Babel” (a tratti "troubleggiante") e della possente title-track. La produzione è davvero superlativa, in grado di sfoderare un vero e proprio wall of sound molto convincente. Ottima “A New Man”, con la sua intro di basso che prelude all’ennesimo assalto all’arma bianca, così come – del resto – tutte le altre sette tracce residue, sempre perigliosamente in bilico tra le tre micidiali componenti del genere magistralmente rappresentato dalla band di Piombino. Consigliatissimo!

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Opinione inserita da MASSIMO GIANGREGORIO    25 Luglio, 2023
Ultimo aggiornamento: 25 Luglio, 2023
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Nonostante siano in circolazione fin dal 1984, i tedeschi Wardress (di Nürtingen, Baden-Württemberg) non si può certo dire che siano prolifici, se è vero, come è vero che finora hanno pubblicato solo “Dress for War”, full-length d'esordio nel 2019 - da cui sono stati estrapolati i due singoli “Dark Lord” e “Metal League” - e questa loro ultima opera, "Metal 'til the End". La copertina mi ha subito riportato alla mente quella dello strabiliante album dei Dark Angel (“Darkness Descend”), ma è solo una reminiscenza, perché il sound di questo quartetto teutonico ha tutti gli elementi del più tipico Power Metal centroeuropeo i cui precursori sono stati a vari Accept di Sua Maestà Udo Dirkschneider, gli Helloween di Kay Hansen e compagnia bella. I brani sono tutti massicci da morire, dall’incedere tipico del bulldozer guidato da uno schizofrenico paranoico o, se preferite, della asfaltatrice con il suo delicatissimo rullo compressore. A parte la pregevole cover di Re Ozzy (anch’essa resa più tosta di parecchio) infatti, restiamo ineluttabilmente travolti e schiacciati da mid-tempo vigorosi (eccezion fatta per la traccia omonima “Wardress”, ben più accelerata ma pur sempre pesantissima). Andy Setter dietro le pelli è una vera furia: picchia duro e preciso come pochi, facendo oscillare perigliosamente la testa, destinata a perdersi in un headbanging frenetico ed incontrollato/incontrollabile, assecondato com’è dal basso di Mirco Daugsch, che sembra aver preso lezioni da Mercalli e Richter in persona. Taglientissima l’ascia condotta e maneggiata da Kimon Roggenbuck, mai debordante ma di precisione chirurgica tale da accostarla più ad un bisturi. La voce di Erich Eysn è rimarchevole ma non mi ha entusiasmato: la potenza c’è tutta, l’ugola è all’altezza della situazione ma non conferisce all’ensamble quella marcia in più; ok, i margini di miglioramento ci sono tutti e sono ampi, per cui il ragazzo si rifarà certamente. Comunque, questa ultima annotazione non va certo ad inficiare la qualità di una release senza dubbio al di sopra della media del settore e che assolve molto bene al suo compito di perpetrare le lodi del Dio metallo; auspico solo che non ci mettano di nuovo una vita (come hanno fatto in passato) per partorire un’ulteriore creatura Hard & Heavy ma che tornino presto ad assalirci piacevolmente; d’altronde, lo stesso titolo dell’album è una promessa/minaccia: Metal ‘til the end! E così sia!

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Opinione inserita da MASSIMO GIANGREGORIO    22 Luglio, 2023
Ultimo aggiornamento: 22 Luglio, 2023
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Freddy Delirio è stato lo storico tastierista dei Death SS, con i quali ha un’ampia discografia da lui stesso prodotta a livello artistico (tra i molti dischi: "Ten", "Rock’n’Roll Armageddon", "Resurrection", "The Darkest Night" ecc.), a cui si aggiunge un’importantissima attività live da headliner (come nel caso dello Sweden Rock Festival, Gods of Metal ecc.). Cantante e fondatore degli H.A.R.E.M., con ventidue anni di discografia (Fuel Records - SELF Distribuzione) e concerti all’attivo, è produttore e sound engineer da oltre trent'anni (docente Production Bachelor Jam Academy). Proprietario dell’FP Recording Studio con centinaia di produzioni realizzate a livello internazionale, giunge ad un nuovo disco e progetto dal nome Delirio and the Phantoms. Nel 2012 ha dato alle tenebre (non certo alla luce..) il full-length "Journey", al quale hanno fatto seguito due singoli: "Another World" (2017) - poi riproposto in due versioni alternative - e "Guardian Angel" (2019) poi confluito nell'album "The Cross" dello stesso anno. A distanza di quattro anni, il nostro super tenebroso riemerge dal buio e si ripresenta con un combo in cui ha coinvolto il figlio Chris, anche lui polistrumentista, che apporta nuova linfa mortale al progetto horror-musicale, trasmutato in Delirio & i fantasmi: signori, il marchio di fabbrica è servito! Si, perché, fedele alle reminiscenze dei Death SS (la voce di Freddy ricorda molto quella di Steve Sylvester), la linea è rimasta quella di un ottimo Horror Rock a tinte fosche, in cui il gusto dell'orrido trasuda da ogni solco e da ogni nota. E, a proposito di nota, degna di nota è certamente la traccia "A Better Time", molto atmosferica, ma pur sempre in maniera atipica come Delirio ci ha abituato. Si respirano ambientazioni gotiche ed esoteriche con una sottile venatura di terrore che si snoda come un sottile filo rosso sangue lungo tutta l'opera fosca. Opera fosca in cui si annoverano ospiti d’altissimo livello: Kevin Riddles, lo storico bassista degli Angel Witch che ha suonato il basso direttamente nella stessa canzone “Free Man”, cover bonus track presente sia nel CD che nella versione digitale, da lui stesso scelta per questa collaborazione con i Delirio and the Phantoms. David Smith storico chitarrista dei Gypsy’s Kiss (prima band di Steve Harris degli Iron Maiden) alla chitarra, ospite all’interno dello stesso brano “Free Man”. A completare la lista dei numerosi ospiti presenti all’interno del disco: Eleonora De Medici, voce lirica in una "Once Again" molto evocativa, Lucky Balsamo alla chitarra, Jos Venturi al basso, Giuseppe Favia e il nostro collega di AAM Francesco Noli presenti nelle cover bonus tracks alla batteria, Chiara Peverelli, attrice, peraltro tutti presenti all’interno dei vari videoclip che vengono pubblicati settimanalmente nel canale YouTube dedicato. Insomma, una release veramente da brivido (vedi "In the Threshold"). In tutti i sensi.

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Opinione inserita da MASSIMO GIANGREGORIO    12 Luglio, 2023
Ultimo aggiornamento: 12 Luglio, 2023
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Il metallo a stelle e strisce ha donato alla causa innumerevoli bands che hanno contribuito a innalzarne i fasti, alcune delle quali calcano le roventi scene ed i roventi palchi da diversi decenni senza dare mai segni di cedimento alcuno. Tra queste possiamo annoverare – senza tema di smentita – i Jag Panzer: un gruppo che, quasi fin dagli albori dell’Heavy Metal, ha dato lustro alla celebrazione del metallo. Partiti nel 1981 da Colorado Spring, hanno snocciolato una sequenza incredibile di perverse creature, trasformando in musica i peggiori incubi e le tematiche da sempre care al nostro beneamato genere. Sì, perché – quando si parla di Jag Panzer – si parla di Heavy Metal che più potente non si può! Quello ultra-potente, quello che ti scassa le casse, quello che ti fa pogare fino all’inverosimile, quello che ti fa scatenare un headbanging come se non ci fosse un domani. Dieci sono le gemme che compongono questo loro ennesimo diadema, ultimo solo in ordine di tempo, che va ad arricchire un palmares invidiabile, composto da ben undici full-length, due EP, udici singoli, cinque demo e chi più ne ha, più ne metta. Certo, anche loro non sono stati esenti da turn over nella line up ma – tutto sommato – il nucleo centrale è sempre rimasto ai propri posti di combattimento, fedele ai comandi del Dio metallo, come incrollabili epigoni di un sound fatto di potenza, precisione, melodia e ritmi da infarto. Non a caso ho scritto di dieci perle, perché il livello qualitativo medio delle tracce che compongono questa release è davvero alto: dalla inziale “Bound As One” alla finale “Last Rites” è tutto un susseguirsi di scosse di terremoto, con il basso di Key in gran spolvero (specie in “Prey”) la batteria di Rikard implacabile, delle asce affilatissime (gli assoli di Ken sono virulenti e taglienti) e da un’ugola – quella di “The Tyrant” - degna dei mostri sacri dell’estensione vocale. Un album all’altezza della situazione sotto tutti i punti di vista, che – a sei anni di distanza da “The Deviant Chord” – ci restituisce dei Jag Panzer inossidabili ed in grado di dire la loro ancora per molto tempo nel metalrama internazionale.

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