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Opinione scritta da Luigi Macera Mascitelli

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    09 Agosto, 2022
Ultimo aggiornamento: 09 Agosto, 2022
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Ignoravo totalmente l'esistenza dei Dinbethes, one-man-band olandese nata dalla mente del mastermind J. che, come ogni realtà Black Metal di nicchia che si rispetti, è totalmente circondata da un'aura di mistero. Tradotto: a parte le pochissime info contenute nel presskit, non ci è dato sapere nient'altro, nemmeno i nomi di chi vi ha collaborato. Comunque sia, i Nostri debuttano con questo "Balans" sotto l'egida di Babylon Doom Cult Records e, vi anticipiamo subito, si tratta di un lavoro che potenzialmente ha degli ottimi spunti. Sul piatto, dunque, abbiamo cinque brani per circa 35 minuti di durata in cui il buon J. si cimenta ad esplorare i lidi atmosferici del Black Metal tinteggiando costantemente la sua proposta con pennellate vicine al Raw e alla scuola polacca. In definitiva potremmo dire che siamo all'interno di stilemi certamente conosciuti ma che qui offrono comunque buoni spunti all'ascoltatore, soprattutto in quelle sezioni dove le chitarre velenose - e molto basilari - entrano in quei loop ipnotici che creano lentamente l'illusione del nulla sopra il quale la mortifera voce del vocalist si staglia come uno scoglio sul quale si infrangono le onde. Ma, se da una parte ravvisiamo anche una certa maestria nel sapersi muovere in questi territori, dall'altra è palese l'ombra della ripetitività e, cosa più importante, una sensazione quasi di "impasto", come se la produzione non fosse riuscita a dare ad ogni strumento il suo giusto spazio preferendo invece buttare tutto dentro il calderone. Viene da sé che i punti negativi siano sicuramente maggiori di quelli positivi e non vi biasimiamo se durante l'ascolto vi verrà voglia di interrompere l'esperienza. A ciò, dicevamo, si aggiunga anche un songwriting tendenzialmente basic che poteva funzionare forse vent'anni fa, o comunque si sarebbe potuto sfruttare meglio. Ok la semplicità, nessuno la odia, anzi spesso meno è meglio di più; ma qui si rasenta fin troppo spesso il banale con pochissimi guizzi che, lo ripetiamo, ci fanno ben sperare nel futuro della band.

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4.5
Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    02 Agosto, 2022
Ultimo aggiornamento: 02 Agosto, 2022
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Signori, vi presento l'album Deathcore dell'anno: "Monarch", disco di debutto dei catalani Mankind Grief che DEVE necessariamente rientrare nel bagagliaio culturale di chi, oggi, vuole cimentarsi nel suddetto genere. Ora, del quartetto il sottoscritto ignorava totalmente l'esistenza, anche perché i Nostri alle spalle hanno pochissimo materiale che consta di due soli EP usciti in otto anni di carriera. Comunque sia, basta premere il tasto "Play" per rendersi conto che la band sia la classica perla rara che trovi in un mare sconfinato di piattume e roba tutta uguale. Il Deathcore imbastito da Isaac Green e soci è semplicemente devastante, potente in ogni suo aspetto e carico di una furia omicida che annichilisce ogni cosa sul suo cammino. Fortissimo dell'influenza dei Brand Of Sacrifice, il disco si dirama all'interno di un comparto ritmico che lascia spazio a zero dubbi: riff articolati e distruttivi sorretti da un comparto ritmico e melodico che rasentano la perfezione e la follia. Più volte sembra di imbattersi in una traccia della colonna sonora di Doom ad opera del geniale Mick Gordon, con quelle ritmiche simil-Djent che tuttavia spaziano tra i canoni classici del Deathcore fino a toccare più volte le bombe atomiche Slam. Non c'è una traccia che sia una a presentare il minimo segno di cedimento: a tal proposito vi invitiamo ad ascoltare "Planetary Inquisition" o la successiva title-track "Monarch". A nostro giudizio i due brani che, tra i nove proposti, meritano davvero la lode. Ecco, se esistesse un manuale su come si debba suonare il Deathcore di oggi, verrebbero sicuramente citate. Dalle vocals feroci di Isaac Green, che molto condivide con lo stile canoro degli olandesi Distant, fino alla combo Gòmez/Fornies alle asce che ci regalano un riffing oltremodo superlativo in ogni aspetto. Maturità, classe, ferocia, follia assassina, distruzione totale... tutto in questo "Monarch" trova la sua quadra e l'equilibrio perfetto. Discone da incorniciare e da tramandare ai posteri. Complimenti!

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    25 Luglio, 2022
Ultimo aggiornamento: 25 Luglio, 2022
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C'erano grandi aspettative per questo "Nail Below Nail", terza fatica dell'act neozelandese Organectomy. Una band che in dodici anni di attività è riuscita a ritagliarsi un ruolo di primaria importanza all'interno del panorama Slam/Brutal Death; e chi ascolta il genere sa quanto sia difficile emergere da una frangia del Death nella quale un buon 90% di gruppi propone sempre la stessa roba. Ecco, raccogliendo il retaggio di gente navigata ed esperta del settore come Abominable Putridity, Disgorge, Analepsy e Devourment, i Nostri con due album - e quello che andremo a vedere - hanno sviluppato un marchio tutto loro che sa prendere elementi tipicamente Slam ed altri più vicini al Brutal odierno per poi definire una linea guida. Da questo percorso, infine, è uscito fuori il qui presente "Nail Below Nail": disco, lo diciamo subito, che si configura il migliore della carriera del quintetto per i più svariati motivi. In primis potremmo far presente l'estrema maturità e competenza che Alex Paul e soci hanno dimostrato all'interno di un disco estremamente tecnico da un lato ma mai fine a se stesso dall'altro. Tradotto: non si tratta di una cieca dimostrazione di forza, per quanto trattasi di un album violentissimo. Al contrario i Nostri preferiscono fornirci un livello certamente altissimo ma sempre e comunque variegato: i passaggi si snodano dalle più classiche bombe nucleari e cadenzate a ferocissimi blast beat, pennellando costantemente il tutto con una maniacale dissonanza di fondo e soffocanti armonizzazioni. Da qui segue la maturità artistica accennata più su: "Nail Below Nail" è, indipendentemente dai gusti musicali, un'opera estremamente completa e raffinata, frutto di un ottimo connubio tra cervello e muscoli. Già, perché se poi vogliamo solamente guardare alla ferocia, beh, certamente qui troverete una carneficina di riff pesantissimi, resi ancora più marci e massicci da una produzione semplicemente perfetta - ULR è sempre ULR -. L'unico appunto che ci sentiamo di portare all'attenzione è quello che, nel bene o nel male, è un po' la firma degli Organectomy: la tendenza ad essere poco snelli sia nella durata che nel numero delle tracce. Ora, posto che molto ma molto difficilmente vi annoierete grazie all'andamento eterogeneo, va detto però che non si tratta di un ascolto semplice. O almeno, non se lo state ascoltando per la prima volta o se siete nuovi nel genere. In entrambi i casi potreste incontrare qualche intoppo, soprattutto nella seconda metà del disco dove, di tanto in tanto, i Nostri si perdono un po' per la via. Ma tolto questo frangente non ci resta che fare i complimenti al quintetto di Christchurch per aver confermato le già ottime impressioni che ci eravamo fatti con gli album precedenti. In sintesi: se volete una band degna rappresentante dello Slam/Brutal Death, gli Organectomy ne sono un perfetto esempio.

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3.5
Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    18 Luglio, 2022
Ultimo aggiornamento: 18 Luglio, 2022
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Avete mai sentito parlare dell’Ordo Ater Anguis? Per chi non lo conoscesse trattasi di un ordine di band Black Metal australiane sulla falsariga dell'Inner Circle norvegese degli anni '90. Con ovviamente le dovute differenze del caso, ma non c'era bisogno di dirlo. Comunque sia, in questo contingente militano, tra i tanti, i Pestilential Shadows, quartetto del New South Wales nato nel 2003 e dedito ad un Black Metal mortifero ed estremamente sentito, completamente coerente con gli stilemi della scuola Australiana e vagamente riconducibili agli ucraini Drudkh e al loro sound atmosferico e mortifero. Dicevamo come i Nostri siano dei fieri portavoce di un certo modo di intendere il Black, ed il qui presente "Revenant", sesto capitolo della band, ne è un più che valido esempio. Ora, i Pestilential Shadows ci hanno sempre convinto, attestandosi su di un livello certamente ottimo ma mai effettivamente eccelso. Tradotto: non si è mai potuto gridare al miracolo con le loro uscite. Potremmo quasi dire che si trovino nel posto giusto al momento giusto. Tuttavia quello che fanno lo sanno fare molto bene, in modo del tutto sentito e naturale, senza orpelli o forzature del genere. Questo è forse il loro miglior pregio, che nel disco in questione permea ogni singola traccia dando all'intera opera una splendida ed elegantissima aura mortifera. Ed è la morte la vera protagonista qui, solenne ed ineluttabile in tutta la sua austerità. Traccia dopo traccia il nero manto della mietitrice ricopre l'ascoltatore immergendolo in un limbo fatto di disperazione, di notte eterna... Scostandosi completamente dalla vena più Raw e oltranzista del genere, Balam e soci, poi, danno un retrogusto atmosferico particolarmente interessante che rende l'opera in questione estremamente legate e, come si diceva più su, vagamente riconducibile alla scuola Ucraina. Certamente non si può gridare al miracolo, soprattutto laddove i Nostri si lasciano andare in soluzioni scolastiche, per non dire scontate. In generale siamo di fronte ad un disco dinamico, che riesce comunque ad attirare a sé ben più di una fugace attenzione grazie ad un approccio fondamentalmente equilibrato e giusto, con qualche guizzo sorprendente a fare da contorno. Per noi un centro pieno che conferma e solidifica ulteriormente la posizione di rilievo dei Pestilential Shadows.

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    18 Luglio, 2022
Ultimo aggiornamento: 18 Luglio, 2022
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Oggi ci rivolgiamo ai fan della frangia più sporca, marcia e blasfema del Black/Death; quella che trasuda Archgoat, Morbosidad, Black Witchery e compagnia bella. Stiamo parlando degli statunitensi Hellfire Deathcrush e del loro ferocissimo "Al Nombre de la Muerte", terza opera targata Helter Skelter Productions / Regain Records. Un disco che, non smetteremo mai di dirlo, potrebbe essere tranquillamente la messa in musica di un buco nero per la sua furia distruttiva che non lascia spazio ad un singolo bagliore di luce. Collegandosi direttamente con le band sopracitate, dunque, i Nostri sono dal 2013 un caposaldo del Black/Death inteso nella sua forma più brutale ed oltranzista: questo terzo capitolo non fa nient'altro che riprendere la blasfemia allo stato puro, la sporcizia abissale e nera come la pece, la furia devastante del Death e dello Slam Death e le atmosfere tetre e velenose del Black ed unire il tutto sotto un'unica bandiera. Viene da sé che gli Hellfire Deathcrush non vogliano per nulla distaccarsi da queste coordinate, preferendo di contro un approccio più personale all'interno di stilemi più che conosciuti. Ora, è scontato fare dei paragoni con i finlandesi Archgoat, ma sono inevitabili. A differenza di questi ultimi, il trio statunitense preferisce concentrarsi maggiormente sul filone Death e soprattutto Slam. Non è un caso se più volte si ravvisa una vicinanza con gente come i norvegesi Kraanium, i pionieri dello Slam Death. Da qui segue quello che forse potrebbe essere l'unico difetto di questo disco melmoso: il fatto di non dare mai un singolo attimo di respiro; cosa che ad alcuni potrebbe piacere, altri invece potrebbero aver bisogno di un momento di respiro. Ma sembra proprio che i Nostri non vogliano nemmeno pensarci a dare un freno inibitore alla loro opera blasfema: tutto è impastato e denso come il catrame, dalla voce in pig growl super cavernosa che per 35 minuti non accenna a variare di una sola pagliuzza, fino alla batteria tiratissima e serrata da inizio a fine, così come i riff ovattatissimi al limite di un boato. Eppure, come si diceva all'inizio, chi è fan del genere non potrà non riconoscere come Apocalyptic Genocidal Desecrator e soci non siano certamente personaggi alle prime armi: in un calderone così marcio e blasfemo si intravede comunque una certa esperienza nel settore, motivo per il quale il disco è sì di difficile fruizione, ma comunque riesce a spaziare e a dare all'ascoltatore delle tracce più cadenzate ("Divinities Damnation) e altre che sembrano delle sfuriate di Death/Grind ("Beneath the Black Moons Incantation"). Da parte nostra questo "Al Nombre de la Muerte" passa a pieni voti la prova configurandosi come la miglior uscita degli Hellfire Deathcrush. Consigliatissimo!

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3.5
Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    13 Luglio, 2022
Ultimo aggiornamento: 13 Luglio, 2022
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Debuttano nel panorama Slam Deathcore i francesi Kanine con una proposta rivolta ai fan della scuola Dismbemberment, Acrania, Within Destruction e compagnia bella. Con "Karnage", licenziato da Lacerated Enemy, dunque, i Nostri vogliono entrare a gamba tesa in questa frangia del mondo -core, e fondamentalmente ci riescono abbastanza bene e senza troppe pretese. Ora, stiamo parlando comunque di una delle ramificazioni del genere Slam: viene da sé che o vi piace il genere o non vi piace; non esistono mezzi termini. Perciò se siete tra quelli che trovano noiosi o poco appetibili i lavori in questione, allora vi invitiamo subito a passare oltre. Altrimenti benvenuti, perché seppur i Kanine non brillino per iniziativa od inventiva, è pur vero che ci sono non pochi elementi che se sviluppati a dovere potrebbero certamente portare la band su dei livelli nettamente superiori.
Dicevamo come il quartetto di Strasburgo sia fondamentalmente nuovo nel settore - almeno questo si capisce cercando online - perciò è comprensibile come "Karnage" sia un capitolo ancora non del tutto definito. In particolare notiamo come soprattutto nella prima metà del disco ci sia una tendenza ad essere scolastici: soluzioni ed approcci ripresi direttamente dalle band succitate in apertura ma poco sviluppate. Dalle parti cadenzate intervallate dal tappeto di batteria fino ai momenti groove appesantiti dal potentissimo growl del vocalist. Sulla carta nulla di nuovo e fondamentalmente lo "starter pack" dello Slam. Ma dalla traccia "Abysses" e la successiva ed omonima in poi le cose cambiano; o almeno, si intravedono degli elementi estremamente interessanti. Innanzitutto dei guizzi Nu Metal che potrebbero avvicinare i Kanine agli Slaughter To Prevail; infine alcune sezioni melodiche e dissonanti molto ma molto malate riprese dal panorama Deathcore/Downtempo (vedasi gli olandesi Distant a tal proposito) ed innesti elettronici. Insomma, è dalla seconda metà in poi che il quartetto francese si scrolla di dosso il compitino in favore di un prodotto più personale e deciso. Da qui ribadiamo quanto affermato più sopra: bisogna spingere l'acceleratore proprio laddove l'album sembra volersi addentrare in territori un po' più lontani dal mondo Slam. Non che i brani più "classici" siano brutti; semplicemente risultano anonimi e basic. Quindi sarebbe buona cosa aggiustare il tiro se in futuro si vorrà dare quel guizzo in più a tutta l'opera. Altrimenti bene così, ma non si andrà oltre il 6 politico.

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2.5
Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    13 Luglio, 2022
Ultimo aggiornamento: 13 Luglio, 2022
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Arriva al suo debutto la one-man-band giapponese In Nothingness, progetto nato da tal Lord Nothingness, artista piuttosto attivo nel panorama Death del Sol Levante. La proposta di Kenta Inoue in questo "Black Sun Funeral" è semplice, forse fin troppo semplice: Melodic Death Metal della scuola di Göteborg anni '90. Stop, nient'altro da dire. Un album che, produzione ottima a parte, fatichiamo ad inquadrare: trattasi di un disco meramente citazionistico nei confronti della scena scandinava o di un semplice copia/incolla? Se si tratta della prima beh, tanto di cappello perché sembra davvero un album messo nel freezer nel 1995 e poi scongelato solo ora. Se, come temiamo, è la seconda opzione a farla da padrona, allora ci tocca sicuramente apprezzare e lodare il lavoro complessivo, ma va detto che sembra la versione 2.0 di "The Jester Race" degli In Flames. Anzi, sembra proprio che gli In Nothingness nemmeno vogliano provarci a mettere del loro in questa prova, preferendo invece agganciarsi a soluzioni che funzionano sì al 100%, ma che di nuovo o personale non hanno niente di niente. Tutto insomma lascia pensare ad un disco "scritto", pensato e suonato con il solo intento di copiare come uno stampino il Melodeath svedese. Azzardiamo a dire perfino che in alcuni punti sembra proprio di sentire soluzioni e passaggi dei primi In Flames ritagliati ed incollati ad arte. In definitiva, disco bocciato perché lo riteniamo solo un tentativo di emulare altra gente senza nemmeno provare a metterci del proprio. Unica cosa che si salva: la produzione.

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5.0
Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    05 Luglio, 2022
Ultimo aggiornamento: 08 Luglio, 2022
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Chi conosce il progetto Saor e lo ascolta sin da "Roots" del 2013 sa già che ogni nuova uscita del mastermind scozzese Andy Marshall è un viaggio indietro nel tempo nelle terre selvagge inglesi dove solo la natura, la nebbia, il freddo ed il silenzio sono i veri protagonisti. Sonorità che potrebbero tranquillamente ricordare le splendide riprese de "Il Signore Degli Anelli" in Nuova Zelanda per intenderci. Dunque era quasi scontato che questo "Origins", quinto capitolo della carriera, firmato Season On Mist (il primo sotto questa etichetta), fosse un capolavoro unico nel suo genere. Eppure di scontato qui c'è molto poco, perché se da un lato lo riconosci in meno di un secondo che si tratta di un lavoro al 100% Saor, dall'altro abbiamo delle importanti novità che certamente rendono l'opera perfettamente in linea con la discografia, ma al contempo le danno numerose tinte nuove. In primis vogliamo sottolineare quanto la definizione "Caledonian Metal" sia sempre più calzante (da qui anche l'unicità a cui accennavamo prima): elementi Black Metal, Pagan, Folk, musiche scozzesi, violini, flauti, clean vocals... Tutto qui si mischia, si unisce, gioca e danza creando una sinergia tra le parti praticamente perfetta. Insomma, il marchio di fabbrica dei Saor che hanno fatto della Scozia e delle sonorità e leggende ad essa legate la loro linfa vitale. Ma, dicevamo, qui c'è molto di più rispetto alle opere precedenti che spesso sono state criticate per un modus operandi tendenzialmente adagiato sugli allori, come se Mr. Marshall si fosse ritagliato un suo angolino senza però mai cercare di uscirne. Ecco, qui quella sensazione viene meno, a cominciare dagli elementi Black maggiormente limitati e relegati alle sfuriate battagliere ed epiche ed allo scream; ma comunque, soprattutto per le prime, si tratta di passaggi centellinati e molto più ragionati. Di contro, abbiamo una maggiore enfasi delle sezioni Pagan e Folk, con un accenno a quella componente vagamente Agalloch e Alcest che ne viene fuori. Per quanto riguarda i vari strumenti come corni, violini cornamuse, tamburi tribali ecc., qui abbiamo l'imbarazzo della scelta. Se non fosse per l'evidente base Heavy Metal delle chitarre, che si sono appesantite o comunque sono state molto più enfatizzate, alcune parti richiamerebbero assai da vicino i norvegesi Wardruna. È evidente, dunque, che Andy Marshall in questi anni abbia variato molto le sue influenze e le sue scelte stilistiche, per poi riordinare le idee in questo "Origins". Un album, lo ripetiamo, estremamente eterogeneo, che sa farti piangere ed emozionare o farti venire la pelle d'oca per la fierezza battagliera con cui si presenta (vedasi "Beyond The Wall" o la traccia omonima che chiude il disco). Dal nostro punto di vista un centro pieno. Chiaro, si tratta comunque di un genere che non piace a tutti, ma se invece amate il progetto e queste derive del Metal beh, signori, premete il tasto "Play", chiudete gli occhi ed tuffatevi in questo viaggio onirico.

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    05 Luglio, 2022
Ultimo aggiornamento: 08 Luglio, 2022
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Chi si aspettava da questo "Unheeded Warnings of Decay", primo full-length dei nostrani Instigate licenziato da Everlasting Spew Records, un album della madonna, beh aveva pienamente ragione. Cosa vuoi dire ad una band nata dai membri di Bloodtruth e Demiurgon? E, aggiungiamo, cosa vuoi dire ad una band che tra le fila ha reclutato il mitico Francesco Paoli dei Fleshgod Apocalypse per registrare la batteria di questo disco? Esatto, niente; puoi solo esclamare "me co*oni!", chinare il capo e farti investire da tutta la maestria e l'ignoranza di chi, a buon diritto, detta legge in fatto di Death Metal italiano. Se già l'EP di debutto ci aveva affascinato per la sua ferocia, è tuttavia qui che gli Instigate esplodono al 100% del loro potenziale, soprattutto per una differenza non da poco: il cambio di batterista. Nel 2020 dietro le pelli c'era il fenomenale Kevin Talley, artista di indubbia e riconosciuta classe e bravura che diede non poco il suo contributo nelle tre tracce dell'EP. All'inizio, dunque, gli Instigate si ponevano a metà tra il Death Metal ed il Grindcore, con una proposta a dir poco disumana. Ma con l'entrata di Paoli l'ago della bilancia si è decisamente spostato di più sul versante Death, con una prova che definire perfetta ed impeccabile sarebbe oltremodo riduttivo. Ed eccoci qui, con questi nuovi Instigate, ancora più feroci ed incazzati che ci regalano circa 35 minuti di ignoranza a secchiate che devasta, distrugge e polverizza ogni cosa. Se avete amato i Coffin Birth (altra band italo-maltese con Paoli e membri di Hour Of Penance e Beheaded), allora qui troverete un disco che segue esattamente quel filone, ossia la frangia più feroce e brutale del Death Metal classico, senza i moderni innesti Slam o le derive Grind che dir si voglia. Praticamente un treno merci a tutta velocità che ti arriva in faccia. Dalle blastate al fulmicotone, passando per il riffing serrato e granitico come un macigno, fino ancora alle sezioni più groove in cui i nostri si cimentano in breakdowns spaccaossa... non c'è niente in questo "Unheeded Warnings of Decay" che faccia calare di una minima pagliuzza l'asticella; né, tantomeno, un singolo elemento che non sia al suo posto. Qui tutto è perfetto, elevato a potenza e pregno dell'incredibile maestria di gente che il Death Metal lo vive e lo domina. Ed è esattamente questo il motivo per il quale riteniamo il lavoro di Borciani e soci un discone: la maestria e la classe con cui è suonato. Tutti possono suonare Death Metal classico; ma quasi nessuno riesce a suonarlo così, con questa verve, con questi suoni, con questi passaggi... Insomma, o hai le palle sotto o resterai sempre relegato nella media. E qui di medio c'è solo il dito che gli Instigate mandano a chi pensa di poterli spodestare. Dormite sonni tranquilli, il Death Metal italiano avrà ancora per molto delle guide di questo calibro. I miei personalissimi complimenti alla band!

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    28 Giugno, 2022
Ultimo aggiornamento: 28 Giugno, 2022
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In anni e anni di Death Metal questa è la prima volta che mi imbatto in un disco così disturbante come questo "/the_Depths", primissima uscita e debutto autoprodotto degli statunitensi Rotted Through - ci scusiamo per l'enorme ritardo -. Ma andiamo con ordine. Ora, il mondo splatter e gore nelle sue forme più malate e violente è un tema ampiamente trattato nel Metal: dai famosissimi Cannibal Corpse ai gruppi underground sconosciuti con le copertine più truci e crude. Insomma, è una tematica molto prolifica. Ecco, i Rotted Through rientrano perfettamente in questo secondo filone, ma non per la copertina che è normalissima, quanto per il tema di questo concept: il Dark Web. Ora, per spiegare a quei pochi che non sanno cosa sia il Dark (o Deep) Web, prendiamo l'immagine di un iceberg: la parte più piccola che fuoriesce dall'acqua è il Web normale, con i classici siti normalmente accessibili; la parte più vasta e grande sommersa, invece, va a costituire tutta quella serie di siti non indicizzati ed impossibili da visitare se non si hanno gli strumenti giusti. Il Dark Web è stato spessissimo usato per commettere crimini di ogni tipo: dalle truffe, alla vendita di armi illegali fino alla condivisione di materiale pedopornografico, video di esecuzioni, stupri e tutte le perversioni più animalesche ed indicibili. Immaginate, per tornare al discorso, un album ispirato a questo e quindi a qualcosa di reale. Inoltre la cosa malatissima dei Rotted Through è che il loro sound diventa sempre più pesante e disturbato ad ogni traccia, proprio per simboleggiare questa discesa nei meandri più malati del Web - e della natura umana -. Non è un caso che l'ultimo brano "That Which Is Abysmal" sia ispirato alla, forse, storia di infanticidio più brutale mai avvenuta nel mondo: quella per mano del criminale Peter Gerard Scully nei confronti di una bimba di 18 mesi, Daisy. Non è difficile trovarne notizie: roba che va oltre i livelli della perversione e della malattia mentale. ARTISTICAMENTE parlando un brano - anzi, un album - ispirato a tutto ciò è una figata.
Comunque, a livello stilistico i Rotted Through si inseriscono nel filone del Death Metal americano, con un costante rimando ai Cannibal Corpse fino allo Slam più feroce e brutale, ma senza mai ricadere in pieno negli stilemi di quest'ultimo. Anzi, sottolineiamo invece come i Nostri siano riusciti a dare alla luce un album perfettamente equilibrato che si addentra nei meandri più feroci del Death ma restando comunque in un raggio d'azione ampio ed eterogeneo. C'è perfino posto per un'azzeccatissima vena melodica che permea di follia tutto l'ascolto; e visto il tema direi proprio che ci casca a pennello. L'unica pecca è forse una produzione troppo "basic" che fa perfettamente il suo lavoro ma risulta un po' troppo scarna e piatta.
In definitiva, questo "/the_Depths" ci presenta una band con un potenziale mastodontico: arrivare a pensare un concept di questo tipo, con le tracce che si appesantiscono man mano che si va avanti non è roba da tutti. Band da tenere ASSOLUTAMENTE d'occhio e che ha tutte le caratteristiche per fare salto di qualità. Complimenti!

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473 risultati - visualizzati 61 - 70 « 1 ... 4 5 6 7 8 9 ... 10 48 »
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