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Opinione scritta da Chiara

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3.0
Opinione inserita da Chiara    01 Aprile, 2015
Ultimo aggiornamento: 01 Aprile, 2015
Top 50 Opinionisti  -  

Cosa aspettarsi da un gruppo di metallari finlandesi, che si presenta come un’unica entità? E se questa entità è un macellaio? Di sicuro un lavoro di qualità, perché la Finlandia è nota per avere dato i natali a fior fior di metalheads. E d’altra parte ci si aspetta un sound degno della colonna sonora di un film di Rob Zombie. Bene, i Gian, quintetto death/thrashcore al debutto discografico con “All Life Erased”, riescono almeno in parte a soddisfare le aspettative.

Le “pecche” dell’album sono attribuibili alla relativa inesperienza e ai numerosi cambi di line-up che, si sa, non aiutano in termini di coerenza stilistica. E qui calza a pennello la definizione di “macellaio”: mi piace immaginare i Gian intenti a “macellare” metaforicamente (e in senso positivo) suoni e stili per riproporli in una ricetta sfiziosa, ma non sempre lineare. Forse le tre voci, ognuna con uno stile differente (screaming, growling, pulito), sono un po’ troppe da gestire con disinvoltura, come succede in “Aggression Unleashed”, per esempio, che presenta anche una serie di “start and stop” poco fruibili. Ma ciò che dei Gian mi ha colpito maggiormente è la capacità di ricreare atmosfere orrorifiche davvero efficaci: non sono pochi i pezzi di “All Life Erased (uno su tutti “No Absolution”, una delle composizioni meglio riuscite) in cui urla agghiaccianti che fanno concorrenza ai lamenti dei dannati si sollevano prepotentemente da un tappeto sonoro fatto di riff frenetici e basi ritmiche martellanti. “Bloodstorm” è una piccola perla leggermente blackeggiante, mentre “Pain And Pleasure” è un crescendo esplosivo con un finale al cardiopalma.

Ma scordatevi di trovare ritornelli catchy in “All Life Erased”. Per fortuna, pur appartenendo al filone del modern metal, i Gian snobbano gli anthem furbetti e l’uso smodato dell’elettronica tipico di molte band ascrivibili a questo sottogenere, preferendo un approccio più estremo. Ci sono ancora un paio di angoli da smussare, ma complessivamente siamo sulla buona strada: rimaniamo in attesa di vedere cosa ci riserverà il futuro.

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3.5
Opinione inserita da Chiara    31 Marzo, 2015
Top 50 Opinionisti  -  

Mi è bastato un solo ascolto di “First World Breakdown”, la seconda fatica di studio dei tedeschi Dying Gorgeous Lies, per iniziare a canticchiare i ritornelli delle dieci canzoni dell’album. Ci troviamo di fronte infatti a una piccola orda di inni, studiati apposta per entrare nella testa dell’ascoltatore e tormentarlo nei momenti meno opportuni: i Dying Gorgeous Lies hanno raggiunto in pieno il loro obiettivo, se era quello di non essere facilmente dimenticati. Se poi alla ricetta alchemica aggiungiamo anche una frontwoman bella e terribile come Liz Gorgeous, il successo è assicurato.

Lisa Minet infatti, appartiene a una nuova generazione di vocalist, ben diversa per esempio da quella di Cristina Scabbia o Tarja Turunen, perché nel caso di Liz la melodia non è contemplata: il suo è il ruggito di una leonessa thrash, poco propensa alla dolcezza e ai virtuosismi ma efficacissima e diretta. E poi, quanti gruppi thrash possono vantare non solo una frontwoman, ma una vocalist che dà parecchio filo da torcere e non ha nulla da invidiare rispetto ai suoi colleghi maschi? Ha delle corde vocali da urlo, scusate il gioco di parole. E scusate se è poco. Scendendo nei dettagli delle singole canzoni, “Rise Again” è, come la maggior parte delle canzoni di “First World Breakdown”, un ottimo amalgama di riff heavy al punto giusto con un ritornello orecchiabile di sicuro effetto, mentre “Join My Hate” aggiunge a tutti questi elementi un finale stile plotone di esecuzione con virtuosismi alla Iron Maiden più che gradevoli. L’album presenta inoltre un paio di featuring gustosi, “Schein” con Nord degli Hämatom e “Jay” con Markus A. Giestl dei Black Mile, entrambe band piuttosto note del sottobosco underground teutonico: è proprio in “Schein” che la voce di Liz Gorgeous si fa più incisiva, coadiuvata dal testo cantato in tedesco, che amplifica la sua energia e cattiveria a mille. “No.759”, con il suo “this is me” ripetuto con una certa insistenza, è una vera e propria dichiarazione di identità dei Dying Gorgeous Lies, che non vedono l’ora di emergere nel panorama della musica metal urlando a gran voce. Per finire, “United” è l’anthem definitivo, un pezzo corale che dal vivo, con l’aiuto dei fan, ha ottime probabilità di diventare un vero e proprio pezzo da stadio.

Lavoro tecnicamente ineccepibile (i componenti dei DGL sono tutti musicisti di livello), ma il vero carattere distintivo sta nell’avere nella line-up una vocalist unica nel suo genere come Lisa Minet.

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Opinione inserita da Chiara    28 Marzo, 2015
Ultimo aggiornamento: 31 Marzo, 2015
Top 50 Opinionisti  -  

Le prime parole che mi sono venute in mente durante l’ascolto di “25th Century Blood” dei Pigspeed sono state “Gore Obsessed”. Lo so, i cinque musicisti lombardi possono sembrare stilisticamente molto lontani dai Cannibal Corpse, ma non poi così tanto. Soprattutto quando si parla di ossessione per il sangue. Perché di sangue in questo album ce n’è parecchio, che siano gocce, pozze, schizzi o fiumi (lo scioglilingua di “Bleeding Blood On The Blooded Blood” ne è un esempio). Infatti mi sento di poter parlare in questo caso di thrash-gore, perché i Pigspeed riescono a coniugare le sonorità thrash all’immaginario death fatto di squartamenti e sbudellamenti assortiti (basti vedere le foto promozionali della band, mentre sono intenti a contendersi pezzi di carne a colpi di mannaia). Come dicevano gli Slayer, “Raining Blood”!

“25th Century Blood” è compatto, un bel pugno in faccia che mi ricorda per certi versi quello della copertina di “Vulgar Display Of Power” dei Pantera. E le influenze di Fausto, Diego, Kama, Angelo e Fabiano sono da cercarsi nel thrash più spinto della leggendaria band texana, oltre che nei Sepultura di “Chaos A.D” (che vengono omaggiati nella cover di “Biotech Is Godzilla”). L’episodio secondo me più riuscito del lavoro, nonostante il titolo repellente, è “Pus”, con un ottimo background percussivo alla “Roots Bloody Roots” e un ritornello alla Alice In Chains (non sto scherzando).

I Pigspeed non sono di primo pelo (infatti, come suggerisce il titolo stesso dell’album, nel 2014 hanno festeggiato ben venticinque anni di attività) e sanno bene come dimostrare l’esperienza acquisita nel tempo: l’ottima tecnica che pervade il lavoro è evidente per esempio in “Born”, che conquista da subito con i suoi inserti melodici, entrando nel cervello a mo’ di tarlo (i “die” finali sono da manuale), e in “Alone”, composizione che riassume al meglio gli stilemi del thrash.
Il disco chiude con una versione live di “Mellow Yellow” (ma Donovan non c’entra nulla), a testimonianza del fatto che i Pigspeed ci sanno fare anche dal vivo. E infatti il prossimo concerto non me lo perderò, poco ma sicuro.

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3.5
Opinione inserita da Chiara    26 Marzo, 2015
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“We all have day jobs but we feel like party like it’s 1984”: ecco la dichiarazione di intenti di questi cinque ragazzoni tedeschi che, come ogni buon thrasher che si rispetti, hanno poche idee in testa ma ben chiare. L’importante è che non finisca la birra! Con il giusto carburante infatti, sono riusciti ad arrivare a un buon risultato. “Untrue Like A Boss” è una thrashata in piena regola, ed è il terzo lavoro di studio dei Prophecy 23, una giovane band che in Germania gode di una discreta fama.

Ognuno dei tredici pezzi (quattordici, se contiamo anche la bonus track) che compongono “Untrue Like A Boss” è uno slogan dell’action metal di cui i cinque di Heilbronn sono fieri portavoce, e non esitano ad inneggiare alle passioni tipicamente nerd per i videogiochi (“Video Games Ain’t No Shame”), per il wrestling (“The Greatest Wrestling Fan”) o per mostriciattoli di varia natura (vedi l’artwork della copertina, che riassume per immagini questi e altri elementi della sottocultura geek). Ciò che emerge dall’ascolto di “Untrue Like A Boss”, oltre ad un’invidiabile autoironia, è l’amore sviscerato dei Prophecy 23 nei confronti del metal anni ’80 e delle sue tradizioni come il tape trading che, ahimè, si sono perse con l’avvento delle nuove tecnologie. Ma venendo alla musica, le influenze skater/hardcore alla D.R.I. e Suicidal Tendencies fanno dell’album un buon punto di partenza per tutti i giovani della generazione attuale che si vogliono avvicinare ad un genere molto lontano cronologicamente e stilisticamente dalla loro sensibilità. Il concept dell’album è riassunto alla perfezione in “Action Metal”, pezzo in cui le voci thrash di Hannes Klopprogge e death di Philipp Heckel si intersecano in un piacevole alternarsi, lasciando spazio a una sezione doom tanto inaspettata quanto pregevole. La componente goliardica cui accennavo poco sopra trova il suo sfogo principale in “Bass Player”, una simpatica baruffa tra musicisti. I nostri, però, sono anche capaci di farsi seri in un attimo, come testimonia “The Ballad Of Old School Metal”, una vera e propria dichiarazione d’amore condita da abbondanti dosi di doppio pedale al caro vecchio metallo, che a detta di alcuni sarà anche morto, ma continua a vivere nei nostri cuori.

Alla fine rimane irrisolto il mistero alla base del nome della band (sono molteplici le teorie sul significato della “profezia del 23”, nessuna delle quali accreditata), ma sapete una cosa? Chi se ne frega. Finché ci si diverte…

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4.0
Opinione inserita da Chiara    25 Marzo, 2015
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Quando si parla di musica underground italiana, il rischio è sempre quello di lasciarsi trascinare dalla retorica “da museo”, considerando le band di questa corrente quasi come delle bestie rare, da tenere sotto vetro per la loro particolarità e al massimo da paragonare a “colleghi” internazionali. Scavando a fondo però si possono trovare molteplici realtà parecchio interessanti. È il caso dei Six Days Of May, quintetto milanese alla prima prova discografica dopo il rodaggio con l’EP “Pneumatic Ego” del 2012. La band di certo non si limita ad omaggiare gli artisti da cui trae ispirazione, ma ne rielabora le sonorità per costruirsi una propria identità musicale, originale e piena di sorprese. Proprio così, “Lymph” è un gran bel disco, curato nei minimi dettagli. A partire dall’artwork della copertina, con quella “linfa industrial” che in qualche modo riesce a infondere la vita nel cemento, fino ad arrivare al songwriting pulito e immediato. Le dodici tracce del lavoro non lasciano un attimo di fiato tra una e l’altra, e i ritmi, sebbene propri di diversi generi musicali, sono molto serrati. Ma andiamo con ordine.

Se il metalcore dei Bullet For My Valentine la fa da padrone nella maggior parte dei pezzi (uno su tutti “Take A Look At The Ocean”), proprio come per i brani della band gallese non mancano i veri e propri “anthem” da cantare a squarciagola, come quel “We won’t give up!” in “Walk Of Failure”, che rimane incollato al cervello fin dal primo ascolto. L’altro filone che si dipana attraverso “Lymph” è quello dell’elettronica e dei Bring Me The Horizon di “Sempiternal”: “Spring Break” ne è un esempio lampante.

E l’accoppiata melodia/aggressività raggiunge il suo apice in “The Morning You Collapsed”, dove il cantato, ad un certo punto, si trasforma quasi in un growl degno di un Corey Taylor in grande spolvero. La summa dell’originalità dei Six Days Of May sta in “A.N.I.A.”, una melodia elettronica dall’effetto straniante ma molto riuscito, e in “Get Your Fucking Hands Off Me”, un amalgama metalcore e dubstep con inserti rap. L’episodio più radiofonico di “Lymph” è “Stubborn”, pezzo di chiusura dell’album che chiosa alla perfezione un lavoro ben confezionato ed eseguito ancor meglio. Non resta altro che aspettare la prossima fatica della band.

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