Opinione scritta da Ninni Cangiano
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Top 10 opinionisti -
Avevo conosciuto gli americani Seven Kingdoms diversi anni fa all’epoca del loro quarto album “Decennium” che non mi aveva convinto particolarmente, soprattutto per via della prestazione non eccelsa della cantante; ritrovo oggi la band con un EP, intitolato “The square”, composto da 5 pezzi per la durata totale attorno ai 20 minuti. Fortunatamente, nonostante siano rimasti gli stessi protagonisti, il gruppo della Florida ha fatto passi da gigante; in primis, Sabrina Valentine è migliorata tantissimo in espressività e versatilità, evitando di andare a cercare sempre le note più alte, ma dando calore e colore alla propria interpretazione, risultando così più convincente nel suo ruolo. Anche i musicisti si sono un attimo ridimensionati; il power metal della band non è più così veloce e mutuato dai Dragonforce, ma più meditato e meno derivativo (oserei usare anche il termine “personale”, quasi che il sound della band abbia un proprio trademark). Ho apprezzato tantissimo la prestazione del basso (non ne è stato reso noto l’autore) che è protagonista alla pari delle due chitarre di Kevin Byrd e Camden Cruz, mentre l’altro Byrd (Keith) alla batteria pesta sempre come si deve, dando comunque un ritmo frizzante e brillante, ma mai esageratamente veloce. Si sente anche ogni tanto una tastiera, ma anche qui non ne è stato reso noto l’autore. I vari ascolti dati a questo EP sono sempre stati gradevoli, grazie anche ad una produzione pressoché perfetta che mette nella giusta evidenza i vari strumenti e la voce (sulla quale ogni tanto notiamo effetti piazzati sapientemente); persino l’ultima traccia, la cover di “Kyrie” dei Mr. Mister, gruppo pop-rock americano degli anni ’80, non dispiace più di tanto, pur risultando alquanto avulsa dal contesto (onestamente se ne poteva fare a meno!). Se le premesse sono queste, non vedo l’ora di ascoltare il prossimo full-length dei Seven Kingdoms, dato che con questo “The square” hanno realizzato un disco davvero molto piacevole!
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I Valkyrie’s Fire sono una symphonic power metal band nata a Nashville in Tennessee nel 2020 per iniziativa del bassista Dave Hale, cui pian pianino si sono uniti i vari membri, iniziando dal cantante Adam Sanders nel 2021, fino ad arrivare alla soprano Beth “Bettie” Floyd, unitasi al gruppo nel 2023. In questo mese di novembre 2024, il quintetto americano arriva al debutto discografico con questo EP (o mini-LP, scegliete voi) intitolato “Ascension”, composto da 5 pezzi per la durata totale di circa 22 minuti. Naturalmente, suonando power sinfonico, le influenze della musica classica si sentono eccome, iniziando dall’opener “Ride of the Valkyrie”, mutuata dall’omonima di Richard Wagner; anche la cantante sfrutta le sue doti canore con qualche passaggio lirico; fortunatamente il songwriting è intelligente e non abusa dei liricismi della vocalist, così da non renderne stucchevole la prestazione; la Floyd, invece, usa le doti che madre natura le ha conferito in maniera convincente, dimostrando una non comune versatilità ed espressività che le consente di spaziare tra vari stili di cantato. Non male anche le capacità dell’altro cantante, Adam Sanders, che è ottimo protagonista nella quarta traccia “Nectar of the Gods”, quella meno sinfonica della scaletta. Non ho trovato nulla che non vada in queste 5 canzoni che, anzi, scorrono via molto piacevolmente e si lasciano ascoltare e ri-ascoltare senza alcuna difficoltà, segno che il songwriting è ben fatto e decisamente convincente. Vengono, infatti, evitate esagerazioni che alcune bands dedite al symphonic invece tendono a commettere, forse per inesperienza o per la voglia di strafare; i Valkyrie’s Fire, al contrario, hanno sempre ben presente la struttura dei singoli componimenti e non si perdono in inutili ammennicoli. A questa maniera, grazie anche alle ottime capacità dei due cantanti ed al talento dei vari musicisti, l’ascolto è sempre gradevole ed andrei a scomodare gente come i Temperance, a titolo di paragone per la fruibilità della proposta musicale. Unico neo che, però, potrebbe dipendere dalla qualità non eccelsa dei files avuti a disposizione per questa recensione, è il fatto che in alcuni momenti la musica è registrata a volume troppo alto ed il suono tende a distorcere; mi auguro che sul cd la produzione sia perfetta e non abbia questa problematica. Nel 2024 abbiamo avuto un sacco di opere prime di ottima qualità, adesso bisognerà aggiungere sicuramente questo “Ascension” degli americani Valkyrie’s Fire, gruppo a cui prestare la massima attenzione, dato che, con simili basi di partenza, promette grandi cose per il futuro!
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Con in copertina una donna-fabbro alquanto scollata, i californiani Pounder rilasciano il loro terzo LP intitolato “Thunderforged”, uscito per la label Shadow Kingdom Records. Il sound del gruppo americano è un classicissimo heavy metal, molto legato alla tradizione di gruppi come Judas, Irons & C.; nulla di nuovo insomma, o che non abbiano suonato in migliaia prima di loro (ed anche meglio, ad onor del vero). E’ però abbastanza evidente che al trio di Los Angeles non interessa minimamente essere originali o innovativi, dato che suonano la musica che amano fottendosene altamente delle mode e del tempo che passa. Fin qui nulla di male, ci mancherebbe, ma in questo disco (composto da 8 pezzi per circa 40 minuti di durata totale) ci sono alcuni particolari che finiscono per compromettere il risultato finale. In primis la produzione è decisamente vintage e non al passo coi tempi, particolare che personalmente ha stancato ampiamente: non siamo nel 1984, ma sono passati 40 anni! E la tecnologia permetterebbe, ad esempio, di assaporare meglio il rullante della batteria (a proposito, non si sa chi l’abbia suonata, dato che non è stato reso noto) che invece ha il fastidioso effetto da “fustino del detersivo”; si potrebbe anche ascoltare meglio il basso di Alejandro Corredor che, invece, è nell’impasto sonoro fin troppo in sottofondo. Ma il vero tallone d’Achille è il vocalist Matt Harvey che meglio farebbe a concentrarsi solo sulla sua chitarra ed a lasciare il microfono a qualcuno a cui la natura ha donato un’ugola migliore. Il suo stile è fin troppo sporco ed alquanto monocorde, mandando a farsi benedire l’espressività; in canzoni come, ad esempio, “Get pounded” (che sarebbe anche piacevole) si sente forte la mancanza di un cantante degno di tal nome. C’è poi il songwriting che, in alcuni casi, tende ad esagerare, come se la band volesse strafare negli assoli ed “allungare il brodo” per forza, sacrificando l’efficacia dei singoli componimenti (l’accoppiata finale di canzoni ne è un esempio). Confesso di aver faticato ad ascoltare più e più volte questo full-length; dispiace dirlo, ma in “Thunderforged” i pregi sono alquanto inferiori ai difetti; c’è di meglio, molto di meglio in giro e, continuando a questa maniera, dubito che i Pounder possano mai uscire dall’underground. Good luck guys!
Ultimo aggiornamento: 02 Novembre, 2024
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I MinstreliX arrivano da Osaka in Giappone, dove sono attivi da ormai 20 anni; nella loro carriera hanno realizzato numerosi singoli ed EP, oltre a ben 6 LP, di cui questo “Minstrelics” è l’ultimo, distribuito anche in Europa, grazie alla label olandese Shaded Moon Entertainment. L’edizione europea è composta da 11 pezzi (la bonus track è diversa da quella presente sull’edizione giapponese) per circa 62 minuti di durata, segno che i componimenti hanno anche in alcuni casi minutaggi elevati; anche l’artwork è leggermente differente tra le due edizioni, pur se c’è sempre un menestrello in copertina come soggetto principale, richiamando chiaramente il nome del gruppo. Ma cosa suonano questi giapponesi? Il loro sound è un power metal di chiara matrice neoclassica, grazie soprattutto all’impostazione chitarristica dell’ottimo Takao che è evidentemente cresciuto a riso & Malmsteen. Ogni tanto si sente anche una tastiera (non ne è stato reso noto l’autore) che contribuisce a dare l’impronta neo-classica al power metal della band. Sempre velocissimo il ritmo imposto dalla batteria del grande Ochoco, una sorta di mostro tentacolare dietro le pelli ed alla doppia-cassa! Naturalmente importante anche il contributo del basso di Syo-Go che ricama in sottofondo, forse un po’ penalizzato in fase di produzione (mi sarebbe piaciuto sentirlo più in evidenza). C’è poi la voce del frontman Leo Figaro, acuta, teatrale, espressiva e versatile, come ogni buon cantante di power metal dovrebbe essere; fa un certo effetto ascoltare il cantato in giapponese che spesso viene alternato all’inglese e che, per chi (come il sottoscritto) ha avuto la propria giovinezza negli anni ’80, non potrà non far venire in mente le vecchie sigle dei primi cartoni animati arrivati dal paese del Sol Levante (Tekkaman & C.). Non ci sono canzoni che non funzionano o non convincono, come detto in precedenza forse in alcuni casi si sarebbe potuto evitare un minutaggio importante al fine di rendere i brani più efficaci (mi riferisco a “Silhouette of time” ed alla suite “Gathering under the same sky ~大空の下に集いし者たち~”), ma si tratta di gusti personali che, in quanto tali, sono sempre ampiamente opinabili. Quello che non è opinabile è che mettersi all’ascolto di questo disco, a patto di essere fans del power metal, è sicuramente un’esperienza piacevole; personalmente ho ascoltato e riascoltato l’album sempre in maniera gradevole, cosa che non sempre purtroppo accade, senza mai accusare stanchezza, ma anzi con la voglia di pigiare ancora il fatidico tasto “play”. Bisogna quindi dare il giusto merito ai MinstreliX, perché questo loro album quasi omonimo “Minstrelics” è davvero ben fatto e merita sicuramente attenzione!
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Gli Scars of Solitude si sono formati nel 2015 ad Äänekoski, nella Finlandia centrale, tra giovani musicisti attivi nella scena locale in gruppi death e metalcore; stranamente però danno vita ad un gruppo che suona gothic metal, ispirato dai maestri Sentenced e Poisonblack. Nel corso degli anni, il quartetto rilascia un sacco di singoli, un LP nel 2017 ed un EP nel 2021, prima di questo secondo album intitolato “Under disheartening skies”. Il full-length è uscito in ottobre su Inverse Records in edizione limitata a 300 cd e 200 vinili, ha un artwork che non è niente di che ed è composto da 10 tracce per una durata totale di poco sopra i 43 minuti. Ho sempre adorato certe sonorità romantico-decadenti, tipiche della Scandinavia, con voce maschile profonda e gli Scars of Solitude si muovono decisamente a loro agio in questo sound, creando sonorità davvero emozionanti. Già il titolo (in italiano è “sotto un cielo scoraggiante”) è tutto un programma, ma sono le atmosfere che rendono questo disco speciale, dato che vanno a scavare nell’animo un po’ malinconico che abbiamo tutti noi che amiamo queste sonorità, andando a toccare quelle leve in cui è finanche piacevole lasciarsi cullare e crogiolarsi. Ogni strumento ha il suo posto fondamentale all’interno del songwriting, mentre la voce profonda di Tuomo Laulainen risulta estremamente espressiva, ricca di colore e calore, tanto che in alcuni momenti fa davvero venire i brividi. Ho ascoltato e riascoltato sempre con immenso piacere questo album, non trovando alcun cedimento a livello qualitativo, ma anzi ogni volta, giunto alla fine, la voglia di rimettersi all’ascolto era sempre alta, come solo raramente accade. Non ci sono canzoni che spiccano rispetto alle altre (anche se la title-track ha raccolto i miei maggiori consensi), perché sono tutte di qualità fuori dal comune, tutte potenziali hit da utilizzare per la realizzazione di un video o di un singolo. Gli Scars of Solitude con questo “Under disheartening skies” hanno realizzato un discone, certamente uno dei migliori in assoluto usciti in questo 2024 in campo gothic metal; se siete fans di certe sonorità romantico-decadenti e malinconiche, non fatevi sfuggire questa gemma di immenso valore!
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Tornano a farsi sentire i texani Ignitor, con il loro ottavo studio album, intitolato “Horns and hammers”; il disco è composto da 11 tracce per circa 48 minuti di durata totale. Anche in questo full-length sostanzialmente non è cambiato nulla rispetto al passato, dato che la band propone sempre lo stesso heavy metal old-style che avevamo avuto modo di ascoltare nei precedenti lavori. Evidentemente gli americani non hanno la benché minima voglia di rinnovarsi o di modificare il loro stile vintage, fregandosene abbondantemente delle mode e del tempo che passa; loro suonano solo la musica che amano, con buona pace dei maniaci dell’originalità o dell’innovazione. Come fatto notare nella recensione del precedente “The golden age of black magick” non convince più di tanto nemmeno il cantante Jason McMaster; sia chiaro, c’è molto di peggio in giro (anche di meglio obiettivamente), ma questa volta ha contribuito a non convincere anche il suo approccio sempre uguale, quasi monocorde, mentre forse un po’ più di versatilità ed espressività non avrebbero guastato; il vocalist, infatti, sostanzialmente dall’inizio alla fine si limita ad utilizzare le note più acute ed isteriche, mentre sono rari i passaggi più “meditati” (come, ad esempio, in “Imperial bloodlines”) che mostrano capacità che altrimenti non si riuscirebbe nemmeno ad immaginare. Sono protagoniste del sound le due chitarre di Stuart “Batlord” Laurence e Robert Williams con i consueti muri di riff ed assoli, ben sorretti dal basso di Billy “Chainsaw” Dansfiell, mentre da Pat Doyle alla batteria mi sarei atteso di più, più brillantezza, ritmo ed energia (come fa invece, ad esempio, in “Cyber crush”). Oltretutto il rullante è anche registrato in maniera non eccelsa, risultando un po’ troppo secco all’ascolto, il che non aiuta certamente il risultato finale. Ho ascoltato più e più volte l’album, ma ogni volta terminavo con l’amaro in bocca, forse anche a causa della mancanza di una hit che valga da sola l’acquisto del cd; fatto sta che non sono riuscito a lasciarmi conquistare dalla musica e da nessuno degli 11 brani (nemmeno dalla cover dei mitici Saxon, presente solo sulla versione edita dalla nostrana Metal on Metal Records) che si lasciano ascoltare senza particolare difficoltà, ma non convincono più di tanto e non sono riusciti a far breccia nel cuore di un vecchio metalhead come questo umile recensore. Se avete avuto modo di apprezzare gli Ignitor nei loro precedenti dischi, allora anche questo “Horns and hammers” potrà piacervi, dato che sostanzialmente non aggiunge né toglie nulla rispetto al passato; se, invece, ascoltate questa musica da circa 35/40 anni e vi aspettavate di meglio dal gruppo texano, allora questo disco non strapperà consensi particolari.
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Gli Speedrush si sono formati ad Atene in Grecia nell’ormai lontano 2005, ma sono arrivati al debut album solo nel 2016 ed hanno rilasciato il loro secondo disco solamente ad inizio ottobre di quest’anno, grazie alla svedese Jawbreaker Records, in edizione limitata a 300 copie. Il full-length si intitola “Division mortality”, ha un artwork che non fa impazzire ed è composto da 9 tracce per la durata totale di circa 41 minuti. Il sound è un classicissimo thrash/speed metal, con ritmi velocissimi imposti dalla batteria dell’ottimo Andreas Disco Destroyer (non è noto il vero nome) con le due chitarre di Nick Ratman (alias Nick Demiris) e Tasos P. (all’anagrafe Tassos Papadopoulos) che intessono muri di riff affilatissimi come rasoi ed assoli al fulmicotone; si sente bene anche il basso di Spiros S. (all’anagrafe Spiros Spiliotakos) che ricama in sottofondo come si deve. C’è poi lo screamer Nir Beer (soprannome di Nir Palikaras) che urla la sua rabbia senza soluzione di continuità, ma sa essere anche versatile, tirando fuori ogni tanto anche un approccio meno incazzato. Tutta la band pesta per bene, anche se raramente fa sentire di saper anche comporre linee melodiche che non dispiacciono per niente. Le canzoni si assomigliano un po’ tutte tra loro (fatta eccezione per la conclusiva outro strumentale ed acustica “Fate to flames”), ma i vari ascolti dati a questo album sono sempre stati sicuramente piacevoli e capaci di infondere energia e voglia di sbattere il capoccione su e giù in furiosi headbanging. Se non ci addentriamo in inutili discorsi su originalità ed innovazione (argomenti di cui gli Speedrush credo se ne freghino ampiamente), ma ci limitiamo a parlare di intrattenimento e gusto nell’ascolto, energia e passione, è indubbio che questo “Division mortality” degli Speedrush faccia centro e strappi un risultato più che lusinghiero.
Ultimo aggiornamento: 28 Ottobre, 2024
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Per celebrare i 20 anni del meraviglioso “Tales of wonder”, i Mesmerize hanno fatto un concerto il 16.07.2018 nei pressi di Milano; a 6 anni di distanza, rilasciano quel live album intitolato “20 years of wonder… live!”, con l’aggiunta di una bonus track che è un remix realizzato quest’anno della mitica “Children of reality”. Il concerto si apre, dopo l’intro, con l’unica traccia non facente parte del primo album della band lombarda, quella “It happened tomorrow” che apriva il loro ultimo full-length, “Paintropy”, ormai risalente ad oltre 10 anni fa. Per il resto, ci sono quasi tutti i pezzi di “Tales of wonder”, con l’eccezione di “Sea of lies” (e me ne dispiace un sacco, dato che era una delle mie preferite!), “Danse macabre” e “Flatliners”. Già l’accoppiata iniziale è di quelle che stenderebbe chiunque: le fantastiche “The werewolf” ed “Hell on wheels”, esattamente le stesse che aprivano l’album da studio. La scaletta del concerto ripercorre quasi pedissequamente quella dell’album, con la sola “Ragnarök” che, invece di essere al centro della tracklist, viene spostata alla sua conclusione. La formazione dei Mesmerize è la stessa da circa 30 anni, con il solo Belbruno che è nel gruppo dal 2003, quando subentrò a Paolo Chiodini; l’amalgama è quindi invidiabile e si sente eccome! La prestazione del gruppo, infatti, è semplicemente strepitosa; Orlandini è come il buon vino che, invecchiando, migliora anche se da sempre la sua voce è eccezionale (lo ritengo uno dei migliori vocalist italiani in assoluto!); la sezione ritmica di Tito e Garavaglia è semplicemente esplosiva, mentre Belbruno e Paravadino alle chitarre si scambiano assoli e muri di riff. Detta sinceramente, mi dispiace un sacco non aver potuto partecipare a quella serata del 2018, perché lo spettacolo offerto deve essere stato strepitoso, almeno a quanto sento da questo cd. Come detto, il full-length si chiude con una versione remix, registrata in questo 2024, della sempre splendida “Children of reality” che anche in questa nuova veste (comunque non particolarmente differente dall’originale, eccezion fatta per le parti canore) è in grado di convincere e conquistare. I Mesmerize fanno parte della storia dell’heavy metal italiano ed hanno scritto pagine memorabili, come con “Tales of wonder” a cui questo live è un sacrosanto tributo; inutile prolungarsi ulteriormente, questo “20 years of wonder… live!” sarà sicuramente tra i migliori live album in assoluto del 2024! Ed ora non resta che sperare che i Mesmerize riescano a tornare in studio e regalarci qualche nuova perla di roccioso heavy metal…
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I Leatherhead arrivano da Larissa in Grecia dove si sono formati nel 2022; in questo mese di ottobre 2024, grazie alla greca No Remorse Records, è stato pubblicato il loro debut album omonimo, composto da 10 tracce (compresa la solita inutilissima intro ed un breve intermezzo strumentale subito prima del brano conclusivo), per una durata totale di circa 37 minuti. Canzoni brevi e concise dunque, come lo speed metal richiede, genere i cui stilemi sono tutti inclusi nel sound dei greci: una voce acuta ed isterica che non può non ricordare quella del maestro John Cyriis, riff di chitarra taglienti uniti ad assoli velocissimi, batteria sparata a mille all’ora e basso che pulsa e ricama in sottofondo. Chi insomma ama lo speed metal di gruppi come gli Agent Steel (quelli dei primi dischi per intenderci) o i vecchi Savage Grace, qui troverà pane per i propri denti! I Leatherhead hanno imparato la lezione impartita dai maestri del settore e l’hanno tramutata in canzoni una più bella dell’altra, pezzi che infondono energia a profusione e voglia di sbattere il capoccione (più o meno crinito) in headbanging trita-cervicali. L’unica che non mi ha entusiasmato particolarmente coincide con la traccia meno ritmata, che è quella “When death is near” che non riesce a decollare mai e si piazza a livello qualitativo un gradino sotto le altre, anche per una lunghezza forse un attimo eccessiva. Per quanto riguarda i testi, ci troviamo davanti ad un concept basato su una storia horror, come lo è anche l’artwork (ben fatto) che ritrae una specie di pellerossa-zombie in un cimitero di notte. Inutile dilungarsi ulteriormente, se siete fans dello speed metal della scuola americana degli anni ’80, questo debut album omonimo dei greci Leatherhead farà sicuramente al caso vostro; per quanto mi concerne, mi rimetto nuovamente all’ascolto molto volentieri, dato che il disco mi è proprio piaciuto!
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Un anno dopo l’ottimo “Dark mother rises”, tornano a farsi sentire i tedeschi Lankester Merrin con il loro terzo album “Dark mother’s child”, disco che segue la falsariga del precedente lavoro e non solo nel titolo. Il sound, infatti, ripercorre quello del secondo full-length, anche se è leggermente più melodico; resta la meravigliosa voce dell’affascinante Cat Rogers, sensuale e maligna nella sua espressività che costituisce quell’arma in più che permette alla band della bassa Sassonia di distinguersi dal resto delle band che rientrano nel calderone del female fronted melodic power metal. Molto importante anche il ruolo del batterista Shawn Layer che impone ritmi sempre frizzanti e brillanti, rendendo i componimenti scorrevoli e ricchi di energia. Anche l’altro membro fondatore Florian Schulz si fa apprezzare con parti soliste di chitarra di gran gusto, sempre sorretto alla grande dall’altro chitarrista ritmico, il neo-entrato Steffen Vorwald che ha preso il posto di Chris Müller. Da annotare anche un cambio al basso con Jan Philipp Merten che è uscito dalla band per far posto a Benjamin Offeney. Ho ascoltato più volte queste 9 canzoni (durata totale di nemmeno 38 minuti) ed è sempre stato un piacere premere nuovamente il tasto “play” e rimettermi gradevolmente all’ascolto. Le qualità della band, del resto, sono ben note, Cat Rogers non è mai stucchevole, ma sempre estremamente espressiva e versatile, mentre tutti i musicisti fanno il loro compito egregiamente; il songwriting non è mai esagerato, ma sempre conciso, convincente e ficcante; la produzione è di qualità elevata e permette di assaporare degnamente ogni istante della musica più che godibile suonata dal gruppo tedesco. Una dopo l’altra scorrono hit che contribuiscono all’ottima riuscita di questo “Dark mother’s child”, in cui sembra che tutto sia al posto giusto e nel momento giusto, a conferma del grande talento dei Lankester Merrin!
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