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Opinione scritta da MASSIMO GIANGREGORIO

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Opinione inserita da MASSIMO GIANGREGORIO    02 Dicembre, 2023
Ultimo aggiornamento: 02 Dicembre, 2023
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Sono da sempre un simpatizzante dello Stoner. Quando ascolto i seminali Queens of the Stone Age della prima ora, vado in visibilio. Sarà perché il genere è stato da sempre abbinato all'uso di aiutini lisergici tanto in fase compositiva, quanto in fase esecutiva, sarà perché lo scenario quasi lunare dei deserti in cui i musicisti si ritirano per dare alla luce ai loro brani e per suonarli è terribilmente affascinante, ma lo Stoner mi intriga parecchio. E nel nostro beneamato stivale non potevano mancare degli epigoni di questo genere così particolare. I Demonio sono il fenomeno Stoner nostrano. Hanno debuttato con "Electric Voodoo", full-length del 2021, a cui ha fatto seguito "Black Dawn" un EP dello scorso anno e poi "Fire Guru", antipasto di questa loro ultima opera allucinata ed allucinante per bellezza, intitolata "Reaching for the Light". Il trio veronese, infatti, ci propone un sound di quelli che mi riportano alla mente immagini di distese di cemento nelle fredde notti di inverno, illuminate da lampioni dalla luce gialla, con un leggero ma costante piovigginare interrotto a tratti dal fumo di sigarette. Matteo, Paolo ed Anthony ci sanno fare davvero con il provocare suggestioni attraverso il suono della loro musica. Il primo pezzo ("Heavy Dose") entra subito nella testa che è una bellezza, con il suo riff "catchy", ma anche con il suo dipanarsi quasi "noisy" e la voce di Anthony distorta è resa vieppiù ipnotica. "Fire Guru", il singolo sopraccitato, rimarca i toni psichedelici (di quelli che fanno molto "seventies") attraverso un basso sporchissimo e distortissimo in grande evidenza. "I'm free" esordisce con un riff hendrixiano da morire. La successiva "Shiva's Dance" è godibilissima, con il suo dipanarsi rumorosamente ondeggiante che poi si trasforma in un cadenzone ipervisionario. "Death Trip" è tremendamente anni '70 e me lo immagino suonato dai tre demoni veneti con tanto di parrucconi, basettoni e pantaloni a zampa di elefante! Si chiude con la title-track introdotta da un basso corrosivo e che incede in maniera lucidamente folle. Insomma, non c'è bisogno di "aiutini" esterni per viaggiare con la mente: basta metter su questo "Reaching for the Light" dei Demonio col volume rigorosamente a palla e godersela: have a nice trip!

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Opinione inserita da MASSIMO GIANGREGORIO    25 Novembre, 2023
Ultimo aggiornamento: 25 Novembre, 2023
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I Sorcerer erano assenti dalla scena Epic Doom Metal da tre anni, a livello di full-length, quando realizzarono "Lamenting of the Innocent"; ora sono tornati a cimentarsi con questo nuovo album questi ciclopi del genere, già di per sé non affollatissimo perché alquanto ostico e necessitante un livello qualitativo, senza tema di smentita, superiore alla media. Infatti, è estremamente facile cadere nel "già sentito" e nel trito e ritrito quando si tratta di Doom; se poi ci spostiamo sul terreno del Epic Doom, abbiamo a che fare con un vero e proprio campo minato, sul quale in pochi sanno come muoversi senza saltare per aria (artisticamente); immaginiamo un po' cosa deve essere miscelare entrambi i generi: opera davvero ardua. Peraltro, in quanto conterranei dei titanici Candlemass, il paragone con Leif Endling & Company scatta automaticamente; ebbene questi cinque svedesoni provenienti dalla capitale sin dal 1988 (ma che hanno dovuto segnare il passo dal 1995 al 2005), il confronto lo reggono eccome e - inoltre - riescono a discostarsene attraverso delle composizioni che effettivamente rappresentano un perfetto mix tra la pesantezza del Doom e la grandeur dell'Epic. E, a mio parere, questa perfetta alchimia musicale è resa possibile dalla voce di Anders, altisonante e possente ma - allo stesso tempo - carica di pathos ed estremamente teatrale, adattissima a fungere da trait d'union tra le due tendenze. Il tutto è ulteriormente impreziosito dalla presenza di due maestri d'ascia come Kristian e Peter, in grado di forgiare nel fuoco degli assoli iperbolici ed iper-virtuosistici senza mai risultare stucchevoli. L'opening track dedicata alla innominabile Stella del Mattino ("Morning Star", appunto) irrompe come un lottatore di wrestling impazzito, per poi far posto ad una title-track maestosamente oscura; "Thy Kingdom Will Come" alza un po' i ritmi con il suo riff arabeggiante; "Eternal Sleep", introdotta da un battito cardiaco, ci regala un'ugola superlativa e dalla forza interpretativa irrefrenabile come quella di Anders tra un arpeggio "maledetto" e l'altro. In "Curse of Medusa" tastiere in gran spolvero, ancora una volta a tratteggiare linee musicali arabeggianti ed avvolgenti, mentre "Unveiling Blasphemy" ci fa ripiombare nelle cupe atmosfere medievali, con tanto di campana a morto. "The Underworld" mi ha riportato alla mente l'incedere imperioso dei pezzi dei capostipiti Manowar, mentre la traccia che chiude le ostilità è un "cadenzone" fatale, più che degno sugello di una release fantasticamente oscura e magnificamente epica. Un capolavoro!

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Opinione inserita da MASSIMO GIANGREGORIO    18 Novembre, 2023
Ultimo aggiornamento: 20 Novembre, 2023
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Quando si approccia una band proveniente dalle ghiacciate lande della Finlandia, quasi come fosse un luogo comune, ci si aspetta di trovarsi di fronte all'ennesimo gruppo dedito al metal estremo (tipo i loro conterranei Impaled Nazarene). Se poi il nome della band è Satan's Fall, allora si è certi dell'assunto. E invece no! Questo moniker originatosi nella capitale finnica nel 2015 (invero, con il nome "Satan's Cross" immediatamente dopo abbandonato) sfoggia un Power Metal piuttosto classico, fedele agli stilemi ed ai canoni del più ortodosso dei generi. Partiti con il demo "Seven Nights", seguito dall'EP "Metal of Satan" nel 2016, nel 2017 hanno vissuto il loro "annus horribilis" in cui la line up ha subito una profonda metamorfosi, ripresentandosi nel 2020 con il loro full-length di esordio "Final Day". A tre anni di distanza, pubblicato con la prestigiosa SPV, questa loro ultima fatica intitolata "Destinatio Destructio". Come accennato, il quintetto di Helsinki ci propone un Power molto ortodosso, di stampo vagamente maideniano, nel quale le due asce sono sempre sugli scudi con assoli iper-vitaminici ed i testi sono ispirati alla letteratura ed all'occultismo. Onesto il lavoro svolto dal duo ritmico Joni/Arttu, provetti picchiatori rispettivamente di corde e di pelli. Il tallone d'Achille della band, a mio modesto avviso, è rappresentato dall'ugola di Miika: ricorda un po' la voce del mitico Blackie Lawless dei W.A.S.P., ma più stridula e monocorde; a tratti l'ho trovata persino un po' irritante e ridondante. Quanto al songwriting, siamo a livelli di minimo sindacale: certamente un buon disco nel complesso, ma che scivola via senza lasciare particolari scossoni o momenti memorabili o particolarmente degni di nota, se non - come esposto prima - nei funambolici assoli di Tomi e Ville (peraltro approdato a corte solo due anni orsono). Addirittura, per rimpolpare la tracklist, sono state inserite le due ultime tracce, che sono cover rispettivamente dei Marien-Hof e dei Power Rangers. Insomma, questa release è un lavoretto niente affatto male, ma certamente il gruppo dovrà sforzarsi di più, se vorrà davvero lasciare un segno nel metalrama internazionale. Mi ricorda la famigerata frase dei professori quando, nei colloqui con i genitori, esordivano dicendo: "il ragazzo/la ragazza potrebbe fare molto di più, se si impegnasse seriamente"

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Opinione inserita da MASSIMO GIANGREGORIO    11 Novembre, 2023
Ultimo aggiornamento: 11 Novembre, 2023
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E' risaputo che, quando una band di un certo standard tarda a ritornare con una nuova release, si cerca di tener a bada i più che legittimi appetiti dei fans con la pubblicazione di un "best of" o di un live o di una riedizione celebrativa di un album precedente. Non fanno eccezione a questa regola i Masterplan, tedesconi che dal 2001 al 2017 hanno cavalcato in lungo e in largo dall'Olimpo del Metallo fino al globo terracqueo partendo proprio da questo full-length di esordio, oggi riproposto in occasione del suo ventennale, essendo stato realizzato nel 2003, con un artwork deluxe e tre bonus tracks. I Masterplan sono una mega-band formata da autentici fuoriclasse del Power Metal di teutonica fattura: basti pensare che l'axeman Roland Grapow ha militato nientepopodimeno che nei ciclopici Helloween, mentre il tastierista Alex Mackenrot ha suonato on stage con i Gamma Ray; il bassista Jari Kainulainen è stato le quattro corde degli immensi Stratovarious, mentre l'ugola di Rick Altzi è stata annoverata anche nella line up di Hermann Franke, così come il drummer Kevin Kott. Insomma, con dei curricula di tal guisa, non poteva che formarsi un supergruppo che trasuda Hard & Heavy da ogni singola nota, in grado di concepire dischi che trasudano metallo pesante da ogni singolo solco! Riascoltare questo loro album di debutto è comunque una libidine per i padiglioni auricolari e per la corteccia cerebrale, investita e travolta da un sound potentissimo, fatto da chitarroni, da reparto ritmico che pesta durissimo, da synth trascinanti e da una voce altisonante e maestosa. Questo loro album omonimo è un vero e proprio ensamble di gemme metalliche che formano una corona d'acciaio con la quale cingere il capo di ciascun componente della band, come si confà a degli autentici sovrani del Metal. Dopo una opening track travolgente ("Spirit Never Die"), "Enlighten Me" è, a dir poco, titanica; "Crystal Night" è paragonabile ad uno tsunami implacabile; "Soulburn" è maestosa, mentre "Heroes" è epicheggiante; via via che si susseguono i pezzi ci si trova sempre più avviluppati nel suono dei nostri grandissimi pianificatori tedeschi. Persino la bonus track finale, la cover di "Black Dog" dei... no, non ve lo scrivo nemmeno di chi, non sfigura affatto al cospetto dell'originale, sia pure risultando adeguatamente personalizzata: un modo come un altro (si fa per dire..) per chiudere in bellezza un disco sì celebrativo, ma che appare sempre attuale e sempre tostissimo. E solo una cosa è in grado di resistere al passare del tempo senza perdere le proprie peculiarità: l'opera d'arte. E questo disco lo è, eccome!

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Opinione inserita da MASSIMO GIANGREGORIO    04 Novembre, 2023
Ultimo aggiornamento: 05 Novembre, 2023
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Ne "Il Signore degli Anelli" di Tolkien, Cirith Ungol ("Passo del ragno") è un passo situato su una ripida parete rocciosa del Ephel Dúath che mette in comunicazione l'Ithilien e Mordor attraverso la valle di Minas Morgul. Deve il suo nome al fatto che vi prese dimora il ragno gigante Shelob. Ed è questo il nome che - agli albori del 1971, quando ancora non si era verificata l'epica "New Wave Of British Heavy Metal" - i fondatori Greg Lindstrom (all'epoca bassista) e il compianto chitarrista Jerry Fogle (insieme al batterista Robert Garven) scelsero, probabilmente davanti all'ennesimo boccale di birra in un pub di Ventura, nella California, sostituendo quello originario, Titanic, che aveva distinto la band agli inizi. Poco dopo si unì a loro il frontman Tim Baker, che caratterizzò definitivamente il sound della band con la sua voce narrante stridula che intona una sorta di litania demoniaca. Il che ben si incastonava nel suono cupo al quale sottendevano testi legati a tematiche epiche e fantasy. Così come la caratteristica che da sempre accompagna la band, sono le altrettanto calzanti copertine di Michael Whelan. Autentici bastioni del metallo sono stati concepiti da quello che, in origine, era un trio: chi non ha ascoltato nemmeno una volta la mitica "Frost & Fire", title-track della loro opera prima del 1981? In effetti, la carriera della band americana è sempre stata stentata e travagliata, fino al 1991, quando - a cagione di un cammino altalenante - si sciolsero. Addirittura, nel 1998 venne a mancare Jerry Fogle. Di qui un lungo silenzio, durato fino al 2015, anno della reunion. Da allora, un bel po' di dischi, tra greatest hits, live, EP e full length ("Forever Black" nel 2020). Nonostante tutto ciò, ascoltando questa loro ultima fatica (intitolata "Dark Parade", da poco uscita per la storica Metal Blade Records), il tempo sembra non essere mai trascorso per loro: la voce di Tim è sempre la stessa; anzi, semmai ancora più drammatica ed evocante, anche grazie alla grandissima esperienza maturata nel corso dei decenni, conferendo ancora più pathos al sound sempre greve e oscuro. E questo non può che far piacere! Passando in rassegna quelle che ritengo essere le tracce più significative di questa release, "Relentess" esordisce con un accattivante riff arabeggiante, mentre "Sacrifice" parte con un pregevole flamenco e si snoda con un incedere spagnoleggiante. "Looking Glass" avanza come una implacabile asfaltatrice e la title-track si articola in strutture più epicheggianti e molto pesanti, schiacciandoti come un macigno magicamente materializzatosi sulla tua testa, annichilendoti sotto la sapiente e demoniaca narrazione di Tim. Invero, il suono dello storico gruppo, rispetto alle precedenti produzioni ("One Foot in Hell" su tutte) appare molto irrobustito da una ottima produzione, finalmente degna di questi titani del metallo a cui auguriamo una vita ancora lunghissima e meno sofferta artisticamente.

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Opinione inserita da MASSIMO GIANGREGORIO    28 Ottobre, 2023
Ultimo aggiornamento: 28 Ottobre, 2023
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Signore e signori, qui si gode alla grande!!! Qui si parla di uno dei protagonisti assoluti della storia dell'Hard'n'Heavy. Qui si parla del Re indiscusso di quello che fu denominato Adult Oriented Rock (A.O.R.), ossia quel Rock duro sì, ma anche melodico al punto giusto, in grado di coinvolgere e sconvolgere non solo i teenagers, ma anche quelli un po' più cresciutelli. Qui si parla di un singer dalla voce sensuale, ammaliante tipica di chi è stato idolatrato come sex symbol dalle fans, che è in circolazione fin dal lontano 1977, quando prese le mosse dalla mitica Los Angeles - insieme a Juan Croucier, che diventerà poi il bassista dei Ratt - per dar vita ad una serie interminabile di dischi uno più d.o.c. dell'altro, tutti caratterizzati da composizioni maiuscole, possenti ma sempre orecchiabili (nella accezione più nobile del termine) coronate dalla sua ugola da highlander, per la quale il tempo sembra non trascorrere mai e dalla sua inesauribile vena compositiva. Ma ciò che ha reso imbattibile ed inarrestabile la ascesa di Don Dokken e della sua band è stato il sublime sodalizio con un genio delle sei corde di nome George Lynch; pezzi come "So many tears" (dall'album "Back for the attack") rimarranno ad imperitura memoria di ogni rocker, con gli assoli di George tecnicissimi, tanto virtuosi, quanto struggenti. Sodalizio durato una vita, sia pure a fasi alterne, dal 1981 al 1998: poi George ha fondato i suoi Lynch Mob, con i quali ha partorito una ragguardevole mole di dischi, l'ultimo dei quali venuto fuori pochissimo tempo fa. Ma vi chiederete: allora, dopo George, tutto finito? Nient'affatto! Dopo lo split out del 1989, il nostro vecchio leone ha assorbito la batosta nel tempo e si è ri-armato fino ai denti con sessions assolutamente degni (anche se non paragonabili a lui) come John Norum, fondatore degli Europe. Dunque il leone era tornato a ruggire, continuando ad inanellare releases maiuscole; ma, dopo "Broken Bones" del 2012, era nuovamente uscito dai radar. Ebbene, a undici anni (e qualche live) di distanza, il Re è tornato! Ed è tornato in gran spolvero, rinverdendo gli antichi fasti, anche grazie ad un nuovo patto d'acciaio con un altro mago delle sei corde che risponde al nome di Jon Levin; quest'uomo - credetemi - non ha nulla da invidiare al George Lynch di cui sopra: i suoi assoli sono al fulmicotone, ma sempre ispiratissimi, un micidiale mix di tecnica e feeling, esattamente come è stato per il suo grande predecessore. Anche in questo disco si annoverano le immancabili ballads (come "I Remember" e "Lost in You") con tanto di assolo strappa lacrimuccia (anche noi vecchi rockers siamo umani, no?) che si alternano a brani più robusti come la opening track e "Over the Mountains". Il creatore di "Unchain the Night", "Back for the Attack" e "Under Lock and Key" è di nuovo tra noi e auspichiamo che questa lieta novella si perpetri ancora a lungo. The King is back! Long live the king!

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Opinione inserita da MASSIMO GIANGREGORIO    22 Ottobre, 2023
Ultimo aggiornamento: 22 Ottobre, 2023
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Ed eccoci qui, ancora una volta, ad approcciare un'altra band ellenica, gli Obscurus Rex. Utilizzo il verbo "approcciare" non a caso; infatti, trattasi di un gruppo all'esordio assoluto e che ha affidato ad un EP (come fanno tantissime altre bands) la propria prima proposta musicale, con tutte le buone intenzioni di ben figurare nel metalrama internazionale. Questi four horsemen si sono assemblati un paio di anni orsono nella capitale greca, all'ombra del Partenone e, in relativamente poco tempo, sono stati (messi) in grado di sfornare questo loro debutto. Quando ho letto il titolo dell'EP mi sono subito tornati alla mente pezzi omonimi risalenti agli albori dell'Heavy Metal, come - ad esempio - quello dei mitici Saxon anche se qui la musica (è il caso di dire) è ben diversa. Pronti, via...ed è subito assalto con "It" che - per compattezza e decisione - mi ha dato l'impressione di avere nelle immediate vicinanze la orribile creatura clownesca inventata dall'immenso Stephen King, pronta a colpirmi alle spalle. Pezzo pregevolissimo e decisamente heavy con un cantato ragguardevole da parte di Manos ed una vera perla di assolo di Kimonas. "Your Enemy Tonight" parte con una sezione ritmica in gran spolvero e delle atmosfere da brivido notturno, per poi sfociare in un contesto sempre molto Power classico. La seguente "4 Justice" è vieppiù massiccia, conferendo ancor maggior accelerazione all'EP, pur segnando svariati cambi di tempo culminati con un ennesimo, convincentissimo ed ispiratissimo assolo di Kimonas. La conclusiva "Red" prende le mosse dal bassone di Panos e si dipana con uno slow pesante ed accorato, per poi evolversi in un mid-tempo assassino. Insomma, più che buona la prima prova con questo "Stand Up and Be Counted" per gli Obscurus Rex che, lo confesso, dal nome mi aveva fatto prefigurare una proposta Doom ed invece si candida ad entrare nel firmamento delle bands Classic/Power più talentuose.

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Opinione inserita da MASSIMO GIANGREGORIO    14 Ottobre, 2023
Ultimo aggiornamento: 15 Ottobre, 2023
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Questo quintetto di assassini a nome Meurtrières proviene dalla dotta Lione, in Francia. Il primo aspetto che balza all'orecchio è l'utilizzo dell'idioma transalpino nel cantato; il secondo è quello di avere una voce femminile (cosa che, ammettiamolo, avviene non certo sovente nelle bands di metallo pesante...). Formatisi nel 2018, hanno esordito con un EP recante il loro nome, composto da cinque pezzi, peraltro non presenti nella tracklist di questo loro primo full-length. Il genere proposto è un Heavy/Power Metal alquanto classico, di robusta struttura e di buon dinamismo con tematiche ispirate a storie perdute di cappa e spada, ambientate nel periodo forse più buio ancora del Medioevo, quello tra il '500 ed il '600 quando l'unica che girava di notte con le fiaccole era la ronda (da cui il titolo del CD e la title-track, "Ronde de Nuit"). L'impatto è frontale (e non solo con la opening track) con i nostri cinque che riescono - grazie ad una produzione all'altezza della situazione - a farci sbattere contro un muro sonoro eretto dalle due chitarrone di Flo e Olivier, supportate da una sezione ritmica-tsunami composta dal premiato duo delle demolizioni Xavier/Thomas; a coronamento, l'ugola selvaggia e carica di pathos di Fiona, davvero adattissima a tutto il contesto. L'intero album è una lunga e tosta cavalcata a venature epiche, che ti trascina in un vortice maideniano della miglior specie, che, a tratti, mi ha riportato alla memoria i primissimi Omen, quelli di "The Axaman" e "Warning of Danger" (in particolar modo nella traccia "Chevaleresses du Chaos", così come degna di nota è la traccia finale "La Revenante"); cavalcata inframezzata dai frequenti duelli chitarristici, non certo virtuosistici, ma comunque efficaci al punto giusto, esattamente come questa realizzazione killer dal titolo "Ronde de Nuit" dei cinque francesi Meurtrières, che si disvela non certo come miracolo musicale, ma che si può a giusta ragione ritenere efficace quanto basta per giustificarne l'acquisto.

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Opinione inserita da MASSIMO GIANGREGORIO    07 Ottobre, 2023
Ultimo aggiornamento: 07 Ottobre, 2023
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Non capita spesso di imbattersi in una band interamente al femminile; se poi, addirittura, si tratta di una all-female band italiana, allora c'è davvero da brindare con robuste pinte di birra, trattandosi di una rarità! Nel non tanto lontano 2015, in quel di Milano, nascevano le Wicked Asylum, band molto interessante che ha dato alle stampe ad un fuoco di fila di singoli, poi confluiti nel full-length di debutto "Out fo the Mist" nel 2020. A seguire, gli aperitivi costituiti dalla title-track e "Crystallased", affluiti in questa loro nuova opera intitolata "Kintsugi", ispirata a una filosofia orientale che significa letteralmente “riparare con l'oro”, un'antica pratica e tecnica giapponese che consiste nel riparare oggetti in ceramica utilizzando l'oro per saldare insieme i frammenti. In realtà, rappresenta la metafora delle fratture, delle crisi e dei cambiamenti che l’individuo può trovarsi ad affrontare durante la vita. E questo disco mi piace tantissimo: intanto perché le ben dodici tracce sciorinano un bel po' di buone idee e di altrettanto buoni spunti, manifestandosi come tutt'altro che scontate; le nostre cinque ragazze riescono a ricreare un mix corrosivo e venefico tra System of a Down, Infected Rain e, sotto il profilo prettamente vocale, dei loro concittadini Lacuna Coil (Cristina Scabbia, volenti o nolenti, ha influenzato molte cantanti anche straniere), solo molto più ruvide. I testi sono incentrati sui conflitti interiori, sulla introspezione e sulle problematiche esistenziali e ben collimano con il sound alquanto articolato, caratterizzato da svariati cambi di ritmo ed accelerazioni al cardiopalma. Certo, non ci troveremo i tipici assoli da virtuosi delle sei corde né vocalizzi con grande estensione, ma vi assicuro che l'effetto complessivo è di grande impatto e l'ascolto dei pezzi richiede un bel po' di attenzione in più: questo è un album tutt'altro che di evasione e di intrattenimento, pur non risultando mai stucchevole o eccessivamente indigesto. Lungo tutto il CD, infatti, si denota un giusto equilibrio nel songwriting e nella qualità del suono, sempre massiccio, ma mai né orecchiabile né ostico. Se poi l'intento è solo quello di pogare a più non posso, anche questo viene accontentato in pieno, filando via liscio e heavy. Il carillon di "Heart in Two" mi ha inquietato e sorpreso allo stesso tempo. Ma, in generale, tutta l'opera è permeata da una sottile vena di follia, a tratti tra il paranoico e l'infantile: persino la ballad "Drown" è "malata". Certamente una bella conferma per la band meneghina, di cui, ne sono convinto, sentiremo parlare a lungo.

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Opinione inserita da MASSIMO GIANGREGORIO    01 Ottobre, 2023
Ultimo aggiornamento: 01 Ottobre, 2023
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Per quei tre o quattro che non sanno chi sia KK Downing, basti dire che trattasi di uno dei due maestri d'ascia dei divini Judas Priest, di cui è stato fondatore. E scusate se è poco! Per quei cinque o sei che non sanno chi sia Tim "Ripper" Owens, basti dire che è stato - sia pure per una breve parentesi - colui che ha sostituito Sua Maestà Rob Halford come singer degli stessi Judas Priest; nell'album "Jugulator", la performance vocale di Tim in "Burn in Hell" è qualcosa di eccelso, quasi inarrivabile, tanto che - al solo pensiero di quel pezzo - sento dei brividi lungo la spina dorsale. E, anche qui, scusate se è poco! Se queste sono le premesse, dobbiamo dedurne che stiamo parlando di un vero e proprio super-gruppo, una mega-band che ha lasciato la sua prima traccia di fuoco con un debut album del 2021, "Sermons of The Sinner": un full-length sulla scia mortale del quale si situa questa nuova opera al metallo di KK & soci. Laddove, per soci (oltre al succitato Tim) si intende comunque gente che vanta una lunga ed onorata militanza metallica; insomma, non stiamo certo parlando di session, bensì di musicisti di tutto rispetto, che tanto hanno dato, danno e daranno per la causa dell'Heavy. Commentare le nove gemme componenti questo diadema duro e puro è arduo veramente, atteso che siamo al cospetto di autentici giganti del Metal: come si può commentare un assolo del mitico KK? O gli acuti di Ripper? Tutte cose che non si possono minimamente mettere in discussione! Ecco, se proprio devo trovare il classico pelo nell'uovo, devo dire che la voce di Tim è stata un po' troppo "halfordizzata", quasi a renderlo un clone della divinità canora summenzionata... Per me, l'ex-Iced Heart è quello di "Burn in Hell" in cui - senza dubbio - nel finale ha ricalcato sì le sue impervie orme, ma per quasi tutti i quasi sei minuti della sua durata ha mantenuto una sua ben precisa identità vocale distinta (anche se contigua) rispetto a quella di Rob. KK ha giocato facile, a cominciare dal nome della band che rievoca i fasti del passato, che ripropone nei duelli chitarristici che era solito ingaggiare con Glenn Tipton, il cui compito viene qui egregiamente svolto da A.J. Mills che regge più che bene l'inevitabile paragone, così come con i richiami all'epiteto "sinner", che rievoca uno dei tantissimi pezzi sacri dei Judas. Se proprio devo scegliere un brano tra questo ensamble di gioielli di metallo pesante, scelgo l'accoppiata "The Sinner Rides Again" e "Keeper of the >Grave". Oh, ovviamente, opinione puramente personale, eh? Invece, il fatto che questo CD sia una vera e propria lezione di Heavy Metal impartita da chi può davvero permetterselo, è un dato oggettivo ed incontrovertibile.

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