Opinione scritta da Luigi Macera Mascitelli
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Ultimo aggiornamento: 05 Febbraio, 2023
Top 10 opinionisti -
Graditissimo ritorno sui nostri portali quello degli svedesi Ablaze My Sorrow. questa volta, ahinoi, non con un nuovo album, ma con un EP dal titolo "The Loss of All Hope", che giunge a due anni di distanza dall'ultimo disco - sempre recensito qui -. Ora, ciò che ha sempre penalizzato il quintetto è stata la carriera piuttosto altalenante, con un silenzio di ben quattordici anni che, inevitabilmente, non ha contribuito a far conoscere la band. Cosa che, al contrario, non è successa ai colleghi di genere come Dark Tranquillity, In Flames, At The Gates e compagnia bella. Ed è un vero peccato considerando che Magnus Carlsson & C. vanno in giro dal 1993. Insomma, perfettamente in linea con il nascente genere. Comunque sia, dal 2016 i nostri si sono rimessi in carreggiata e questo nuovo EP è un po' il risultato del processo in questione. Per certi aspetti addirittura più accattivante di "Among Ashes and Monoliths", il quale ci risultò un po' troppo citazionistico e legato agli anni '90. Scelta più che lecita, ma che di fatto relegò l'album ad un buon prodotto ma nulla più. Qui, al contrario, sebbene la marcata vena svedese sia presente - e ci mancherebbe - si notano ben più di semplici sguardi in avanti: i pezzi sono ficcanti, con quel giusto grado di groove e cavalcate, in un connubio ben equilibrato. In particolare è la vena In Flames ad uscire, soprattutto quella attuale, con costanti richiami anche ai Dark Tranquillity, soprattutto negli intrecci delle chitarre e nelle sezioni in clean vocals. A testimonianza di ciò vi invitiamo caldamente ad ascoltare "Rotten to the Core", il brano migliore dei quattro e probabilmente uno dei migliori mai scritti dagli Ablaze My Sorrow. Sembrerebbe, quindi, che la band abbia ritrovato la retta via dopo un lungo periodo di silenzio ed i risultati iniziano a farsi vedere. Aspettiamo con ansia un nuovo full-length!
Ultimo aggiornamento: 29 Gennaio, 2023
Top 10 opinionisti -
Non si conosce nulla dei canadesi Olēka, duo che approda sui nostri portali con questo "Driftwood", EP che segna l'inizio di carriera del progetto in questione. Non sappiamo nemmeno l'anno di nascita del progetto, che presumiamo sia più che recente considerando che siamo di fronte alla primissima produzione -nemmeno un singolo o demo prima di questa -. Comunque sia ciò che ci ritroviamo sono quattro tracce che mischiano in maniera piuttosto interessante il Southern Groove Metal e il Melodic Death, con delle pennellate molto vicino al Metalcore dei primi anni 2000. Insomma, una commistione che sicuramente tende a guardare maggiormente sulle note più moderne del Metal, seppur i rimandi alla vecchia scuola siano presenti, come alcuni passaggi vicini agli In Flames o ai Killswitch Engage. Vedasi proprio l'opener "Two Years", che sinceramente parlando è un ottimo pezzo confezionato a mestiere e che ci mostra fin da subito che il duo Olēka sia già perfettamente amalgamato. Molto apprezzate, poi, sono le costanti sezioni in cui le chitarre si spalmano nei costanti intermezzi melodici per poi esplodere nuovamente con la durezza del Groove. Spesso si potrebbero ritrovare perfino delle somiglianze con alcuni passaggi dei Machine Head, quasi fossero delle eco che richiamano Flynn e soci.
A conti fatti questo "Driftwood" non presenta chissà quale innovazione del caso, ma siamo di fronte al classico esempio del saper maneggiare stili, influenze e stili ampiamente noti con quel tocco di personalità. Magari si potevano risparmiare dei passaggi eccessivamente allungati e noiosi, ma sorvoliamo in quanto questa è la primissima prova di una nuova realtà musicale - e detto fra noi nettamente superiore a tanta altra roba che si trova in giro -. Per questo gli Olēka vengono promossi ad occhi chiusi con un EP che sarà un buon biglietto da visita.
Ultimo aggiornamento: 22 Gennaio, 2023
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Il ritorno degli Hate Forest, ad oggi probabilmente la Black Metal band ucraina più famosa ed importante, è sempre cosa gradita - per non dire graditissima -. Dopo un lunghissimo silenzio di quindici anni ed il ritorno nel 2020, per la band di Roman Saenko, già ampiamente noto per la sua militanza nei Drudkh, giunge l'attesissimo sesto capitolo: il qui presente "Innermost" targato Osmose Productions, label che, come al solito, non delude mai. Un disco che porta con sé alcune novità, ma che al contempo si incastra perfettamente all'interno del solco tracciato ben 28 anni fa dalla one man band ucraina. Innanzitutto il marchio di fabbrica degli Hate Forest è sempre ben presente: Black Metal crudo, gelido, atavico, scarno e caratterizzato da un muro sonoro praticamente impenetrabile per quanto risulta frenetico e feroce. In poco più di mezz'ora - sei tracce totali - Saenko ci butta addosso un vero e proprio esercito proveniente dalle foreste più gelide e sperdute: non c'è un brano che non sia un assalto all'arma bianca, ciascuno dei quali caratterizzato da un drumming al limite della follia, voce cavernosa simil Death che si alterna con scream cadaverici e a dir poco colossali. Insomma, tutti gli ingredienti che ci hanno fatto amare fin da subito gli Hate Forest e che hanno tracciato le linee guida della scuola Black ucraina. Eppure in tutta questa ferocia e morte trova spazio l'eleganza e, se vogliamo, le struggenti atmosfere date dai riff, che non di rado si colorano di spennellate melodice o - ed ecco la novità di cui sopra - addirittura si interrompono per lasciare spazio a dei bellissimi innesti acustici che non fanno altro che evocare una sorta di intimità sonora mai sentita in un disco degli Hate Forest. Ed è forse questa dimensione più introspettiva e sognante che rende "Innermost" un album semplicemente stupendo dall'inizio alla fine. Se da un lato i brani rievocano antichi istinti e la crudezza di tempi remoti ed atavici, dall'altra riesce comunque a trasportarci su una dimensione più eterea e riflessiva. Probabilmente è proprio questa commistione di cambi di tensione che rendono il nuovo capitolo di Saenko veramente degno di nota: costantemente presenti ma l'uno non può prescindere dall'altro in una sorta di mix impossibile. Da qui nasce la magia di questo capolavoro, perché solo di capolavoro possiamo parlare di fronte a tanta magnificenza - a tal proposito segnaliamo come traccia la meravigliosa "By Full Moon's Light Alone the Steppe Throne Can Be Seen" che probabilmente racchiude un po' l'anima della produzione -. Insomma, non potete non recuperare un album di siffatta caratura che, da parte nostra, conferma ancora di più quanto gli Hate Forest siano oggigiorno tra le più importanti realtà Black di tutta Europa. Chapeau!
Ultimo aggiornamento: 22 Gennaio, 2023
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Dopo sei anni di gavetta, finalmente per i norvegesi Ritual Death è giunto il fatidico momento del debutto con il loro primissimo ed omonimo album. Per chi non conoscesse questa realtà, basti pensare che conta tra le sue fila il chitarrista dei Behexen, Wraath. Si tratta, dunque, di una band che a livello di curriculum vanta non poca esperienza sul campo, ed infatti bastano le prime note del disco per farci capire la qualità nettamente superiore del prodotto. Figlio di sonorità che ritroviamo in gente come Archgoath, Darkthrone, Darvaza, Gorgoroth di metà anni '90, l'omonimo disco dei Ritual Death si presenta in una forma più che smagliante presentandoci un lotto di nove ferocissime tracce, impregnate di tutta la violenza del Death americano (vedasi Triumvir Foul, Teitanblood e compagnia bella) ma contornate dall'aura maligna del Black delle band sopracitate. Il risultato è un album estremamente pesante, grezzo e feroce ma al contempo in grado di regalarci quella vena austera e cangiante, merito sicuramente delle bellissime sezioni di synth che danno a tutta la baracca fierezza e malignità. Non ci vuole molto a capire che qui ci sono dei musicisti veramente esperti, soprattutto se pensiamo che quello proposto dai Nostri sia un pattern compositivo e stilistico comunque noto ma che tuttavia non sfocia mai nel "già sentito" o in soluzioni prevedibili e basilari. Al contrario ogni traccia sa essere a modo suo unica, da quelle più lente, cadenzate e funeree a quelle più tirate e lanciate come un treno merci. Probabilmente l'aggettivo migliore per descrivere l'album è "compatto", con tutte le accezioni del caso. Un plauso alla band per questo signor debutto che sicuramente ha dato il via ad una carriera non poco rosea per il quartetto norvegese.
Ultimo aggiornamento: 17 Gennaio, 2023
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Indipendentemente da quelle che sono le - discutibili - idee politiche del personaggio, è indubbio quanto Werwolf e la sua one man band Satanic Warmaster sia una delle massime espressioni della forma più pura del Black Metal. Il carattere oltranzista dell'artista si riflette ormai da più di vent'anni nella sua musica che da oltre vent'anni regala delle sferzate egregiamente degne di nota. Non è da meno questo "Aamongandr", sesto album per il finlandese che giunge dopo un lungo silenzio durato otto anni dal precedente - ed ottimo - album "Fimbulwinter". Viene da sé che per gli amanti del genere questo era un appuntamento super gradito, considerando anche quanto detto più su, ovvero che il Black Metal che fuoriesce dalla mente del mastermind Werwolf è quanto di più iconico e feroce ci si potrebbe aspettare dal genere. Eppure l'indubbia capacità compositiva dei Satanic Warmaster permette alla band di produrre sempre e comunque musica ottima che non sfocia mai nell'autoreferenzialità o nel banale; questo di fatto rende il gruppo più che degno di nota. A differenza del suo predecessore, questo "Aamongandr" si presenta quasi sotto una maligna ed oscura nuova luce: laddove erano l'impostazione più à la Behexen o Horna, ora abbiamo un sapiente uso del sintetizzatore e di sezioni melodiche che rendono le composizioni epiche, ferocissime e battagliere. Non stupisce se si troveranno vicinanze con gli Emperor, i Dissection (seppur appena accennati qua e là), i Cradle Of Filth e, in generale, quel filone del Black. Tuttavia l'ottimo lavoro svolto da Werwolf in questa prova si dimostra proprio in questa sua capacità di essere certamente più melodico ma mai totalmente riconducibile a quei lidi: segno che le fortissime radici sono ancora ben salde alla fine del millennio e a quella crudezza dell'epoca. A testimonianza di ciò interviene la seconda metà del disco - sei tracce totali - a riportare, per così dire, il sound dei Satanic Warmaster verso territori ben più conosciuti. Da segnalare la splendida e conclusiva "Barbas X Aamon" che non sfigurerebbe per niente in "Filosofem" di Burzum. Da qui ci riagganciamo a quanto detto all'inizio: l'encomiabile capacità di scrittura del mastermind che pur restando all'interno di stilemi e modus operandi ampiamente noti, riesce sempre e comunque a regalare emozioni uniche. Ecco perché gli si perdona quel leggero senso di ripetitività che forse potrebbe venir fuori minuto dopo minuto. In definitiva riteniamo "Aamongandr" un disco da avere assolutamente.
Ultimo aggiornamento: 12 Gennaio, 2023
Top 10 opinionisti -
Genuino, incazzato, diretto, duro come il metallo appena forgiato: cosa si può chiedere di più ad un album Thrash Metal suonato a mestiere? Esatto, niente. Questi sono tutti gli ingredienti di cui abbiamo bisogno, senza troppi fronzoli o giochi strani: il genere lo amiamo proprio per la spiccata dose di mazzate in faccia che riesce a darci. Viene da sé, dunque, che da un lavoro come "Exiled to the Surface", quarto disco dei tedeschi Traitor, ci si aspetti ESATTAMENTE quanto detto sopra. E fortunatamente è proprio così: siamo in presenza del classico discone Thrash che nel suo essere esattamente quello che è, ossia un disco Thrash, ti sbatte in faccia una ferocia ed una violenza in pienissimo stile tedesco. Stop, fine. Tanto ci basta a decretarlo un ottimo lavoro con quel tocco ben evidente di personalità che fa comunque capolino a gente come Sodom, Kreator, Assassin, Destruction, Exumer e compagnia bella. Del resto cosa ci si poteva aspettare da quelle parti? Comunque sia i Traitor non sono certo ragazzini alle prime armi, seppur non si possa dire di essere dei veterani del genere; diciamo quindi che i Nostri si piazzano esattamente a metà, in quel filone di band di terza generazione nata nel 2009 che si rifà agli anni '80 con ben più di un semplice sguardo al futuro. La quadra di un approccio simile è esattamente questo "Exiled to the Surface", che nei suoi canoni classici del genere sa comunque offrirci una sana dose di modernità che non stona affatto: riff sicuramente diretti ma mai semplici o prevedibili, spennellate melodiche e assoloni al fulmicotone. Il tutto condito da una batteria tirata fino all'esaurimento ma sempre con cognizione di causa. Per questo motivo non si può assolutamente definire il quartetto un semplice copia/incolla dei grandi nomi sopracitati. Al contrario siamo in presenza di una band che ha compiuto il suo processo di maturazione mettendo del suo all'interno di un genere di per sé poco avvezzo a chissà quali stravolgimenti. Inoltre c'è da segnalare quella che, in fin dei conti, è l'anima principale del disco: la grinta assassina che in nessuna, e sottolineiamo NESSUNA, traccia viene meno. Tanto ci basta per spararlo al massimo volume possibile nello stereo per poi romperci l'osso del collo a furia di headbanging. Complimenti ragazzi!
Ultimo aggiornamento: 08 Gennaio, 2023
Top 10 opinionisti -
Giungono al loro debutto gli olandesi Written In Blood, quartetto nato nel 2019 dalla mente dell'ex God Dethroned Bert "Beef" Hoving. I Nostri, dunque, si presentano al pubblico con il loro omonimo full-length con quello che potremmo definire un Melodic Death moderno, suonato a mestiere e senza mai - o quasi - cali di attenzione. Il risultato è quindi un disco che ci presenta una band in formissima e con le idee chiare fin da subito. Particolarità che molto ci è piaciuta di questa prova è il sound estremamente cupo ed oscuro, frutto di un sodalizio tra chitarre estremamente ribassate e votate ad un songwriting compatto, a tratti groove, ma comunque lineare e scorrevole. Non c'è da stupirsi se troveremo rimandi ai tedeschi Deserted Fear, o ancora cavalcate vicine agli Asphyx o ai Bolt Thrower, così come l'epicità battagliera degli Amon Amarth. Il tutto, va puntualizzato, senza mai scadere in un mero citazionismo o emulazione: i Nostri si mantengono sempre su territori di loro competenza sfruttando, per così dire, le influenze delle band sopracitate. In generale, dunque, non si può dire nulla circa questo "Written In Blood" che nel complesso riesce ad attestarsi su livelli ben al di sopra della media. L'unico appunto che ci sentiamo di fare è forse quello di essere un po' prolisso in alcuni punti, soprattutto nelle sezioni strumentali dove si nota una certa attenzione - fin troppa alle volte - a soli o parti gemellate di chitarra. Tutto molto ben eseguito, ma alla lunga l'attenzione viene un po' meno, quindi sarebbe il caso di snellire un po' la struttura dei brani, soprattutto con un sound così cupo e scuro che rischierebbe di annoiare.
Ultimo aggiornamento: 02 Gennaio, 2023
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Dopo la prematura dipartita degli Svartidauði che interrompono la loro carriera dopo vent'anni di attività, l'ingrato compito di mantenere viva la fiamma della scuola Black islandese è passato totalmente ai Misþyrming. È noto che le due band siano tra le maggiori portavoce delle sonorità islandesi: soprattutto i secondi, più giovani di dieci anni, sono riusciti con il tempo a forgiare una carriera brillante piegando il Black Metal a visioni distorte e dissonanti. Tradotto: il suono dei Misþyrming evoca chissà quali creature lovecraftiane folli ed inimmaginabili. Proprio grazie a questa formula, che è sempre andata di pari passo con songwriting contorti ma mai fini a se stessi, D.G. e soci hanno preso di diritto la corona tra le band islandesi. Viene da sé che tutti i fan avevano grandissime aspettative per questo "Með hamri", terzo full-length per i Nostri che, diciamolo subito, funge da spartiacque con i primi due capitoli. Ma andiamo con ordine. Ciò che ha sempre stupito dei Misþyrming è la loro indomita capacità e voglia di non adagiarsi mai sugli allori o sui territori da loro stessi battuti, motivo per il quale ogni loro produzione ha sempre un nocciolo di unicità per quanto un certo modus operandi o tratto comune sia sempre ben presente. Ecco, anche in questo caso non siamo da meno con un album che in un certo senso snellisce la proposta musicale andando alla ricerca di un sound o una proposta più lineare per quanto a modo suo sempre complessa e stratificata. Eppure anche qui non ci saremmo mai aspettati di dover fare di nuovo il conto con alcune sonorità vicine agli esordi. Bastano infatti pochi minuti della opening track per capire di cosa stiamo parlando: un vero e proprio assalto all'arma bianca che sembra una fusione tra Kreator, Watain e Marduk. Black Metal velenoso e carico di odio costantemente impreziosito dal tocco islandese che vede nelle sonorità glaciali e nelle atmosfere plumbee e mortifere i suoi punti focali. Ma ecco che ogni nostra aspettativa sul possibile andamento del disco viene meno. Andando avanti si scopre come i Misþyrming in questo disco non abbiano voluto minimamente mettere un freno compositivo. Dalla ferocia dell'opener si passa ad un mood molto più sognante ed evocativo che potrebbe ricordare un pezzo folk, a testimonianza di quello che dicevamo all'inizio circa l'innaturale capacita dei Nostri di sapersi muovere così egregiamente all'interno di più territori senza mai perdere la bussola. Ed ecco perché a detta nostra "Með hamri" è un album colossale dall'inizio alla fine e probabilmente il miglior album del quartetto islandese, definibile con una sola parola: cangiante. È incredibile come D.G. e soci siano riusciti a modellare un lavoro del genere, infinitamente ricco di elementi ma così maledettamente lineare da far sembrare il tutto di semplice esecuzione. Praticamente possiamo dire che tutta l'ambizione, il bagaglio di esperienza e le conoscenze musicali dei Misþyrming siano racchiuse in quest'opera che segna definitivamente la consacrazione della band ed uno dei punti più alti mai toccati dal Black Metal negli ultimi almeno dieci anni. Complimenti!
Ultimo aggiornamento: 27 Dicembre, 2022
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Genuino; questo il termine che più si addice a questo "Gateways to Hades", agognatissima seconda prova dei serbi Terrörhammer che tornano in pista dopo sette anni di silenzio. Quasi si erano perse le speranze di poter mettere le mani su una nuova creatura del trio, che tra costanti cambi di line-up sembrava fosse giunto al capolinea. E invece... Il silenzio è stato rotto dall'avanzare di un carro infernale uscito direttamente dalla porta dell'Ade portando con sé tutta la furia luciferina che poteva contenere. Questa seconda fatica della band Serba è un pugno in faccia dritto e senza fronzoli: nessuno spazio per stupide od inutili introduzioni, zero totale. Qui si mena e basta e lo si fa con tutta l'ignoranza che si possa avere in corpo. Fortissimi dell'influenza di gente come Venom, Bathory, Motorhead, primi Sodom e Destruction, i Nostri sono fierissimi portavoce di quel Black/Heavy/Speed Metal che puzza di cantina ammuffita ma che tanto adoriamo per il suo ritmo spigliato e diretto. E infatti ciò a cui andremo incontro è ESATTAMENTE ciò che ti aspetteresti da un album siffatto. Tuttavia non è da confondersi con un lavoro scontato o banale, perchè se da un lato è evidente che il focus non è certo l'originalità - e così deve essere -, dall'altro si nota comunque una certa attenzione sia per la produzione - scarna ma perfetta nel suo sapore minimale - e per il songwriting sempre ben al di sopra della media. Insomma, Pentagramator The Helltyrant e soci non sembrano minimamente essere stati intaccati da questi sette anni di assenza. Al contrario ci sembra proprio che i Terrörhammer abbiano ripreso esattamente da dove avevano lasciato ma con un carico ancora più grande di esperienza e voglia di fare. Il risultato è un disco gustosissimo ed estremamente pungente da mettere a tutto volume in macchina in onore di quei tempi ancestrali in cui il Metal iniziò a diventare molto più oscuro con le band sopracitate. Per dirla con la metafora di prima: sembra di trovarsi su un carro infernale lanciato a tutta velocità con il solo ed unico scopo di investire ed infiammare ogni cosa gli si pari davanti; non importa quale ostacolo si incontrerà nel cammino: i Terrörhammer riusciranno comunque ad annichilirlo. Da ascoltare assolutamente e complimenti per questo grandissimo esempio di genuinità senza fronzoli e compromessi.
Ultimo aggiornamento: 27 Dicembre, 2022
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Non c'è molto da dire quando si parla degli svedesi Ofermod se non: macchine da guerra senza pietà alcuna per l'ascoltatore. Già l'anno scorso ne abbiamo avuto l'ennesima conferma con l'ottimo "Mysterium Iniquitatis" cui segue in questo finale di 2022 l'EP "Ofermodian Litanies", degno erede del suo predecessore e fondamentalmente un'appendice che va a confermare quanto detto pocanzi. Da quanto si apprende in questo solo anno all'interno della band è rimasto solo il suo "pacatissimo" fondatore Belfagor ed il nuovo session drummer Bloodhammer. Insomma, un - ennesimo - nuovo cambio di line-up che tuttavia non ha minimamente intaccato il tipico sound Black/Death luciferino degli Ofermod, e non ci stupisce più di tanto: stiamo pur sempre parlando di un gruppo che, al pari di gente come Watain o Dissection, ha contribuito a creare un certo modo di intendere il Black svedese di fine anni '90. Tanto ci basta per promuovere a pieni voti questo EP che, diciamolo, fondamentalmente non aggiunge nulla se non confermare quanto la carriera degli Ofermod sia ben lungi dall'aver esaurito le proprie carte da giocare. vedremo cosa accadrà nel prossimo full-length.
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