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Opinione scritta da Anthony Weird

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Opinione inserita da Anthony Weird    18 Febbraio, 2018
Ultimo aggiornamento: 18 Febbraio, 2018
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Cavaliere impavido in copertina e branco di lupi bianchi, così si presenta "Zăul Moș", il nuovo album di casa Syn Ze Sase Tri, band rumena arrivata al quarto lavoro in studio dedita ad un Black Metal epico-sinfonico, che richiama a momenti i Dimmu Borgir, Immortal, Keep of Kalessin, ma anche progetti più controversi come Arckanum e contaminazioni prese direttamente dall’ Epic-Power Metal più canonico. Soprattutto i connazionali Negura Bunget, dove militava l’ex chitarrista e vocalist Corb.
Già dal primo brano “Tărîmu de Lumină” è evidente e tangibile, oltre la grande maestria dei rumeni, la voglia di inserire elementi di chiara origine folkloristica, non solo per la scelta di cantare in lingua madre.
Conquista immediatamente la mia attenzione il sapiente uso delle testiere, mai predominante, ma che anzi non fa altro che arricchire i brani già di per se molto complessi, con l’uso di strumenti tipici della tradizione popolare. “Dîn Negru Gînd”, invece, apre in pieno stile Power Metal, tanto che pare di ascoltare i Rhapsody mentre i Dimmu Borgir stanno suonando nella stanza accanto e devo dire che questo sound non mi dispiace affatto, anche quando due tipi di vocals si alternano, creando un duetto estremo che però alla lunga viene a pesare, perché è come se Dani Filth (quello attuale) abbia un litigio con se stesso davanti allo specchio. Tuttavia l’unica cosa davvero degna di nota è l’assolo carico di Heavy Metal di “Solu Zeilor”, perché, a dire la verità, l’effimero entusiasmo iniziale è quasi immediatamente scomparso, consumato da una produzione plastica e talmente fredda che la base pare distaccata dal resto, con le voci in primissimo piano e dei blast beat che si limitano ad una doppia cassa meccanica e non troppo fitta. “Zăul Moș” può risultare interessante per l’uso particolare delle voci, ma è l’unica cosa degna di nota, così come in “Plecăciune Zăului”, dove la voce femminile rende il brano una sorta di ballad black metal che merita sicuramente di essere ascoltata, anche solo per il sentimento che traspare. I restanti brani restano nel pieno stile Dimmu Borgir e non raggiungono mai elevate velocità, a parte su “Urzeala Ceriului” dove osano un po’ di più e finalmente sento la band che volevo fosse dal principio. Peccato che la trovi solo qui.
Si tratta, in ultima analisi, di un album mediocre che, per quanto mi riguarda, riesce a superare la sufficienza, solo per il lavoro alle chitarre che, nonostante sia spesso troppo simile tra un brano e l’altro, resta notevole e coinvolgente, creando riff accattivanti e soprattutto assoli sporcati di NWOBHM. Non è un album brutto, né un disco essenziale, destinato ai fans di certe sonorità che vogliono qualcosa di un po’ più “elevato culturalmente”, dal momento che si concentra sulla tradizione dell’est Europa. Consigliato se amate il genere, altrimenti passate pure oltre.

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Opinione inserita da Anthony Weird    27 Gennaio, 2018
Ultimo aggiornamento: 28 Gennaio, 2018
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“Symphonic- DSBM”, due generi che, se ci pensate bene, stanno insieme come il cacio sulle cozze e che, nonostante vengano spesso miscelati tra di loro da band che cercano di rendere più maestosa o più disperata la loro musica, raramente vengono utilizzati per definire il tipo di proposta presentata. Cosa che invece fanno questi Mist of Misery, direttamente da Stoccolma. Ci propongono questo EP di sette pezzi di black metal, che non riesce a starsene tranquillo, scorrendo nel suo letto oscuro, ma che spesso straborda, invadendo l’una o l’altra corsia.
Mi accingo quindi al rafting lungo queste rapide, partendo con la prima traccia “Shackles of life”. Un pianoforte sorretto da una chitarra acustica si presentano subito lievi ed atmosferici. Belle le note di basso in sottofondo e devo dire che a questo punto non mi aspettavo la sferzata di disperazione che salta fuori dopo poco dall’inizio. Il basso diventa potente, le chitarre sono come impazzite ed iniziano a creare muri granitici tutto intono a me, fino a quando una mitragliata di blast beat, non fa la sua comparsa a sorreggere il tutto. Egregiamente poi, la voce arriva a spazzare via ogni cosa con il suo canto disperato e non può fare a meno che portare oscurità. Salta subito all’occhio, o meglio all’orecchio, la produzione perfettamente azzeccata al tipo di sound, non eccelsa, ma neanche grezzissima. La seconda parte del pezzo diventa più melodica e il piano la fa da padrone, con il suo banding in primo piano. La voce invece è relegata ad eco lontano, ormai inarrivabile e senza speranza, un tuono portato dal vento. Qualcosa di sublime. “Placid Drowing” è una sorta di intermezzo di meno di due minuti, fatto di note ovattate, suoni dispersi in acqua, annegati ed affogati nel fiume della disperazione di cui ci narrano. Una specie di nota introduttiva per il capitolo più lungo dell’EP, ovvero “Broken Chains”, che apre in modo molto atmosferico, con un coro angelico, che fa da contorno al vero splendore black che questa band porta subito dopo. Muovendosi lungo territori assolutamente DSBM, si ergono al nostro passaggio cattedrali gotiche e cimiteri abbandonati, grazie ai cori e alle pompose sinfonie che gli svedesi non ci risparmiano. Subito dopo la metà del brano, trovo una stranissima distorsione delle lyrics, che vengono recitate al contrario. Qualcosa di sicuro di grande effetto e molto accattivante. Dopo questa simpatica fase, torniamo ad inoltrarci nelle lande desolate, dove le anime dei dimenticati non trovano pace, innalzando verso il cielo nero, i loro gridi di dolore, sangue e lacrime. Brani veramente molto evocativi, che fanno della furia del Black metal il loro punto di forza, ma senza mai dimenticarsi della parte emotiva che questo genere riesce a tirar fuori, in questo caso amplificata grazie all’ausilio delle note sinfoniche e depressive. “A Dreamless Void” fa tornare in auge il pianoforte triste e malinconico con delle forti note di basso, ma, stranamente, molto più allegro di quanto immaginassi. Devo dire però che l'ho trovato molto piacevole ed azzeccatissimo a questo punto del pezzo. Le note dell’organo poi, vanno a cullare le nostre orecchie deturpate e così ci accompagnano al quinto brano “Dagon” dove, accantonate per ora le splendide note classiche, si torna a martellare dietro al muro di distorsione e bassi impenetrabili, a cui si aggiunge un blast beat fitto e perfetto. Qui le tastiere sono acide e maligne, qualcosa che ricorda i primi Cradle of Filth, ma senza la voce a raffica di Dani Filth, anzi con un sound fresco e “svecchiato”, pur restando negli stilemi classici del black metal. Ancora un intermezzo di piano, questa volta intitolato “Opening Chapter to a Solitary Confinement” e chiudo gli occhi, lasciandomi trasportare da questo splendore, aspettando il momento in cui tutto tornerà ad esplodere. “Closing Chapter”, il settimo ed ultimo brano, ci accoglie in modo molto più tenue di quanto mi aspettassi. Suono delle onde e note di pianoforte sorreggono la voce, che recita parlandoci di patti col diavolo e qualcuno singhiozza piangendo in secondo piano. Ascoltando il racconto malsano mi avvicino alla fine, devo dire positivamente colpito da questo gruppo svedese, che sa coniugare perfettamente sia il concetto di “black metal” a quello di puro “black”, senza il bisogno di distorsioni impossibili e velocità impressionanti, ma anzi, servendosi di un nobile e calmissimo pianoforte che, nelle mani giuste, diventa un’arma di “metallizzazione” di massa! Assolutamente consigliati.

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Opinione inserita da Anthony Weird    11 Settembre, 2017
Ultimo aggiornamento: 11 Settembre, 2017
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Le bands della Campania ci stanno dando non poche soddisfazioni ultimamente, io stesso mi sono trovato a recensire delle vere perle che per una volta non parlano di sole, mare e fichi d'India... Scuorn, Annihilatomancer e Rossometile, tanto per fare qualche nome, ed è lì che, sotto il sole di Napoli, nasce una band che sogna il gelo ai piedi del Vesuvio. I Neve infatti, sono figli di Partenope e ci propongono oggi “Tales from the Unknown”, che si apre con un brano dal titolo splendido “Clouds of Melancholy”. Bella produzione low-fi, grezza e graffiante in pieno stile DSBM, con un poderoso e onnipresente basso in primo piano. Ciò che viene immediatamente penalizzato è il suono della batteria che resta molto in secondo piano, sopraffatto ed in parte oscurato. Ma tuttavia il brano racchiude un profondo senso di dispersione e tristezza, una rabbia ovattata e bisognosa di esplodere, con pezzi di rassegnazione improvvisa e depressione crescente, basta ascoltare l'ultima fase.
“This Ancient Cliff”, prosegue benissimo sullo stesso binario, presentando un brano molto più vario e curato della opening. Bello il lavoro di tastiere che salta immediatamente all'attenzione, dove trovo un drumming molto più presente, che si muove bene attraverso un basso molto dinamico e piacevole. Le vocals sono adatte, perfettamente integrate con il resto del lavoro e restano molto in secondo piano, come richiesto dal genere proposto. La sezione strumentale qui è notevolmente migliore e va a creare un brano veramente piacevole e anche originale. La voce distorta sul finale poi, è un tocco di classe, lyrics recitate che donano un notevole spessore al pezzo. Molto bello!
Proseguo con “The Night” ed il suo riffing carico di tensione. Si tratta di un brano molto più veloce dei precedenti, più carico e più pesante, che attinge a piene mani dal black metal più classico di stampo norvegese, che accantona leggermente i territori del DSBM, per tornare alla vecchia scuola. Sono palesi influenze di Darkthrone, Arkhanum e Burzum, ma si perde in un finale frettoloso e troppo raffazzonato a mio avviso. Dà assolutamente l'impressione di essere stato tirato via e questo dispiace. Con “So Many Times”, entriamo nella seconda parte dell' EP in modo positivo. Una lunga intro strumentale che ripete come un disperato mantra il riffing iniziale, che poi, come un triste Virgilio, ci accompagnerà nella discesa all'inferno insieme ai Neve. Un brano piacevole, ma non ai livelli di “This Ancient Cliff”, che però comunque si dimostra originale grazie ad un assolo praticamente fuori dagli schemi e che mi fa alzare un sopracciglio incredulo, che non va assolutamente a deturpare il brano ma che, anzi, gli dona personalità e gli concede un certo interesse. Mi avvio alla parte finale con “Perpetual Nightmare” ed il suo arpeggio struggente. Una intro molto lenta e una chitarra solista elegante e decadente. Un viaggio strumentale nel cosmo deturpato, nelle tenebre graffianti. Si tratta di una composizione semplice ma efficace, che non fa gridare al miracolo, ma che rende più scorrevole questo “Tales from the Unknown”, conferendogli grazia ed eleganza “gotica”, nella sua decadenza, non solo grazie alle note di pianoforte finali.
Ultimo step per “Pure”, distorsione pesante e granitica e si parte. Bassone prepotente sempre molto in risalto ed un riffing molto veloce. Qui il DSBM trova la sua linfa e la forza depressa e disperata di cui si nutre. Anche qui l'originalità è presente, con stacchi melodici ed esplosioni di rabbia improvvisa, bipolare ed interessante, con una bella sezione ritmica e delle vocals molto adatte ed integrate al resto.
Senza gridare al miracolo, "Tales from the unknown" dei Neve è un EP piacevole, fluente, che aggiunge un nuovo bel lavoro al metal made in Campania e che tutti gli appassionati del genere, dovrebbero almeno ascoltare.

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Opinione inserita da Anthony Weird    08 Settembre, 2017
Ultimo aggiornamento: 08 Settembre, 2017
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Gli Epica fanno sul serio! La band olandese sembra stanca di essere considerata parte di un genere per ragazzini e, diciamolo, ogni fan è stanco di sentirsi dire che li ascolta solo per l'abbagliante bellezza della singer Simone Simons, cosa veramente ridicola. Hanno quindi appesantito il loro sound già da tempo, inserendo elementi tipici di generi molto più estremi, come Death Metal, Djent, ma anche Progressive e Black, creando uno stile proprio della band, che ha ben poco da spartire, a mio avviso, con le restanti nuove leve del Synphonic.
Le composizioni della band sono serie, moderne e fresche, impegnative, geniali oserei dire, i brani sono studiati, sono sofferti e mai banali, l'immensa capacità compositiva degli olandesi si è andata raffinando, affinandosi ed affilandosi, divenendo col tempo una vera e propria punta di diamante del Metal mondiale di oggigiorno. Accantonati i temi più “goth”, che li avevano resi celebri all'inizio della loro carriera, gli Epica, si sono spesso concentrati su tematiche sociali ed introspettive, ma, dall'uscita di “The Quantum Enigma”, il nuovo amore concettuale della band, sembra essere la fisica quantistica, lo spazio, l'universo e tutto il senso cosmico di un senso ed una modalità dell'esistenza della vita e della materia stessa, che è veramente troppo inconcepibile per un semplice essere umano, ma al tempo stesso ugualmente affascinante. Ed ecco quindi, che a più di tre anni di distanza da “The Quantum Enigma” vede la luce ciò che possiamo definire come il completamento di “The Holographic Principle”, la chiusura del cerchio, ovvero l'EP “The Solace System”, uscito esattamente un anno dopo l'album di cui è il giusto proseguimento. “The Solace System” contiene sei brani ripescati tra quelli scartati dalla tracklist di “The Holographic Principle”. Si presenta con una elegante ed accattivante confezione digipack, con una copertina che definire meravigliosa è un eufemismo, e non solo perché dopo anni finalmente torna Simone in copertina, cosa che non può fare che piacere!
La prima traccia, senza nessun fronzolo, senza una classica intro tanto care alla band, è la title-track “The Solace System” e ciò che salta subito all'occhio - o meglio all'orecchio - è l'immenso senso di “elevazione”, di cui è pregna l'atmosfera. Si ha subito la sensazione di stare ascoltando qualcosa di “alto”, di maestoso e complesso. I cori iniziali donano immenso spessore e carattere al brano e, dopo una pausa generale, la voce dolce e fresca di Simone entra in campo già sparata a mille, subito seguita a ruota dal grunt granitico di Mark Jansen, contornato dai cori, ampi ed accattivanti. La sezione ritmica non accenna mai ad un calo, neanche durante le strofe, ma resta costante aggiungendo colpi di doppia cassa a tappeto, durante il ritornello e, come sempre nello stile della band, molta importanza è data alla parte puramente strumentale dei brani, che qui raggiunge il suo apice con un assolo splendido e funesto, forse leggermente corto per i miei gusti, ma che poi va ad esplodere sul drop e regala un ricamo sublime, dove il sistema solare viene meravigliosamente omaggiato. Con la seconda traccia, “Fight your Demons”, tornano i temi positivi e carica di speranza di cui gli Epica hanno sempre abusato e mi stupisco di come un brano del genere, possa essere stato scartato dalla tracklist dell'album principale. Il Djent regna su delle fasi forse leggermente canoniche, ma con una immensa potenza delle terzine e con una distorsione dura come un masso, creano una cascata di martelli dietro le pelli. L'assolo poi è il vero punto d'arrivo di questo brano, uno sfogo, una violenza unica, voci femminili e growl cupi si alternano in una costante ascesa verso l'infinito, ricordandoci di non arrenderci mai e di continuare a combattere i nostri demoni. Il vero capolavoro di questo EP è però sulla pista d'atterraggio ed arriva puntuale al numero tre con il titolo “Architect of Light”, un brano magnifico, emozionante e sensazionale, che con i suoi cinque minuti e ventun secondi riesce a far realmente immaginare mondi “exta-materiali”, fatti di una essenza che non possiamo neanche immaginare e concepire sulla Terra, vivi una dimensione cosmica talmente assurda e reale al tempo stesso, che può solo appartenere al divino. E mi chiedo cosa abbiano pensato quando lo hanno scartato, perché è uno dei punti di forza non solo di questo concept, ma di tutti gli ultimi anni della band. Scintillii di Synth, tastiere che paiono uscite da un film epico su Re Artù e i Cavaliere della Tavola Rotonda, per poi esplodere con un riffing ed una melodia vocale dei cori, che sono tra le migliori cose ascoltate nell'ultimo periodo. La lead vocalist accarezza le nostre anime con una voce dolce e fresca e smorza la potenza incontenibile della sezione ritmica che non accenna a calare di un tono, soprattutto quando sono i grunt di Mark ad entrare in gioco ed un blast beat fitto come un groviglio di rovi, si stende a tappeto sotto tutta la composizione. E poi la magia: architetture innaturali di castelli fatti di luce e pietra si stagliano davanti ai miei occhi sognanti, con fasci di luce dorata che tagliano in diagonale le loro sagome bianche, cori angelici e l'immensa maestosità di questa band e della Dea che fa da frontwoman che si eleva al di sopra di tutto, della terra, del sistema solare, della realtà stessa, che ci dona un assaggio, un pezzo d'Arte di una magnificenza ultraterrena! Ancora imbambolato da una meraviglia del genere, con l'anima sazia ed in estasi, mi accingo ad ascoltare “Wheel of Destiny”, quarta tappa di questo viaggio in musica nel sistema solare. Un'esplosione di potenza e riffing da old school creano il giusto mood per aprire la strada ad un pre-chourus strumentale che va ad allungare l'intro senza stancare. La voce di Simone saltella sulla chitarra ritmica, rincorsa da un poderoso growl, che la costringe a rifugiarsi in un ritornello molto piacevole ed accattivante. Benché il brano non raggiunga il livello del suo predecessore, risulta ben studiato, bilanciato e con una buona sezione strumentale a cui viene lasciato una buona dose di spazio, pur restando su fasi canoniche. Il giusto brano per alleggerire l'EP, almeno emotivamente, perché qui il metal è predominante e la potenza dei brani è costante almeno fino alla prossima canzone, ovvero “Immortal Melancholy”, dove se la potenza cala, donando un attimo di tregua ai nostri timpani, è l'emotività a raggiungere le stelle! La ballad è lenta e calma, ed è una leggera chitarra acustica a partire, sorretta da un basso forse troppo predominante e potente. La voce di Simone è molto “in your face”, pulita, melodica, molto fresca e tenera ma con delle punte di lirico che ne smorzano la dolcezza. Il brano è corto - si tratta del pezzo più breve dell'EP - e credo che sia la sua dimensione adatta, una lunghezza maggiore avrebbe finito per snaturarlo, a discapito della freschezza. Una canzone che, pur essendo una ballad, dice in faccia ciò che ha da dire e lascia l'ascoltatore a riflettere su quelle parole, senza aggiungere altro, facendo in modo che sia egli stesso ad aggiungere ciò che il proprio cuore pretende ancora di sentirsi dire. Meraviglioso. Ultimo step, purtroppo, per “Decoded Poetry”, la vera chiusura del cerchio, con questo il principio olografico è finalmente concluso, eviscerato, spiegato e completo, ultimo brano che può finalmente liberare la band da questo macigno troppo pesante da reggere e da sopportare, ed ora con queste note prepotenti che tornano a martellare innalzandosi nel cosmo, possono finalmente dare pace a quest'arte irrequieta. Il pezzo torna sul livello dei pezzi precedenti ad “Immortal Melancholy”, ovvero un brano molto potente in pieno stile Epica, con parti sinfoniche che vanno ad arricchire la composizione ritmica che oscilla tra Thrash Metal e Djent, con spruzzate di vari altri sottogeneri, che non fanno altro che dare ulteriore “odore” ad un pezzo che di suo è già molto vario e complesso. La voce che si unisce alla parte finale dell'assolo è la ciliegina sulla torta che ci accompagna al finale, al culmine di tutto, che non poteva essere che magnifico e maestoso, pomposo come solo una band sinfonica di tale livello può essere.
Gli Epica sono tornati alla grande a solo un anno di distanza e ci regalano un ulteriore assaggio, dopo una gustosissima ed abbondante portata come lo è stato "The Holographic Principle", di quello che possono tirare fuori dalla loro incredibile capacità compositiva e bravura eccelsa. Inutile dire il contrario. In conclusione, come il chitarrista Isaac Delahaye ha tenuto in più di una occasione a ribadire, “se prima d'ora gli Epica sono stati una band Symphonic, con componenti Metal, ora sono una band assolutamente Metal, con componenti Symphonic”, lontana anni luce (è proprio il caso di dirlo), dal finto metal che infesta i festival ormai, che vive d'immagine con frontwomen scosciate, scollate ed ammiccanti, con un look che oscilla tra il goth e l'emo, e che hanno ben poco da offrire se non una distorsione durante gli innumerevoli ritornelli e sempre più centimetri di pelle da mostrare. Gli Epica sono un altro mondo, un altro universo e lo dimostrano lavoro dopo lavoro, con una bravura, capacità e coraggio che li ha già resi maestri di tale genere e che li sta portando man mano sempre di più nella leggenda.

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Opinione inserita da Anthony Weird    25 Agosto, 2017
Ultimo aggiornamento: 26 Agosto, 2017
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Gli olandesi Carach Angren sono subito balzati agli onori della cronaca quando, nel 2008, esplosero nella scena Black Metal con un Symphonic maestoso e senza eguali, con il loro “Lammendam”; ma è con il meraviglioso “Where the Corpses Sink Forever” che Seregor e compagni hanno saputo crearsi un seguito di appassionati di tutto rispetto, diventando una delle realtà Black Metal più amate e apprezzate, anche da chi non segue il genere. Oggi è la volta del quinto lavoro sulla lunga distanza e... beh, con una copertina veramente, ma veramente brutta (vogliamo dirlo? E diciamolo!), che fa rimpiangere la minimale eleganza di “Where the Corpses Sink Forever”, ci propongono l'ultima fatica “Dance and Laugh Amongst the Rotten”. Nove brani di media lunghezza (cosa già strana per i loro standard), ma per un giudizio corretto premo play e vediamo cos'hanno in serbo per noi.
La prima traccia è la intro “Opening”, pianoforte molto dolce e tastiere in lontananza, un'atmosfera subito permeata da suoni sinistri, gotico e decadente in queste note che scorrono lente, senza fretta e che diventano sempre più maestose ed accattivanti. Piano piano ci avviano alla prima vera traccia, ovvero “Charlie”, anche qui l'intro sembra un prolungamento di “Opening”, prima di esplodere con un blast beat chirurgico e delle vocals maligne e spaventose. Cori in lontananza che danzano su synth pomposi ed un lavoro sulle sei corde, degno di un Technical Death/Black. La vera sorpresa si ha a metà del brano, dove i cori passano in primo piano e si alternano alla componente Metal assolutamente estrema. Componente Metal assolutamente estrema che predomina invece in “Blood Queen”, in cui delle chitarre granitiche si fanno largo prepotentemente fino alla guerra totale. La batteria diventa una vera e propria mitragliatrice, per falciare chi ancora non è convinto delle capacità e genialità di questa band. Vocals recitate si alternano al pianto di un neonato ed il tutto diviene un racconto in musica, che però non mette da parte il Metal, né la potenza o la rabbia, ma il tutto si amalgama in un piatto succulento che non teme confronti, né le critiche del più acido dei critici. Sublime. La storia prosegue con “Charles Francis Coghlan”, il brano più lungo di tutto l'album, che apre lasciando molto spazio alle vocals, cosa che si protrae un po' troppo a lungo, forse leggermente troppo monotono, ma la tensione viene spezzata spesso nella seconda parte di quest'immensa prima strofa in cui tutti gli strumenti sono al servizio della voce, sono lì per contornarla ed arricchirla, ma la vera esplosione di Symphonic Black Metal coi contro cazzi si ha sul finale, e mi godo l'ultima fase quasi in estasi, grazie ad un totale “Eargasm”. Un titolo splendido come “Song for the Dead” inizia come un cantastorie malefico, cosa che mi richiama alla mente il capolavoro del maestro John Carpenter “The Fog”. Il brano scorre, ma sinceramente mi aspettavo di più, questo ripetere “Song for the Dead” senza un reale motivo non mi convince, sembra quasi uno scimmiottamento della canzone stessa e, anche se musicalmente è comunque un pezzo valido, non riesce a conquistarmi. Di tutt'altra pasta è invece “In de Naam van de Duivel”, dove la musica regna ed il Metal è granitico e pregno di rabbia e malignità. Le note del basso mi ricordano l'enorme livello tecnico del trio olandese, che forse però abusano troppo con le vocals recitate. Arrivo al brano numero sette “Pitch Black Box” e... no, qui non c'entra Vin Diesel, ma un Black Metal ossessivo e predominante. Oscuro, malato, un brano pregno di una ossessiva paura, un tormento senza via d'uscita. Anche qui ritrovo le lyrics recitate e so che ormai sono una costante ma, a parte questo piccolo noioso dettaglio, il pezzo è uno dei migliori, veramente magnifico e non lascia un filo di speranza. “The Possession Process” ed il suo riffing molto interessante mi accolgono al numero otto, ed ormai continuare a parlare della capacità tecnica e compositiva di questa band sarebbe inutile. La qualità della proposta dei Carach Angren non si discute, si ama, quello che è discutibile è uno stile a volte veramente troppo secco, troppo netto, quadrato, che contrasta e fa a pugni con la melodiosa componente sinfonica di cui ogni brano è pregno: modificare leggermente la struttura dei brani potrebbe solo portare benefici. “Three Times Thunder Strikes” è l'ultimo brano e mi rendo conto che non ha affatto l'aria di una ending song. L'atmosfera è piatta e statica dall'inizio alla fine dell'album ed alla lunga può risultare stantio, tuttavia queste particolarità “negative” vanno riportate proprio a voler essere pignoli e a voler trovare il pelo nell'uovo, questo va detto, perché ci troviamo di fronte ad una band che non ha niente da imparare da nessuno, anzi ha dimostrato ampiamente, nel corso di questi anni, di essere composta da tre grandi maestri che, nonostante la loro giovane età, vantano una conoscenza che va ben oltre la sola tecnica.
Un'ampia conoscenza degli strumenti classici, delle orchestrazioni, dei componimenti più complessi, nonché del Metal estremo e dei loro strumenti. Che dire in conclusione? Che li amiate o no, vanno ascoltati, almeno per rendersi conto di cosa in realtà è capace questa band.

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Opinione inserita da Anthony Weird    24 Agosto, 2017
Ultimo aggiornamento: 24 Agosto, 2017
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La Grecia ci ha sempre dato delle grandi soddisfazioni in ambito di Metal estremo, dalla penisola infatti sono arrivate band del calibro di Rotting Christ, Astarte e soprattutto i leggendari Septicflesh. Ora è il turno del ritorno sulle scene degli In Utero Cannibalism, con il quarto full-length “Butcher While Others Obey”. La band è sempre stata famosa per il suo monicker, una scena così controversa ed estrema, che racchiude in una sola immagine, l'Infernal Death Metal, proposto.
“Silent Abuse” apre le danze, un forte e fastidioso rumore di statico mi accoglie, con una voce che subito recita con un sacco di riverbero e rumori di sottofondo e poi, finalmente parte la musica. Death Metal che spesso e volentieri sfocia nel Brutal e clamorose spruzzate di Black Metal nel guitar working, che rendono interessante il tutto. Ciò che di primo acchito non convince è la voce: un growl non abbastanza potente e che toglie spazio alla batteria. La produzione, infatti, nonostante sia chiara e piacevole, mette in primo piano solo le chitarre, lasciando il drumming un po' isolato dal resto. In “Dawn of Devotees” si trova dello spazio per la melodia in mezzo ad una grande rabbia, ma una potenza che si fa desiderare. Il lavoro sulle chitarre è troppo, veramente troppo contaminato da influenze che sono troppo distanti dal Death Metal (come ad esempio il Punk) e non trasmette l' idea di “tritacarne” come fanno magistralmente band come i Cannibal Corpse, tanto per fare un nome di spicco. “Exile” apre molto meglio: qui la qualità sale di molto. Sembra quasi di trovarci di fronte ad un componimento Blackned Death Metal, se non fosse che qui di Black non c'è traccia, ma anzi piuttosto una buona dose di Kerry King a completare una portata che non è cattiva, ma neanche molto gustosa a mio avviso. Diciamo un piatto che potreste trovare al supermercato. Quarto posto per “For Those who Defy”. Anche qui, Brutal Death Metal, mescolato ad una buona dose di Punk, connubio strano, ma che a questo punto inizio a chiedermi se non sia voluto, visto che probabilmente è questo l' intento degli In Utero Cannibalism: suonare i generi a loro più congeniali, mescolandoli tra loro. La title-track “Butcher While Others Obey” riporta un interessante dialogo dove si denuncia la fede verso il denaro e l' innalzamento a “dio” dello stesso. Cosa molto bella che apprezzo molto, musicalmente il pezzo convince e risulta piacevole per delle trovate molto intelligenti che danno dinamismo e spessore al guitar working, con momenti anche derivanti dalla NWOBHM, di sicuro il brano migliore ascoltato fino ad ora. “Vile Blessings” continua il lavoro di Death e Punk, con blast beats più in primo piano di quanto ascoltato finora. Un lavoro di chitarra ben studiato e accattivante invece, lo trovo su “Prevail”, con anche il basso ben delineato, un pezzo che, sinceramente, con i suoi momenti melodici ed addirittura clean, ben mescolati ad un Death abbastanza grezzo e raw, portano il disco ad un livello superiore ed è ciò che avrei voluto ascoltare fin dal principio. “Born to Degenerate” continua questo lampo di genio e crea un brano magnifico, potente e complesso: possiamo dire che questo album è partito lento, per poi tenere in serbo il meglio verso la metà, dove la band fa vedere di cosa è realmente capace. E devo dire che la cosa continua con “Exorcized”, Death (quasi Death/Black) di buon livello compositivo, con una buona dose di rabbia e potenza: qualcosa di grandioso con momenti anche spaventosi. Non mancano anche qui contaminazioni Punk o Thrash Metal soprattutto di natura “slayeriana”, ma l' originalità non manca, espressa soprattutto con pause, distorsioni vocali e cambi di mid-tempo molto gustosi. Decima traccia intitolata “In Cold Despair”, dove trovo una buona composizione, ma il tutto perde di potenza e probabilmente anche di cattiveria, l' unica cosa degna di nota è l'assolo che mescola il già sopracitato Kerry King alla NWOBHM, mentre il resto ha alti e bassi, con sì spunti molto interessanti, ma che fanno fatica a brillare, non si mettono in risalto e finiscono per essere sprecati, il che è veramente un peccato. Vado avanti con “Solitude Eternal” ed anche qui la buona vena compositiva dei greci si fa ammirare, un brano molto vario, dinamico, che scorre e non capisco perché l'abbiano relegato al numero undici dell'album, dato che è uno dei brani migliori. Voci campionate e rumori di sottofondo per “The Mutants”, per poi ricevere in faccia una vera colata di Brutal Death Metal, e già mi vedo ricoperto di sangue e frattaglie varie. Anche questo è uno dei brani più convincenti, sicuramente un disco che ha voluto tenere la tensione crescente, che è partito non proprio benissimo (anzi anche un po' zoppicante a mio avviso), per crescere man mano e tenere i brani più validi sul finale, come questo pezzo entusiasmante, che da solo vale l'ascolto. Il mio viaggio nell'utero cannibalizzato arriva al temine con “Static Empire”, un'outro fatta di suoni inquietanti e campionamenti.
Che dire... In ultima analisi un lavoro che non fa gridare al miracolo, ma che non merita neanche di passare quasi completamente in sordina, almeno tra gli appassionati deathsters. Tra un osso ed un polmone maciullati, dateci un'occhiata!

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Opinione inserita da Anthony Weird    13 Agosto, 2017
Ultimo aggiornamento: 15 Agosto, 2017
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E' ancora possibile oggi parlare degli Astarte? La primissima band Black Metal completamente al femminile, torna a reclamare la luce dei riflettori, impazienti di scoprire cosa gli Astarte sono oggi, dopo quel maledetto 10 agosto 2014, quando la piaga della leucemia ha purtroppo avuto la meglio sulla compianta Tristessa.
E poi scopriamo che, in realtà, si tratta di una riedizione: accanto a Kinthia, che si è occupata della maggior parte del lavoro - realizzando le voci, le tastiere e le chitarre - ed a Nemesis, che ha dato il suo contributo a tastiere e chitarre, troviamo Tristessa a suonare il basso, in questo “Doomed Dark Years”, la re-release dell'album del '98.
E quindi, senza indugiare oltre, oggi come allora, è “Passage to Eternity” ad aprire le danze. Synth inquietanti e tuoni in lontananza fanno il loro sporco lavoro, creando un' atmosfera immediatamente sinistra. “Voyage to Eternal Life” è però la prima vera canzone. Un Black Metal ferale e grezzo, che trasuda inquietudine e atmosfera. Nei suoi oltre nove minuti di durata, non annoia e non cala di tensione, da notare il basso che non solo è in primissimo piano, ma anzi collabora attivamente al riffing, creando una melodia maledetta che entra sotto la pelle. Senza un attimo di respiro, vengo catapultato nel riffing circolare e da tritacarne di “Throns of Charon Pt.I Astarte's Call”. Anni '90 in ogni nota, il Black Metal potente e perfetto come io lo intendo, senza nessuna fottuta intromissione tamarra per accattivare i metallarini, ma solo vero e puro Black Metal creato in modo magistrale da queste tre donne, queste tre immense artiste che non hanno mai cercato il consenso del grande pubblico (come altre band molto più tamarre), ma che l' hanno sempre ricevuto, perché la proposta portata avanti è sempre stata impeccabile, dal 1998 ad oggi. Il dolce arpeggio della title-track mi accoglie, ma so che non devo adagiarmi sulle coccole di queste dolci note perché la furia è dietro l'angolo ed inizio ad inquietarmi quando i synth preannunciano l'esplosione di potenza e cattiveria che arriva poco dopo. Mi sorprende ritrovare oggi quei riff così articolati che riescono a non uscire mai dai canoni del Black che si erano proposti di rispettare ed arricchire, anche aggiungendo tastiere “squillanti” e arpeggi carichi di atmosfera. La velocità aumenta ed il metronomo sale per “Throns of Charon Pt. II Emerge from Hades”, la seconda parte di questa colossale pietra miliare del genere divisa in tre parti. Seconda parte molto più dinamica della prima, assolutamente carica di alta capacità compositiva, dove numerose fasi si alternano e si scambiano per creare qualcosa di sublime per l'appassionato. Un brano ricco, pregno di synth, di blast beats e un grande guitar working che riesce a coinvolgere senza annoiare mai. A raffica la terza ed ultima parte “Throns of Charon Pt.III Pathway to Unlight”, di sicuro più atmosferica delle tre, che non manca di chiudere degnamente questo brano immenso, forse solo leggermente inferiore alle parti precedenti, a livello compositivo. Risulta molto, piatta e statica, forse volutamente in contrapposizione con “...Pt. II Emerge from Hades”, molto più dinamica e attiva. Tuttavia non mancano anche qui spunti interessanti da assaporare, come ad esempio una predominanza atmosferica di un synth acido a metà del brano, che non dispiace minimamente. La vena estremamente femminista della band, emerge con “Empress of the Shadow”, l'imperatrice che domina sul mondo oscuro che le Astarte, hanno sempre acclamato in musica. Un brano che risulta ancora più bello di 20 anni fa (circa), che non è invecchiato di un giorno e che trova nuova linfa, nuova materia nera in questa riedizione, da cui trarre i nutrimenti di cui ha bisogno per brillare di luce nera per altri 1000 anni almeno! Nei suoi 7 minuti e 22 secondi tutta la poesia, la magnificenza e la bravura di questa band, mai troppo apprezzata ed amata. Con “The Rise of Metropolis”, si concludeva l'album del 1998, ma questa versione contiene ben cinque bonus-tracks, che lo rendono ancora più succulento. Tra cui la versione strumentale della splendida “The Rise of Metropolis” e la cover di “Deathcrush” dei Mayhem, ma, soprattutto, il discorso di Maria Kolokouri, meglio nota come Tristessa, che ha fatto durante un'intervista in radio che mette veramente i brividi.
Che dire? Una veramente splendida sorpresa, quella di ritrovare le Imperatrici del Black Metal, ancora vive in un'edizione che non solo va ad omaggiare la bassista, purtroppo venuta a mancare, ma che omaggia tutta la band, il loro lavoro, la loro passione e la fedeltà dei loro fans, di chi le ha sempre amate, sostenute e seguite. Se amate il Black Metal e ancor più se amate le Astarte, non potete lasciarvi sfuggire questo capolavoro!
R.I.P. Tristessa.

Anthony

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Opinione inserita da Anthony Weird    09 Agosto, 2017
Ultimo aggiornamento: 09 Agosto, 2017
Top 50 Opinionisti  -  

Gli Sloveni “Nephrolith” sono una band già attiva da diversi anni, abbastanza conosciuti in patria, e tentano il colpaccio di uscire dall'underground con il secondo Full-length “Paleness of the Bled World”, successore del primo lavoro sulla lunga distanza “Xullux”, che nonostante le critiche abbastanza positive era passato quasi inosservato ai più.
Ci riprovano quindi con queste otto tracce che si aprono con “1004”, classica intro dolce e decadente, suonata al pianoforte con un accompagnamento di chitarra che mette immediatamente angoscia e tristezza e fa entrare nel giusto mood che ci accompagnerà per l'intero album. Infatti al numero due, è la decadenza a farla da padrona, con un misto di Depressive ed Atmosferic Black Metal portato da “Drained Away”. La prima strofa si spezza tra un ritmo lento e controllato e delle spruzzate di corse in doppia cassa, che non raggiungono mai velocità elevate però e restano nel campo dell'atmosferico. Non mancano tuttavia momenti più furiosi, come l'esatto centro della song, dove la furia prende il sopravvento e le vocals si trasformano in un misto di clean e grunt molto interessante ed in linea con il sound proposto, che non lesina su spazi puramente strumentali, un inizio piacevole che ci accompagna verso “Rejoined” ed il suo scampanellio iniziale. L'atmosfera è sempre predominante, ma qui il Black trova il suo connubio con un Doom non opprimente, che sa stare al suo posto e lascia il dovuto spazio alla negatività e all'oppressione tipiche delle nebbie del metallo nero. La voce qui sembra totalmente fuori luogo, eppure, nonostante ciò, è perfettamente integrata per via del senso di disperazione che riesce a trasmettere. Ci rende partecipe del delirio di un'anima perduta, e funziona bene nel contesto, anche se presa singolarmente, l'avrei bocciata su due piedi. Basso dolce e scampanellio sui piatti ci accompagno alla fine ed a “Flamespeech” col suo arpeggio iniziale. Chitarra in secondo piano, per lasciare spazio ad un basso “in your face”, un brano che coinvolge già dalle prime note, con una solida base Black Metal e degli arpeggi dissonati in sottofondo, che non fanno altro che aggiungere tensione a questo proposto. Cariche di batteria che di colpo si addolciscono e sprofondano verso il Doom pesante ed opprimente, per poi unirsi all'ala più melodica ed atmosferica del Black Metal. La voce sempre disperata, propone un clean graffiante, a momenti più chiara ed altri più roca, e continua fino al finale, dove è “Moth” che fa la sua comparsa. Un bellissimo incipit per un brano che è l'esatta continuazione di “Flamespeech”, anche se qui la voce risulta sottotono e appare poco ispirata. Il comparto strumentale invece, si mantiene su un livello costante, una semplicità d'esecuzione per delle composizioni che non fanno gridare al miracolo, ma che funzionano e creano il giusto mix di depressione, disperazione e rabbia. In tutti i brani ho trovato una produzione veramente buona che, nonostante non sia eccelsa, è perfettamente adatta al sound proposto e non credo che una produzione più chiara e cristallina sarebbe stata un bene per questi brani, soprattutto nel momento in cui “Moth”, ci regala un intenso momento clean, intrecciato ad un simil-grunt che riesce veramente a convincere. Fraseggio sul finale ed entrata in scia di “Olistje”. Riverbero arpeggiato e batteria preparano l'ascoltatore ad una scarica di ferraglia grezza e sporca, in quello che è il brano più propriamente Black Metal di tutto l'album, dove sembra di ascoltare Attila Csihar cantare nei Draconian leggermente addolciti! Qualcosa di veramente particolare quindi, che può far storcere il naso, ma anche far innamorare. Il brano scorre bene, anche se la cassa viene praticamente cannibalizzata da un crash troppo predominante e questo è un peccato. Una batteria in primo piano è sempre una scelta ottima in campo Black Metal, ma non se così opprimente e coprente! Mi dimentico immediatamente di questo piccolo intoppo con lo splendido inizio di “Warmth into Fire” e di un poderoso basso che fa tremare il petto e mi rammarico di trovare questo pezzo al penultimo posto della tracklist, perché sarebbe stata una perfetta opening. Una sfuriata velocissima che si alterna a fasi più dolci, con vocals modificate ed accattivanti, in un crescendo di melodia e decadenza, che dona un incredibile spessore a tutto il disco, di sicuro il brano migliore di tutto l'album. Chiude il cerchio “4001”, il rovescio della medaglia in un'outro dove è la chitarra ad essere predominante, accompagnata dal pianoforte, nel discorso inverso fatto inizialmente. Un'ottima idea, che di certo non mancherà di deliziare gli ascoltatori più attenti.
In ultima analisi, si tratta di un ottimo lavoro in studio, scorrevole e pregno di emozione che riesce ad arrivare al cuore dell'ascoltatore, che utilizza i canoni principali del Black Metal, del Doom e del Metal più atmosferico in generale, per plasmare qualcosa di personale ed introspettivo, senza stravolgerli, né sminuendoli e questa è una grandissima cosa a mio avviso. Tuttavia, ciò che manca a questo album, è un po' di intensità emotiva. Le emozioni, come detto, ci sono e sono tangibili, ma non arrivano così prepotentemente da stimolare un sussulto, lasciarti incantato e farti pensare, ma scorrono velocemente, come lavate via dallo stesso fiume di note che le ha portate. Non è presente una vera profondità, non è una disperazione totale e senza via d'uscita, ma i sentimenti tirati in ballo sono soltanto accennati, forse troppo superficialmente per i miei gusti. Tuttavia, ciò non toglie che ci troviamo di fronte ad un bellissimo album, che merita di sicuro un ascolto per poi essere giudicato.

Anthony

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Opinione inserita da Anthony Weird    16 Luglio, 2017
Ultimo aggiornamento: 17 Luglio, 2017
Top 50 Opinionisti  -  

I napoletani Scuorn debuttano con “Parthenope”, l’album che li consacra al primo lavoro sulla lunga distanza, dopo la demo "Fra Ciel’ e Terr’" del 2008.
Napoli è di sicuro una della città più influenti ed affascinanti della nostra penisola ed io direi anche di tutto il mondo e quindi le leggende, la storia dei miti popolari è florida e molto amata, tanto che la canzone napoletana è conosciuta ed apprezzata praticamente ovunque. Sembrava strano, infatti, che nessuno fino ad oggi (a parte qualche rarissima eccezione underground) si sia mai interessato a portare in musica questa tradizione popolare così intensa. Ed è proprio qui che entrano in gioco gli Scuorn, che attraverso l'alta arte scandinava, continuano a mantenere vivo lo spirito di una tradizione che ha sempre fatto della musica il suo punto di forza, ma che mai aveva attraversato le scale del Black Metal!
Immediatamente salta all'attenzione la produzione praticamente perfetta, complice anche il fatto che questo album è stato creato nella stessa sede utilizzata dai Fleshgod Apocalypse, altro orgoglio italico! Moderna e cristallina la produzione dei brani, si passa dai più recenti Dark Funeral, ad un altalenante percorso tra il black norvegese e quello più di stampo svedese, con la sua cattiveria più mirata. Si mettono in risalto qui le dinamiche tipiche del Black Metal in senso generale, mescolandole alle sonorità della propria terra d’origine, intervallandole ad un'epicità che va a mettere sul piatto, uno splendido connubio tra aggressività ed introspezione.
"Parthenope" è un disco da ascoltare tutto d’un fiato, gustandone la carica Metal e il mare creato dalle orchestrazioni, ma soprattutto non può passare inosservato l'utilizzo di strumenti tradizionali della musica napoletana, strumenti usati principalmente in ambito folkloristico, ma che trovano la loro giusta dimensione accanto alla distorsione ed al blast beat e ad assoli strazianti come la corsa solista della lead guitar in “Virgilio Mago”, dove la pulizia del suono, battute, tempi ed armonie sono incastrate come il lavoro maniacale di un artigiano che lavora il legno, senza chiodi, solo incastri e sapienza. Comunque, in generale, l’intero album è di piacevole ascolto e non annoia mai, l'aggressività, la carica interiore data dalla cattiveria ed il pathos rispettano pienamente i tempi da loro dedicati ed è piacevole trovare lyrics in dialetto!
Insomma, “Parthenope” è qualcosa di inaspettato, una ventata d'aria fresca soprattutto per quanto riguarda la tradizione campana che, da oggi, può vantare una punta di diamante in più, da aggiungere alle frecce del proprio arco. Consigliatissimo!

Anthony
(un grazie particolare a Marco “Artic” Spera, per aver realizzato con me questa recensione.)

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4.5
Opinione inserita da Anthony Weird    16 Luglio, 2017
Ultimo aggiornamento: 16 Luglio, 2017
Top 50 Opinionisti  -  

Torna Mortiis e si sa, ogni qualvolta l' ex Emperor sforna qualcosa di nuovo, si sentono le solite polemiche “Si ma quando c'erano loro...” (eheheh). Ora, volenti o nolenti, loro non ci sono più, la musica è cambiata già da un bel po' e devo dire che è cambiata profondamente. Con ben due album Full-length rilasciati nella prima metà del 2017, l'instancabile troll norvegese continua la sua esplorazione dei meandri del synth-pop, della darkwawe e dell'Industrial rock più oscuri, arricchendo il tutto con una vena dark ambient che fa davvero gelare il sangue, credetemi, sono solo al terzo brano di questo “The Unraveling Mind” e già mi sento sprofondare in un universo malsano e pericoloso, la mia mente corre per corridoi angusti di decadenti palazzoni post-atomici, con la consapevolezza che dietro ogni angolo potrebbe nascondersi qualcosa di mortale... pare di rivivere in parte le angoscianti sensazioni messe in musica da Nattramn sotto il nome di “Diagnose: Lebensgefahr” e del suo “Trasformalin”, magari con un pizzico di malattia in meno (eh si, lì si raggiungono livelli veramente assurdi...), ma con quella lucida cattiveria in più che forse lo rende ancora più terribile. Di sicuro la facilità d'ascolto è molto più accentuata, “The Unraveling Mind” scorre via che è un piacere, creando immagini oniriche di paesaggi ora naturali e benevolenti, ora terribili e carnivori. L'inquietudine che Mortiis riesce a trasmettere è ipnotica, ci porta a riflettere sulla nostra esistenza, senza toglierci la capacità di sognare ad occhi aperti, la calma, l'abbraccio freddo, eppur materno di questa musica apre la mente e riscalda il cuore, facendoci nello stesso tempo, bruciare gli occhi...
Non solo metal dunque, ci troviamo di fronte ad un lavoro che è lontano anni luce dalla scena metal e soprattutto dalla scena black di cui Mortiis stesso ne è stato una pietra miliare, un motivo in più per ascoltare questo album ed il successivo “The Great Corrupter” e lasciarsi avvolgere, da qualcosa di caldo ed intenso, lasciando le gelide tenebre scandinave da parte, per questa volta....

Anthony

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