Opinione scritta da Chiara
65 risultati - visualizzati 51 - 60 | 1 2 3 4 5 6 7 |
Top 50 Opinionisti -
Il fantasma della guerra aleggia con tutti i suoi orrori per l’intera durata dell’omonimo album di esordio dei fiorentini Nightshock, band in pista dal 2013 fondata dai fratelli Lorenzo e Giulia Bellia e da Simone Perchiazzi. Il concetto della morte in battaglia è ribadito con grande efficacia visiva dall’artwork della copertina, inquietante e sinistro a sufficienza per introdurci nell’immaginario del trio, fatto di musica ruvida e grezza come solo l’heavy old school sa essere.
Subito dopo l’oscura intro “Into The Night (Off To War)” entriamo nel vivo dell’album (o scendiamo in campo di battaglia, se vogliamo rimanere fedeli alla direzione che ci indicano i tre toscani) con la canzone manifesto “Nightshock”, la cui energia e frenesia ci suggeriscono insistentemente che le influenze della formazione sono da cercarsi nei primi Metallica di “Kill ‘Em All” (vedi “Faith And Dishonor”) ma soprattutto nei Motörhead: “Nothing Will Remain” ricorda pericolosamente “Ace Of Spades” di Lemmy e compagni così come “Funeral Chain” è di evidente matrice motörheadiana. “Black Demise” è l’episodio più orecchiabile del lavoro e dipinge perfettamente con le sue tinte fosche e i riff graffianti la morte nera presente sulla copertina. Particolarmente gradevole anche l’outro “Out Of The Shock (Back To The Front)” che mette una pietra tombale sull’incubo di guerra e distruzione iniziato con la sua intro speculare.
“Nightshock” è un buon lavoro, anche se risente delle piccole pecche tipiche delle opere prime (per esempio una eccessiva timidezza nella parte ritmica), ma in misura trascurabile. Sono sicura che in futuro i nostri saranno ben lieti di lasciarsi andare quanto basta senza per questo corrompere il loro spirito raw heavy.
Top 50 Opinionisti -
Nessuno sa chi siano esattamente i Nine Stitches. Stanno iniziando a venire allo scoperto solo ultimamente, presentandosi senza maschere e cappucci ai loro live e addirittura postando qualche foto “in borghese” sul profilo Facebook. Ma non ci sono noti i nomi dei membri della band. Solo il loro motto ci è ben chiaro: “Noi non siamo nessuno. Noi non esistiamo. Esiste solo quello che facciamo”. Quando si dice tenere alla propria privacy…
Certo, l’idea delle identità segrete e delle maschere (reali o metaforiche) non è nuova di zecca, ma è sempre d’effetto. E poi è sulla musica dura e pura che i musicisti padovani vogliono puntare i riflettori. L’omonimo EP della formazione veneta inizia con “In Loving Memory Of GG Allin”, un omaggio che poi tanto amorevole non è (se consideriamo i “you hate me and I hate you” reiterati nei tre minuti abbondanti del pezzo, che include anche un pittoresco lancio di escrementi), ma è in pieno stile GG Allin, con le sue tirate hardcore. Se “No Pain No Gain” ha un ritornello orecchiabile, “Raw Sound” è un brano catchy in tutta la sua interezza, ed è una dimostrazione delle influenze musicali dei nostri misteriosi eroi, che si dibattono tra Sepultura e Suicidal Tendencies.
Le basi per i Nine Stitches ci sono tutte, e il loro atteggiamento è quello giusto per poter entrare in scivolata nell’underground nostrano, anche se i tre brani presenti nell’EP sono solo un antipasto del loro armamentario. I tempi sono maturi, e noi non possiamo far altro che aspettare il primo full-length della band.
Top 50 Opinionisti -
Che cos’è il crossover-djent metal? Di solito odio etichettare le band come un prodotto sugli scaffali del supermercato, ma se ascoltate “Everything Happens For A Reason”, esordio risalente al 2013 dei Fake The Face, lo scoprirete. La band, attiva dal 2009, ha lavorato per quattro intensi anni affrontando diverse difficoltà e incidenti di percorso (vedi alla voce cambi di line-up) prima di approdare al debutto discografico e soprattutto alla conquista di una propria identità sonora, fatta di melodia, ritmi complessi ma allo stesso tempo intimi e profondi, e tonnellate di passione.
“Everything Happens For A Reason” è infatti un album che per la sua immediatezza e la sua componente sentimentale (ma mai patetica e “poppeggiante”) riesce ad entrare nel cuore di molti, compresi i fan di sonorità più estreme. Ulteriore nota di merito che contribuisce a dare all’album un’impronta di qualità e innovazione è il mastering, eseguito negli storici Fascination Street Studios che per chi non lo sapesse, sono una vera e propria istituzione, vantando collaborazioni con band del calibro di At The Gates, Dragon Force, Amon Amarth, solo per citarne alcuni.
Ma torniamo ai nostri Fake The Face e al loro ottimo lavoro, costruito su ritornelli catchy e riff eterei (“Dreaming Through”) e un songwriting che evoca atmosfere oniriche e malinconiche, riprese anche dall’artwork della copertina e del booklet. Lo stile moderno e accattivante risiede anche nel massiccio utilizzo dell’elettronica e dei synth, come testimoniato dal trip visionario di “Synthetic Breath”. “The Last Day” invece è il pezzo più energico di “Everything Happens For A Reason”, complice anche il featuring alla chitarra dell’eccellente Ralph Salati dei Destrage e una buona dose di growl e ritmo, che male di certo non fanno e non vanno ad inficiare il mood dell’album.
Chiamatelo crossover-djent metal, modern metal o come preferite: sta di fatto che la buona musica non ha bisogno di etichette, e i Fake The Face ne sono la dimostrazione, grazie alla loro proposta fresca e attuale ma che di certo non scende a compromessi con le logiche di mercato.
Top 50 Opinionisti -
Sono sempre stata una grande fan del metal ispanico. Come nel caso di molte band italiane, anche i nostri cugini iberici sembra che vogliano in qualche modo compensare il fatto di vivere in un Paese caldo e solare pestando e urlando ancora più forte dei “colleghi” nordici. I Quassar rispettano questa tradizione, senza alcun tipo di remora. I cinque di Ciudad Real, al loro primo full-length dopo l’EP “Evolution To Annihilation” del 2013, ci colpiscono oggi con un’aggressione sonora con tutti crismi, intitolata “AlieNation”.
La musica dei Quassar effettivamente sembra provenire da un altro pianeta, nel quale gli alieni utilizzano la musica come arma di distruzione di massa: “AlieNation” colpisce alla bocca dello stomaco e fa sanguinare i timpani proprio come la più potente delle onde d’urto. E non solo, possiamo anche parlare di concept album, tra invasioni rettiliane, teorie del complotto e cospirazioni, narrate in salsa thrash contaminata da forti ibridazioni death, in cui il groove e la velocità si alternano con armonia.
Si inizia con il botto con l’esplosiva “Reptiliación”, che presenta un’altra feature dei Quassar: la voce, che si fa acuta, profonda, estrema praticamente nello stesso momento, quasi a voler sottolineare il caos e l’orrore che traspare dai testi con questo alternarsi spasmodico.“Elite” sguinzaglia invece sonorità più thrash e schizofreniche, che trovano la loro controparte in “PRAAH”, con il suo incedere oscuro e penetrante, e la parte ritmica molto marcata rispetto alle altre tracce. Gli assoli non sono una componente fondamentale di “AlieNation”, volendo dare maggiore spazio all’energia e all’immediatezza della musica, ma in “Dragon Force” troviamo un paio di voli pindarici dei due virtuosi della chitarra J.F. Tercero e J.J. Aranda che si rincorrono, si trovano, si perdono e si ritrovano per qualche piacevole minuto.
I Quassar sono pronti ad invadere l’Europa esportando la loro potenza primordiale, di certo li aspettiamo in Italia per la prova del live che, sono sicura, li farà promuovere a pieni voti amplificando in modo esponenziale il loro vigore.
Top 50 Opinionisti -
Poche ma buone. Sembrerebbe proprio questo il modus operandi dei Mindead in quanto a uscite discografiche. La band tedesca infatti è attiva dal lontano 2001, ma in quattordici anni di attività ha rilasciato appena due album: il primo, “Abandon All Hope”, nell’estate del 2008, e l’ultimo “Controlling The Tides”, uscito lo scorso febbraio, di cui parleremo oggi. La qualità innanzitutto. E tra un full-lenght e l’altro i quattro di Stoccarda non si sono di certo seduti sugli allori, ma hanno continuato ad affinare la loro tecnica accompagnando in tour internazionali band del calibro di Ill Niño e Devildriver.
“Controlling The Tides” è un album semplice e diretto, che vi entrerà nel sangue fin dal primo ascolto, rilasciando endorfine che vi faranno bene al cuore. Sì, perché i Mindead sono dei veri campioni nell’alternare con una logica quasi matematica pezzi energici (per esempio la title track) e altri più malinconici (“Unearthed”), esplorando l’intera gamma delle emozioni umane in tutta la loro complessità. La voce di Timo Fielker sa essere davvero versatile in ogni situazione, trasformandosi da profonda a graffiante ed energica nel giro di pochi secondi, mentre i suoi compagni Pablo Mateo Ramirez, Benedikt Wagner e Benjamin Hölle portano avanti con onore la tradizione nu metal declinandola con gli stilemi del modern metal più attuale. L’elettronica è sì presente (vedi l’intro “Orbital”), ma è tutt’altro che fastidiosa e prepotente. “Standing In Line” invece è di una dolcezza spiazzante, che solo sul finire diventa più corrosiva e incalzante. In chiusura, i nostri ci propongono una cover tanto inaspettata quanto piacevole di “Hurt” dei Nine Inch Nails, scelta rischiosa quando si tratta di confrontarsi con un capolavoro (considerando il fatto che in passato mostri sacri come Johnny Cash si sono già cimentati nell’impresa), ma il risultato è più che soddisfacente, e la chiave di lettura degli autori originali è lasciata invariata, seppure lo stile sia ovviamente molto diverso.
I Mindead ci hanno offerto una prova di pregio, speriamo solo che non passino altri sette anni prima del prossimo album!
Top 50 Opinionisti -
Se siete stati adolescenti nei primi anni 2000, e vi mancano da morire il liceo, la goliardia, i primi amori, e le sonorità tanto in voga in quel periodo, “Hello Yes!” dei tedeschi Down To Date sarà pane per i vostri denti. Altrimenti evitatelo come la peste. Basta guardare la copertina per farsi un’idea di cosa ci aspetta all’interno dei dodici pezzi che compongono l’album di debutto (realizzato in crowdfunding) della formazione tedesca, che da circa un anno a questa parte sta vivendo il suo momento di gloria.
Quindi, tra elefantini rosa di peluche, bottiglie di birra e di vodka, feste scatenate, e via discorrendo, farete il vostro ingresso nel mondo dei Down To Date, che strizza l’occhio non solo ai nostalgici del passato, ma anche alle nuove generazioni (vedi “Feat. Nicki Minaj”) con un hardcore leggero e piacevole come uno zuccherino, che però una volta sciolto, lascia solo il ricordo di sé e poco altro. Ma in fin dei conti, il risultato è valido, e considerando che “Hello Yes!” è un’autoproduzione, la qualità, a prescindere dal genere musicale, è più che buona.
Venendo al dettaglio delle composizioni, “No Entry” è il primo singolo che ha fatto conoscere la band nel panorama hardcore e che con i suoi “whoa” e un timido accenno di growl ha permesso ai cinque berlinesi di accaparrarsi un posto d’onore nei cuori di molti fan, tedeschi e non. Anche “HIIT” non scherza quanto ad orecchiabilità e melodia, tanto che la vedrei bene in rotazione su Virgin Radio. Ma “Hello Yes!” è anche malinconia velata da un nonsoché punk come testimoniano “Ginger Ale” e “Fucked Up Lodda”. In “The Knüppler” invece, l’ago della bilancia pende verso sonorità più estreme, grazie all’intervento di Paul Bartzsch dei conterranei We Butter The Bread With Butter. È indubbio che “Hello Yes!” sia un buon esordio, così come è altrettanto vero che i Down To Date siano assolutamente da tenere d’occhio: il loro futuro è ancora tutto da scrivere.
Ultimo aggiornamento: 12 Aprile, 2015
Top 50 Opinionisti -
Ancora prima di ascoltare “Harvester Of Shadows”, il nuovo album di Godless Angel, mi è tornata alla mente come un flash una scena di “Metalhead”, un film di Ragnar Bragason (che consiglio a tutti i blackster, e non solo), in cui, dopo aver ricevuto il demo della protagonista, si presentano nel paesino sperduto in Islanda in cui vive la ragazza nientepopodimeno che Euronymous e Dead, i quali, colpiti dalla potenza della sua musica le dicono, un po’ ingenuamente, qualcosa del genere: “Ci piaci. Vorremmo conoscere il resto della tua band”. E lei: “La mia band sono io”. Bene, forse sto un po’ divagando, ma anche nel nostro caso (nonostante il genere musicale sia leggermente diverso) Derek Neibarger aka Godless Angel è la band.
Insomma, il nostro eroe se la canta e se la suona da solo. L’unico aiuto gli è stato gentilmente offerto dalla moglie, Chrissy, con la quale scrive a quattro mani i testi delle sue canzoni, fortemente influenzati dalla fantascienza e dagli horror dalla serie B in giù, in un tripudio di aberrazioni, esperimenti di laboratorio, mostri e chi più ne ha più ne metta. Che coppia adorabile! E il risultato sono i nove pezzi tra death e thrash metal che compongono “Harvester Of Shadows”, che segue “Year One”, del 2013, e l’EP “Dying Dead Undead Unholy”, uscito nel 2014.
Derek Neibarger è una vera e propria macchina da guerra. Basti ascoltare pezzi come “Containment Breach In Sector 6” per rendersi conto della belva con la quale dobbiamo fare i conti, tra riff selvaggi e una voce tagliante che ci vomita addosso rancore e risentimento nei confronti del mondo intero. Il ritmo rimane incalzante fino alla fine dell’album, senza cali di tensione. Gli unici difetti a mio avviso sono da individuarsi nella parte ritmica, soprattutto nella batteria, forse un po’ “sintetica” e poco appassionata. Ma ripeto, è un peccato veniale, considerando il fatto che Godless Angel fa tutto da sé.
“Harvester Of Shadows” non è un disco per tutti. Consigliato esclusivamente agli irriducibili del gore con le orecchie ben allenate, o ai thrashers desiderosi di accostarsi a sonorità più ardite e innovative.
Top 50 Opinionisti -
A volte capita di incappare in album belli fin dalla copertina. È sempre più raro, ma succede. E il godimento è amplificato a mille. “Death Is Not Dead” appartiene alla categoria dei piccoli tesori inaspettati. Dopo una miriade di cambi di line-up, scioglimenti, reunion, liti e tutto quello che ne consegue, gli svedesi The Crown sono tornati più forti e arrabbiati di prima. Il detto “ciò che non uccide fortifica” non è mai stato più vero.
La copertina cui vi accennavo poco fa, presenta un artwork davvero originale che raffigura un flipper versione steampunk: la cornice perfetta per “Death is Not Dead”, tra metallo, sangue, morte, fuoco e fiamme. Basterebbe già questo per andare in fibrillazione, e l’hype è accresciuto da “Reign”, intro dall’incedere cupo e maestoso. Dopo un minuto e cinquantaquattro secondi si parte in quarta con “Headhunter”, la prova della riconquistata alchimia della band, in grande spolvero sotto la guida del ritrovato vocalist Johan Lindstran il cui ruggito “de profundis” sarebbe in grado di mandare in ebollizione anche il sangue di un morto. E con “Iblis Bane” lo stesso Lindstran “growla”“Give me my crown! Give me my sword!” quasi a voler rivendicare quel posto nella band che per alcuni anni non è stato più suo, mentre i compagni di avventure pestano le pelli come se non ci fosse un domani e si lanciano in riff che sembrano voler coverizzare i “Carmina Burana” in versione death. Si continua con “Eternal”, un pezzo epico dal ritmo atipico e trascinante, con un refrain killer. I riff di chitarra non sono una costante in “Death Is Not Dead”, ma vengono utilizzati con parsimonia giusto per creare quell’effetto disturbante che sta alle fondamenta di questo album, e che rimane nelle ossa a lungo. L’esempio più lampante di questo utilizzo delle chitarre sta in “Ride To Ruin”, letteralmente una cavalcata verso la rovina accompagnata da un doppio pedale scatenato all’ennesima potenza. Si prende fiato per qualche minuto con la bella e folkeggiante “Meduseld”, brano strumentale che farà stringere il cuore a tutti i fan de “Il Signore Degli Anelli”. Spetta a “Godeater” invece il compito di chiudere in bellezza “Death Is Not Dead”, con un finale al fulmicotone in cui il dio della canzone non viene solo mangiato, ma direttamente digerito.
Il death metal non è morto, è vivo e gode di ottima salute. Così come i The Crown, che ci hanno regalato una prova degna degli esordi.
Top 50 Opinionisti -
Il melodic death metal è un genere difficile. I profani ne sono intimoriti perché sviati dalla concezione del “death” come qualcosa di poco fruibile, i puristi invece lo guardano con sospetto perché troppo “molle”. Forse è per questo che i Burden Of Grief, formazione tedesca attiva dal 1994 e al sesto album di studio, non sono mai riusciti a sfondare, nonostante l’indubbia originalità e le capacità tecniche più che invidiabili.
Al di là di queste considerazioni personali, i cinque metalhead teutonici hanno spesso dichiarato di non ispirarsi tanto alle band nordiche di impronta melodica e sinfonica, ma ai gruppi statunitensi e inglesi più vicini al thrash, all’heavy (vedi la cover di “Neon Knights” dei Black Sabbath) e al groove. In effetti, è tutto più che evidente in “Unchained”. Ma ciò non toglie che sia altrettanto vero quanto detto qualche riga più in su. Basti pensare al moniker dei Burden Of Grief, assolutamente death nello stile, o al titolo dell’album, la cui doppia grafia in stampatello e in corsivo sovrapposti lascia intuire la duplice natura melodica e aggressiva dei pezzi che lo compongono.
“Unchained” è velato da una malinconia generale ed è sapientemente costruito su riff abbondanti ma mai ridondanti. Il pezzo di apertura, “Awaken The Nightmare”, ci conduce nelle profondità di questo mood uggioso con un’intro alla “Fade To Black” (i Metallica sono tra le influenze principali dei Burden Of Grief, basti pensare a quell’“alright” di hetfieldiana memoria in “The Final Chapter”) che si trasforma in una cavalcata melodica ma graffiante al limite del metalcore. Le venature thrash e groove sono più marcate tanto in “Turmoil To The Void” quanto in “Fearless Heart”, che fa molto Pantera in fissa con il cowbell.
La title track racchiude in sé il desiderio dei Burden Of Grief di spiccare il volo e di elevarsi all’interno della scena metal internazionale come non mai in passato: speriamo solo che succeda, perché se lo meriterebbero come (o più di) altre band.
Ultimo aggiornamento: 03 Aprile, 2015
Top 50 Opinionisti -
Quando si pensa di aver perso ogni speranza, spunta fuori dal nulla un terzetto che ti fa ricredere. E che fa sobbalzare sulla sedia anche i thrashers più consumati. “No Lessons Need Learning” è il primo full length degli svizzeri Mortal Factor, una band che vanta anni di esperienza live nei club europei, oltre che uno split album con i brasiliani Hicsos. Sembrerà pazzesco, ma le influenze musicali dei tre di Lucerna risiedono proprio nel Paese della samba e del Carnevale più colorato del mondo. Follia? No, se si considera che il Brasile è anche la “casa” di Sepultura e Cavalera Conspiracy, le massime fonti di ispirazione per i Mortal Factor.
Il motto della formazione elvetica è: “Musica semplice per gente semplice fatta da gente semplice”. In altre parole, musica che arriva diretta all’ascoltatore senza fronzoli né sterili virtuosismi. “No Lessons Need Learning” è proprio così. Nonostante i primi due pezzi (“Body In My Bed” e “Moving Among You”), siano piacevoli, ma non del tutto incisivi, l’album inizia a decollare con “Mortal Factor”, il manifesto della band, nel quale si riassumono alla perfezione i punti di forza dei nostri eroi: la voce da cavernicolo alla Max Cavalera di Dave (che somiglia anche fisicamente all'ex-leader dei Sepultura), l’assenza di riff “svolazzanti” e il focus sulla parte ritmica, pulita e precisa. Non fatevi ingannare da "Do Not Be Afraid”: l’intro malinconica farebbe presagire una ballad, ma è solo il pretesto per prendere fiato in vista di una thrashata che metterà a dura prova il collo di qualunque headbanger. Si prosegue sull’onda dell’entusiasmo con “Knives vs Guns”, il pezzo più interessante dell’album, con il suo basso groove quasi danzereccio, oserei dire. “Whiskey Stream” invece rasenta l’hard rock e presenta un refrain super catchy.
Per rimanere in tema, “No Lessons Need Learning” è come un bicchiere di whiskey: forte e corroborante, rinfrancante e piacevole al palato. Consigliato non solo agli amanti del thrash, ma a chiunque abbia voglia di scoprire nuova musica di qualità.
65 risultati - visualizzati 51 - 60 | 1 2 3 4 5 6 7 |
releases
Autoproduzioni
Consigli Per Gli Acquisti
- TOOL
- Dalle Recensioni
- Cuffie
- Libri
- Amazon Music Unlimited