Opinione scritta da Dario Onofrio
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E fu così che, dopo 4 anni di silenzio, i Candlemass tornarono sul mercato discografico.
Quando si va a stuzzicare un gruppo così importante e fondamentale per la storia dell'heavy metal si ha sempre un po' di timore reverenziale, con conseguenze che in primis possono essere quelle di sopravvalutare un disco (o in questo caso un singolo) o di sottovalutarlo. La storia la sappiamo tutti: divorziati da Messiah Marcolin la band svedese ha trovato subito slancio con il nuovo acquisto Mats Levén, che con la sua vocalità completamente opposta all'epicità del precedente singer ha risollevato le sorti di una band che poteva essere alla più completa disfatta.
Sarà per quello che i pezzi dei Candlemass funzionano ancora, nonostante la perdita della componente prettamente "epica" e wagneriana della band. Death thy lover ne è un perfetto esempio: un pezzo che per quanto possa sembrare velato di tinte quasi "commerciali", funziona davvero bene e ci porta tranquillamente a scapocciare. La formula è sempre quella dei riffoni mastodontici, tipici del doom metal, inframezzati dalla voce secca e tagliente di Levén: di questi nuovi quattro pezzi quella che ho apprezzato di più è sicuramente Sleeping Giant, mentre Sinister'n Sweet e The Goose danno quel giusto contorno che fa capire come la band di Stoccolma fa sempre le cose sul serio, con i loro stacchi strumentali dai tempi dilatati e ossessivi.
Insomma, come al solito i Candlemass non sbagliano un colpo e nemmeno una nota e fanno vedere a tutti come si fa a suonare doom nel 2016 senza sputtanarsi. Non c'è bisogno né di cori e nemmeno di tastiere: basta essere ispirati e trovare il giusto feeling all'interno della propria band. Ora staremo a vedere cosa ci riserverà questo fantomatico nuovo album di (credo) prossima uscita.
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Come potremmo definire la saga di House of the Atreus se non come l'ultimo anelito compositivo di un già stanco David DeFeis? Un'opera ambiziosa? Un'operazione commerciale senza capo né coda? Oppure il tentativo (riuscito, a mio parere), di raccontare uno dei miti più famosi della Grecia antica?
Mettiamola così: è passato appena un anno da quando avete sfornato il vostro capolavoro assoluto (Invictus), ma avete ancora molto materiale da parte e la voglia di incidere è tanta. Cosa fate? È qui che la coppia DeFeis/Pursino ha la grande idea di non scrivere il solito album di un'oretta con le solite canzoni da 4/6 minuti, ma comporre una sorta di "musical epic metal" che ripercorra tutta la vicenda della Saga degli Atridi, da Atreo e Tieste, a Menelao ad Agamennone, fino alla conclusione con le storie di Oreste ed Elettra.
Un lavoro, come dicevo prima, assolutamente ambizioso: intanto, il primo House of Atreus presenta ben più di 10 tracce, di cui molte sono solo intermezzi narrativi o musicali e poche vere canzoni come si intendono solitamente. Già la coppia fondante della band, dunque, dichiarava che il disco sarebbe stato solo un inizio, che si sarebbe andato poi a concludere con la parte II.
Accolto in maniera abbastanza sorpresa dalla critica e dai fan, comunque, il disco ebbe il suo meritato successo. La trovata funzionò, tant'è che subito l'anno dopo uscì la seconda parte, anch'essa divisa in due dischi diversi, per più di venti tracce. Questa cosa non scoraggiò i fan che corsero a comprare l'album, e nemmeno li deluse: anche la seconda parte della saga è un pregevole esempio di "musical epic metal".
Arriviamo ad oggi: la SPV/Steamhammer decide di ristampare i due dischi aggiungendo un album bonus in un lussuoso digipack per fan, di fatto concludendo la serie di ristampe cominciata qualche annetto fa con Noble Savage. Si trova anche una versione in vinile che vedrò di recuperare il prima possibile.
Al di là di tutte le critiche che si sarebbero potute muovere per un'operazione così complessa, portata avanti tra l'altro con pochissime risorse (il cruccio eterno dei Virgin Steele), i due House of Atreus restano un capitolo fondamentale nella storia della band, forse l'ultimo veramente in grado di strappare qualche lacrimuccia. Fare un track by track dell'intera opera mi sembra un tantino pretenzioso e anche abbastanza inutile, quindi il consiglio è di andare direttamente ad ascoltarveli.
Sarà anche perché fanno parte di una precisa volontà di disegno artistico che non molto spesso i brani dei due dischi vengono proposte in sede live. Qualche anno fa, DeFeis riuscì persino nel suo sogno di realizzare un vero e proprio musical in teatro con i due dischi suonati nella loro interezza.
Il più grosso merito dei newyorkesi rimane proprio questo: con la Saga degli Atridi sono riusciti a creare due album lunghissimi e densissimi che però riescono a acchiappare l'ascoltatore e immergerlo completamente in una delle più affascinanti storie di cui si abbia memoria. La chiusura con la trionfale Resurrection Day (The Finale), che riprende e chiude del tutto anche il tema di The Marriage of Heaven and Hell, a un passo dal disastro del World Trade Center, è un po' la realizzazione finale di un sogno per cui DeFeis e Pursino hanno da sempre lottato, pur nel loro essere anacronistici e troppo ambiziosi per i mezzi a loro disposizione.
I motivi per comprare questa ristampa, come avrete potuto leggere, sono innumerevoli. Se non altro vi portate a casa due ottimi dischi e anche l'ep Magick Fire-Music, uscito a cavallo tra i due. Il motivo per cui, personalmente, la recupererò io, è proprio la possibilità di avere una delle più belle saghe di sempre a disposizione non solo cartacea, ma anche musicale.
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Ci sono dischi che hanno profondamente segnato la storia dell'heavy metal dai suoi primordi fino ad oggi; album dai quali si sono evoluti interi sottogeneri della nostra amata musica.
Non sento di sbagliare se dico che Nemesis Divina è uno di questi: un disco unico, capace ancora oggi, a 20 anni dalla sua data di uscita, a incantare l'ascoltatore e trasportarlo nell'alba di una nuova era. Proprio Dawn of a New Age, che apriva il capolavoro di Satyr & co., è la canzone che ha definitivamente sdoganato il black metal dalla sua nicchia nordica per farlo conoscere al grande pubblico, per non parlare del capolavoro assoluto Mother North e dell'abc della tastiera nel black metal con Du Som Hater Gud. Nemesis divina si risolve insomma così: in tre quarti d'ora di furia nordica, scritta da un pugno di ragazzini nemmeno 25enni, che insieme a gente come Emperor e Dissection hanno influenzato moltissime delle correnti musicali a venire (dal viking metal all'avantgarde).
La Napalm Records, per l'occasione, ha deciso di regalare ai fan un suntuoso digipack e l'album rimasterizzato dallo stesso Satyr: un acquisto che vi consiglio caldamente se volete iniziare ad avvicinarvi al black più duro, magari arrivando da generi più "leggeri", ma anche per aggiungere alla propria collezione un album che è stato veramente fondamentale per l'evoluzione del metal negli anni. Vi ricordo, infine, che per celebrare il compleanno di questo disco i Satyricon lo riproporranno integralmente nei loro prossimi live: non lasciateveli scappare!
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"Ma chi diavolo sono questi quattro pazzi che fanno andare a braccetto i Red Hot Chili Peppers e i Volbeat?"
Questa è più o meno la domanda che mi sono fatto quando ho finito di ascoltare per la prima volta Yattafunk Sucks, l'album di esordio di questa band emergente romana. Un pochino di background: nato come un progetto parallelo di Gabriele e Ivano Mangano, fratelli di musica e di band, la cosa ha finito per diventare davvero seria ed è così che nel 2016 arriviamo all'esordio in studio.
Cosa contiene di così tanto divertente questo disco, per avermi fatto scrivere una cosa del genere?
Sicuramente un sacco di groove, un sacco di simpatia e voglia di saltare. Gli Yattafunk sono uno di quei gruppi dove probabilmente dal vivo o ci poghi o ci balli, in una atmosfera da "volemose bene" che non potrà che contagiarvi. Sleppate di basso, ritmi poco rock e molto pop si alternano per tutto il cd sin dalla opener che ha lo stesso titolo del nome della band. C'è anche qualche momento "muy metal" come alla fine di Halloweed be thy funk, con dei fuoriosi breakdown che sono tutti per gli headbangers più affezionati. Anche i titoli trapelano stupidità a pacchi: come si fa a prendere sul serio una canzone che si intitola Squirtnado?
Unica pecca che trovo su questo disco è la produzione, che mi fa abbassare di mezzo voto il punteggio. Capisco voler avere un suono nudo e crudo, ma reputo che un cd ben fatto sia anche più meritevole e coinvolgente, senza necessariamente aver bisogno di ricorrere a artifici di vario genere per sistemare suoni e intonazioni come molti gruppi spesso fanno in studio.
Comunque, a tratti discotecari anni 70', a tratti rockettari indefessi, gli Yattafunk non potranno davvero starvi antipatici: sono sicuro che ascoltando i loro pezzi su Spotify non resistere a cantare il ritornello di Leggings & Knives o a battere il tempo su Hell Yeah. In fondo sono esattamente quel tipo di gruppo supercazzaro che ti vorresti trovare a una sagra di paese mentre ti sfondi di cibo e birra Moretti.
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È imbarazzante quando ti trovi a dover recensire un disco brutto.
Quella degli Hatesphere è la classica parabola di moltissimi gruppi partiti col botto (in questo caso con l'omonimo esordio, Bloodred Hatred e Ballet of the Brute) e caduti nel dimenticatoio grazie a una serie di cambiamenti assurdi in line up, che hanno sicuramente influito sul songwriting.
New Hell, insomma, è la classica minestrina riscaldata: 50 blandi minuti di crossover sparato a mille sugli ascoltatori. Ma, anziché piallare il pubblico come dovrebbe essere di norma in un genere così, quello che si ottiene da questo ascolto è solo noia e profondissima noia: al di là dell'imitazione degli Slayer praticamente riproposta in ogni pezzo, non c'è mai quel mordente che ti faccia salire la violenza da pogo assassino. Pezzi come la opener The Executioner o Your sad existence tendono a somigliarsi drammaticamente, non facendo altro che sgonfiare la voglia di andare avanti. L'unico momento veramente alto del disco è l'acustica On the shores of Hell, dove tra assoli e una ritmica cadenzata si ritrova un'epicità che ormai da troppi album manca.
Insomma, a meno che non siate dei fan duri e puri, c'è gente che suona questo stesso genere in modo molto più creativo e interessante. Spiace per questa band, ma purtroppo i momenti magici passano per tutti.
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C'è voluto parecchio prima che riuscissi a buttare giù qualche riga sensata e decente che possa aver reso lustro a uno dei più importanti (non mi vergogno a dirlo) gruppi metal italiani: i Novembre.
Ero un ragazzino quando uscì The Blue: nel pieno dei miei 18 anni non compresi bene il messaggio di quel lavoro ma ricordo di essere rimasto stregato dalle atmosfere che la band catanese sapeva mettere nei suoi lavori; proprio questo rende anche oggi la creatura di Carmelo Orlando e Massimiliano Pagliuso qualcosa di unico.
La notizia della reunion e dell'uscita di Ursa è stata per molti un fulmine a ciel sereno, qualcosa che ha risvegliato la passione sopita per una band veramente di culto. Ma è con la curiosità del neofita che mi sono avvicinato a questo monumentale disco, chiedendomi che cosa avrei potuto trovarci dentro. Beh, dentro ci ho anche trovato un po' di me stesso, un torrente sonoro che dolcemente ti sommerge e ti fa sprofondare negli abissi, per poi riportarti a galla con la fantastica Fin.
I Novembre ancora una volta sanno mescolare un mix di shoegaze, black metal e melodia, creando di fatto un sound unico che non esiste in nessun'altra band del mondo. Un livello a cui gli Alcest di Neige non sono e credo riusciranno mai ad arrivare, ma nemmeno nessun'altra band dello stesso genere. Si, so di starci girando intorno: com'è in effetti questo Ursa? Descriverlo a parole è veramente difficilissimo, un'impresa titanica.
Parliamo pure degli ermetismi e dei riff ossessivi, dei toni cupi di Australis e di The Rose, per poi passare nella poesia di Umana e Oceans of Afternoon, della tragedia di Easter o dell'infinito contenuto in Annoluce e Ursa, o dei ritmi quasi mediterranei della strumentale Agathae. Lo so che non si possono riassumere delle tracce in questo modo, ma penso non ci siano altre possibilità: il lavoro della band è minuzioso, quasi maniacale, nel rendere soffocanti e struggenti le proprie canzoni, effetto dovuto anche all'ottima alternanza di clean vocals e growl da parte di Carmelo Orlando.
Per concludere posso dire che Ursa è senza ombra di dubbio uno dei migliori dischi dell'anno, nonché una spolverata di lustro a una scena italiana che stenta ancora ad avere un risalto transnazionale.
Bentornati.
Ultimo aggiornamento: 29 Aprile, 2016
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Cosa succede quando un gigante della scena metal estrema e uno della scena folk atmosferica si incontrano?
Nei vari anni sono state numerose le collaborazioni tra musicisti di diversi generi, a partire dal progetto Storm di Satyr & co. fino ad arrivare a questi Skuggjsá di Ivar Bjørnson (Enslaved) e Einar Selvik (Wardruna).
Adorando gli Enslaved e apprezzando discretamente i Wardruna, potete immaginare come io mi sia sentito quando è stato annunciato questo progetto, lanciato per i 200 anni di creazione della Costituzione Norvegese: l'idea di sentire la musica delle due band fondersi in un connubio psichedelico/folkeggiante è parsa subito come un fulmine a ciel sereno.
I 60 minuti che ci accompagnano nel mondo creato dagli Skuggsjá sono un torrente nero di musica: se un'intro come Ull Kjem, cantata solo dalla dolce voce di Lindy-Fay Hella, lascia spazio al pesante incedere folkloristico della title-track, Makta og Vanaera (I All Tid) rimette subito le cose in chiaro facendoci capire che il mondo dipinto dalla band è un affresco ostile, quasi malefico e senza speranza: una gigantesca foresta nera che ci inghiotte e ci fa ammirare l'immensità del buio. Senza particolari artifici, solamente utilizzando strumenti tradizionali campionati, i due musicisti riescono a dare vita a un vero sogno ad occhi aperti: potrei citare il coro epico che si ripete ossessivamente per tutta Vitkispa o i riff di Skuggeslatten, che si mescolano abilmente ai violini campionati di Bjørnson. La finale Bon Om Byrjing, con le sue melodie cullanti, quasi shoegaze, ci prende per mano mentre attraversiamo le cupe foreste norvegesi e ci porta fuori da questo freddo mondo.
Detto questo, posso dire che Skuggjsá è un esperimento, se non pienamente riuscito, fatto con il cuore in mano, cosa che nella moda del folk metal di oggi è quasi un unicum. Poche volte, infatti, capita di sentire artisti cantare della propria terra con questo vivo fervore, mentre per molti è più facile cantare di alcool e casino.
L'unica pecca dell'album, a mio avviso, è la longevità che alla lunga può stufare; per il resto, se siete fan delle band o semplicemente apprezzate il folklore norvegese, non potete lasciarvi assolutamente sfuggire questo disco.
Ultimo aggiornamento: 22 Aprile, 2016
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Devo ammettere di essermi sbagliato di brutto sulla prima impressione che mi avevano fatto questi Operus. Canadesi di nascita, il sestetto di Toronto capitanato da Robin Howe (violoncello) e Rob Holden (chitarra) pubblica per la prima volta un ep dopo ben 10 anni di attività: periodo che, mi viene da dire, ha dato appieno i suoi frutti. La militanza di molti dei nuovi membri in altre band (Oscar Rangel con gli Annihilator dal vivo e Wohtek Sokolowski con i Panzerfaust) ha sicuramente contribuito ad accelerare il songwriting.
Nel symphonyc power metal degli Operus si possono ritrovare numerosissime influenze che li renderanno sicuramente interessanti a una grossa fetta di pubblico, non necessariamente quella più "nightwishiana": dal medieval death metal degli Haggard all'epic dei Virgin Steele, senza però essere troppo repentini nei cambiamenti e risultanto omogenei e interessanti.
L'ep si compone di quattro pezzi: andiamo dalla ritmica cadenzata di Amen Ignis, che lascia spesso spazio a stacchi di violoncello, al power metal indiavolato di Fate's Pantomime, passando per la piratesca The Book of Shadows, fino alla bellissima Maya and the Wolf che chiude tutto il pacchetto.
Qualche anno fa probabilmente mi sarei esaltato parecchio per una prima prova in studio del genere. Oggi che sono un po' più vecchio, in realtà, mi esalto ancora di più: il lavoro di incroci tra violoncello e chitarre è veramente eccelso e portato a un ottimo livello dall'esperienza artistica dei membri più navigati. L'unica cosa che mi viene da sottolineare come "pecca", è un songwriting che a tratti risulta quasi schizofrenico, alternando sovente diverse parti tra di loro. Sarà magari anche solo un problema di produzione, comunque Opus I è un EP di tutto rispetto e vale il tour che la band sta affrontando con i Sonata Arctica. Continuate così!
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Quella che sto per andare ad indagare e recensire è una storia che, come tutte le reunion dopo tanti anni, non mancherà di scaldare i cuori dei fan dell'heavy metal più tradizionale.
Gli Hardholz, infatti, nascono nel 1984 in Germania Est, considerati tra i primi gruppi fondati oltre la cortina di ferro. Infatti la band, costretta dalle severe regole del Regime in quella landa, non potè mostrarsi sul mercato discografico prima del 1995, quando Jäger und Gejagte diventò un vero e proprio album di culto tra i tedeschi dell'ex blocco sovietico.
Con Herzinfarkt, uscito praticamente 21 anni dopo, la band riprende alcuni pezzi vecchi e ce ne propone di nuovi, finalmente con una produzione e un suono degni di una band che avrebbe avuto tutte le carte in regola per sfondare ma ha mancato il cosiddetto "momento giusto". C'è da dire che se vi piace il tedesco e le sonorità heavy classiche non avrete problemi ad apprezzare il lavoro dei nostri, che sin dalla prima "Charon" mostrano un'energia e una volontà sorprendente, passando anche per ballate quasi folk come "Praeludium Wielandia", mentre non mancano influenze classiche (in Wieland, der Schmied si sente addirittura la Quinta di Behethooven come chiusura!).
Per il resto non penso ci sia molto da dire: la formula è quella dell'heavy più classico e d'annata che esista. Riff granitici, melodie, assoli, cori, la graffiante voce di Kelle (unico nuovo acquisto della band) e quant'altro vi trasporteranno nelle scure periferie tedesche all'epoca del Muro... E vi ricorderanno che nonostante tutto, anche una band di ragazzi come gli Hardholz sono riusciti a spegnere la torta dei 21 anni e a pubblicare un nuovo album.
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Ci sono alcuni generi che stanno a noi italiani come il cacio sui maccheroni.
Se il death metal, in questo momento, vive una rinascita fertile grazie a numerose band impegnate nel genere, anche dal punto di vista del power e del progressive metal non ci possiamo di certo lamentare: gli Ensight, nati da un'idea di Gabriele Caselli (tastierista degli Eldritch, ex Domine), Raffahell Dridge (attuale batterista degli Eldritch) e suo fratello Dimitri Meloni (che ricopre il ruolo di chitarrista), portano un ulteriore tassello a una scena fertile che non ha mai mancato di dare ottimi frutti. A chiudere la formazione Alessio Consani, anche lui nella band livornese, e un ottimo singer come Antonio Cannoletta, uomo d'ambiente che torna dopo anni a incidere in studio.
Hybrid è un album di prog "alla vecchia maniera": semplice, diretto, infuenzato dall'heavy primordiale. Ricorda per molti versi i Fates Warning e i vecchi Dream Theater, senza però tutte le sboronate virtuose a cui l'etichetta di progressive metal ci ha abituati in questi anni. In fondo, ascoltare questo disco è come sedersi in un vecchio pub in cui non andavi da un pezzo con amici vecchi e nuovi, perché la ricetta è proprio quella che molti gruppi odierni mi pare si siano dimenticati: fin da Godfreak troviamo delle composizioni estremamente dirette e orecchiabili, con riffoni densi e continui che fanno perfettamente da contraltare alla voce melodica del singer. Forse mi piacciono così tanto proprio perché ricordano i primissimi Eldritch: dalla title track fino alla fine dell'album è tutto un rincorrersi di tempi e scambi tra gli strumenti. Menzione d'onore per il bellissimo assolo di tastiera in Until the End e anche per la traccia finale: 12 minuti e oltre di prog metal suonato in un modo tutt'altro che stopposo e incomprensibile.
L'altro lato della medaglia, se vogliamo, è che la produzione non è esattamente il top dei top, ma nel contesto (un bel revival del prog dei primi anni 90') è accettabile e alla lunga è un problema di cui ci si dimentica pure.
Insomma, speriamo che questo side-project degli Eldritch abbia vita lunga: come potrete sentire ci sono musicisti che hanno ancora moltissimo da dire.
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