Opinione scritta da Corrado Franceschini
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Ultimo aggiornamento: 07 Dicembre, 2023
Top 10 opinionisti -
La popolazione della Sardegna è tenace e caparbia e queste due qualità, ne sono certo, fanno parte del DNA di Franco Onnis, fondatore e bassista dei Rod Sacred. I Rod Sacred si sono formati nella prima metà degli anni '80 ed hanno avuto una vita travagliata fatta di dolore, speranze, riconoscimenti e scioglimenti. La passione però è dura a morire e la voglia di tornare in pista ha avuto il sopravvento. Per il nuovo album “Another Day”, Franco ha voluto al suo fianco il cantante del primo disco Tonio Deriu, il chitarrista Manu Pes e il batterista Mattia Murtas e, come ospiti, il chitarrista Jimmy Carboni e i batteristi Ricky Sedda e Jack Macis. La creatura che sbuca dalle rovine nella copertina del nuovo album - disegnata da Dario Calì, vecchia conoscenza per i frequentatori di riviste Metal -, è la stessa che campeggiava sul primo disco. Segno che il gruppo ha voluto dare una continuità al discorso grafico e musicale che aveva lasciato in sospeso tanti anni fa. Se volessi liquidare in maniera sbrigativa le otto tracce di “Another Day”, vi potrei dire che sono ispirate dall’Heavy Metal anni '80 e stop. Durante l’ascolto, però, vengono fuori altre correnti ed influenze. Certo, la velocità o i classici riff Heavy non mancano e guidano le scelte musicali del gruppo sardo che li riversa in brani come l’eponima “Another Day” o in “Free Man” ma, come detto, c’è dell’altro. Se apprezzate lo Street – Hard di gruppi come Cinderella e ancor di più i Guns N’ Roses, dovete assolutamente ascoltare la semi ballad “Land Of Pain”. ”The Ring Is Broken” risulta coinvolgente e convincente grazie ai suoi cambi di ritmo piazzati qua e la. Nell’Hard Rock-oriented “Try To Understand” ciò che emerge è il gran lavoro delle chitarre di Manu Pes e Jimmy Carboni. “I Miss You” è un classico brano cadenzato che si carica man mano. “The Day After” è abbastanza particolare, visto che si tratta di un pezzo strumentale che incorpora fasi “al galoppo” smaccatamente ispirate agli Iron Maiden, con altre, diverse, che palesano un uso particolare delle chitarre. La conclusiva “No Regress” prende il meglio della produzione di Ronnie James Dio e dell’Hard Rock dei Deep Purple e le miscela sapientemente con tratti simili a Dokken, Malmsteen e Michael Schenker. Le canzoni scritte da Franco Onnis e Flavio Laconi non brillano per particolare originalità e la produzione poteva essere più accurata ma, alla fine della fiera, il disco regge bene il confronto con altri dello stesso tenore e potrebbe fare felici diversi tipi di ascoltatori, persino quelli orfani della vecchia N.W.O.B.H.M.
Ultimo aggiornamento: 21 Novembre, 2023
Top 10 opinionisti -
Nel 1990 i parmensi Wyvern dopo alcune traversie, riuscivano a pubblicare il primo LP dal titolo “The Red Flame of Pain”. In qualche modo il drago che campeggia su quella copertina è arrivato ai giorni nostri e, se pur in maniera più moderna e stilizzata - il disegno di Jen Scarlet è ispirato a mio avviso quello del videogioco Mortal Kombat - lo ritroviamo sulla copertina di “Back and Forth”. Per parlare del nuovo EP dobbiamo fare come nel film “Ritorno al Futuro” e tornare indietro sino al 1987, anno di uscita del demo omonimo “Wyvern 1987”. I quattro brani di quella cassetta sono stati ripresi dalla formazione originale e riportati a nuova vita risuonandoli, riadattandoli e adottando una produzione in linea con i tempi moderni effettuata nei Tartini 5 studio di Parma, con produzione curata dal bassista Fausto “Tino” Tinello. Ad essi sono stati aggiunti due nuovi pezzi a dimostrazione del fatto che il gruppo ci tiene a creare un continuum spazio – temporale e portare avanti un discorso musicale basato sull’Heavy Metal che lo ha sempre contraddistinto. Si comincia con “Save Humanity”, un grido di esortazione a base di riff quadrati e taglienti sullo stile dei Judas Priest o, se preferite, degli Ancillotti; non a caso Fausto ha prodotto i loro dischi. A spezzare il ritmo ci pensa un break semi Progressive piazzato nel mezzo. Per il secondo pezzo intitolato “Walking In The Night”, i Wyv85 si sono avvalsi dell’aiuto in fase di scrittura dell’amico Luciano “Ciano” Toscani, ed hanno buttato fuori un Heavy Metal dalle ritmiche spezzate. Per capire l’accuratezza e il trattamento di ringiovanimento subito dai vecchi brani basta “Bounty Killer” (titolo originale “Lady Killer” N.d.A.). Vi consiglio di ascoltarla con le cuffie: in questo modo riuscirete ad apprezzare sia la chitarra di Giovanni “Krippo” Cripotos che in un tratto opera in un canale, sia il basso di Fausto “Tino” Tinello che “rotolando” e girando alla grande, segna il ritmo in maniera marcata. Da notare lo stacco stile Blues che porta al finale del pezzo. “Back To You” è un Heavy contrassegnato da diversi cambi di ritmo: in questo caso è stato lasciato un grande spazio alla chitarra di Giovanni che si dedica ad un solo più sognante di tutti gli altri. Con “Stand Up” entriamo nel novero dell’Hard Rock a stelle e strisce americano. Cori – anthem, un break tranquillo, una breve fase di synth e una velocizzazione verso la fine sono le sue caratteristiche. Con “No Chance” siamo di fronte ad un Hard Rock atletico che vira verso l’Heavy melodico, per poi approdare ai primigeni lidi. In un’epoca nella quale molti riscoprono le sonorità del passato, è giusto dare credito a chi quel passato l’ha vissuto e continua a viverlo intensamente.
Ultimo aggiornamento: 13 Novembre, 2023
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Alla soglia dei quarant'anni di carriera Doro Pesch, regina incontrastata del regno dell’Heavy Metal, torna con un nuovo disco licenziato dall’etichetta Nuclear Blast Records e pubblicato in tutti i formati possibili. “Conqueress - Forever Strong And Proud” contiene un totale di venti brani: quindici "normali" e cinque bonus track (nella versione 2CD). Fra tutti, tre sono cover e in ben due di esse compare l’ugola d’oro di Rob Halford. Ad essere sinceri le ultime uscite della bionda teutonica non sono state esaltanti come i primi dischi dei Warlock o alcuni dischi cardine della carriera solista. D’altra parte, si sa, il cammino di Doro è lungo ed ha attraversato tante fasi costellate da alti e bassi che avrebbero fatto desistere molti “duri e puri”. Lei no: continua a portare avanti un discorso musicale che da molti anni ha trovato una linea di continuità e coerenza, cosa apprezzata dai fans. Là dove molti gruppi o solisti scelgono di aprire il CD con un pezzo carico e arrembante Doro, o chi per lei, ha inserito “Children of the Dawn”, brano con una cadenza maestosa che va a braccetto con la melodia tipica del suo marchio di fabbrica. Il disco si snoda attraverso canzoni più o meno riuscite. La cover di “Living After Midnight” nonostante la presenza del “Metal God” Rob Halford, è ordinaria e “Lean Machine” è decisamente fiacca. Pollice su per la sesta traccia, “I Will Prevail”, che regala più di un sussulto grazie alla sua marcia bella tosta, al solo di chitarra ben gestito (purtroppo non è sempre così) e al suo enfatico coro. La tracklist prosegue con brani dai ritornelli di facile presa, ma dalla costruzione debole e poco convincente. Prendiamo ad esempio “Bond Unending”: in questo caso troviamo alla voce Sammy Amara, chitarrista dei famosi (in patria) Broilers, band che ha iniziato con il genere Oi per poi passare al Punk; mi sapete dire che cosa ci fa un pezzo Pop Punk in un contesto Heavy Metal? Il tutto mi dà l’idea di volere mischiare tipi di pubblico diversi, ma con un brano che, personalmente, trovo veramente “povero”. La voce di Doro nelle canzoni, se pur in forma e in linea con le ritmiche, ha subito un trattamento a base di effetti eco e armonizzazioni che annullano il tono marziale che era presente in pezzi come “True as Steel” o la lenta “Love Song”. Una flebile scossa la provoca “Rise” grazie alle sue chitarre sovrapposte, ma quando arriva il solo vanifica ciò che di buono era stato costruito. Se amate melodia e dolcezza corroborate da leggeri tocchi di tastiere vi suggerisco di ascoltare “Best in Me”. La vera sorpresa però, la riserva la cover di “Total Eclypse of the Heart”, brano portato al successo da Bonnie Tyler. In questo caso le voci di Doro e Halford, suffragate da un’ottima orchestrazione e da un’eccellente produzione, formano un connubio perfetto. Delle cinque bonus track aggiunte salvo la dura “Heart In Pain” perché, nonostante un solo centrale spiazzante che poteva essere “raccordato” meglio, mostra delle buone idee. Salvo anche la cover di “The Four Horsemen” dei Metallica che, pur mostrando una minor veemenza e grinta, è ben eseguita e lascia spazio nel finale ad una chitarra che, finalmente, si scatena e dà il meglio di sé. Se fossi un ascoltatore alle prime armi che si approccia per la prima volta alle canzoni di Doro potrei accontentarmi ma, purtroppo, non è così. Conoscendo la produzione della cantante tedesca so che da professionista quotata quale è può fare molto meglio: per riuscirci le servirebbe un produttore adeguato e un aiuto a livello compositivo.
Ultimo aggiornamento: 02 Novembre, 2023
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Qualsiasi anniversario di ogni disco dei Motörhead andrebbe festeggiato degnamente. Il 2023 ricorre il quarantennale dall’uscita di “Another Perfect Day” e la BMG ha deciso di farne uscire diverse versioni: picture, triplo disco, doppio CD etc. Questa recensione, purtroppo e con un poco di rammarico, è incompleta: nel press kit che mi è stato inviato non è stato incluso il disco inedito inciso dal vivo alla Hull City Hall nell’anno 1983. Molto probabilmente “Another Perfect Day” è l’album più controverso e “contestato” dei Motörhead. L’inserimento nella line up di un chitarrista come Brian “Robbo” Robertson, elemento di per sé valido ma dai capelli corti e poco “trucido” rispetto ad Eddie “Fast” Clarke, risultava un fattore inviso ai fans più grezzi e ortodossi. Poco importava che Robertson avesse fatto parte dei Thin Lizzy e fosse in grado di proporre inserti e soli di chitarra di alto livello. Io ho comprato il disco originale nel 1983, anno della sua uscita, e mi è sempre andato a genio. Dopotutto Lemmy e Phil Taylor erano lì con le loro peculiari caratteristiche anche se la voce del carismatico leader, in alcune fasi, sembrava essersi “addolcita”. C’è il fraseggio a spirale ascendente di “Shine”, il ritmo nervoso di “Rock It”, la rocciosa e cadenzata “One Track Mind”, il suono veloce con ritornello accattivante di “Tales Of Glory” (vi sfido a non cantarlo) e anche gli altri pezzi non sono per niente male. A completare il primo disco inciso a velocità dimezzata, troviamo sette bonus tracks e qui entriamo nel merito o meno di questa uscita discografica. Tre tracce sono già state edite come facciate B nei singoli “I Got Mine” e “Shine” e questo non costituisce un gran valore dato che, ne sono sicuro, le possedete già. Va meglio con le rimanenti quattro tracce ma vi esorto a stare in guardia. Nonostante i titoli fuorvianti “Climber” è la versione demo di “Shine” senza i soli aggiunti nella versione sul disco, “Fast On” è quella di “Die You Bastard”, mentre “Chinese” è la versione demo di “One Track Mind”. A chiudere la sezione bonus troviamo la versione strumentale di “Climber” (sempre “Shine”). A questo punto la scelta come al solito è vostra. Dovete possedere assolutamente tutte le versioni dei dischi dei Motörhead? Allora uscite e acquistate la versione che più vi aggrada. Siete stanchi di vedere le etichette raschiare il fondo del barile? Girate l’angolo e spendete i vostri soldi in un altro modo. Il mio voto è di 4/5 e più che un giudizio a questa uscita, è un voto dovuto al rispetto che nutro per una band che mi ha accompagnato nei momenti più belli e spensierati della mia vita.
Ultimo aggiornamento: 28 Ottobre, 2023
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I Leathürbitch da Portland, Oregon, si sono formati nel 2015 ed hanno all’attivo un EP auto intitolato (2018), il debutto su lunga distanza “Into the Night” (2019) e il secondo full-length “Shattered Vanity”, uscito il 2 giugno 2023 su Shadow Kingdom Records. La copertina del disco mi ha riportato indietro nel tempo ricordandomi quelle di gruppi come Savage Grace, Legs Diamond e Bitch. Per la musica invece, ascoltando i primi pezzi, mi ero preparato un discorsetto sull’influenza e le mescolanze nel suono di Exciter, Metallica e Mercyful Fate. La cosa è valida solo in parte e vi spiego il perché. Se da un lato i Leathürbitch hanno spostato il fulcro del proprio Metal verso lo Speed e il “Tupa Tupa” - vedi le bordate delle canzoni “Shattered Vanity” e “Betrayal” - dall’altra hanno sì miscelato i quattro cavalieri di Frisco con il Re Diamante come avviene in “Death Mirror”, ma hanno tenuto, soprattutto nella seconda metà del disco, una certa dose di melodia e un retaggio Heavy con sfumature varie. D’altra parte il quintetto aveva iniziato suonando Hair Metal e Hard Rock e dimostra di non averli dimenticati. Il quadro generale è composto dalle chitarre affilate e taglienti di Pat Sandiford e Alex Ponder, due strumentisti capaci di creare riff Heavy Metal come si può notare ascoltando la tostissima e ottantiana “The Invitation” e “Shadow Mistress”. Questo tipo di canzoni necessita di una voce potente ed acuta e quella di Joel Stair, quasi sempre impostata per l’appunto su toni alti, è la degna ciliegina sulla torta. I Leathürbitch sono anche in grado di sorprendere chi ascolta: infatti chi mai si aspetterebbe dopo un Heavy tagliente dai riff decisi piazzato all’inizio di “Horror’s Unseen”, una fase “stemperata” fino ad un rallentamento progressivo e poi, quando tutto sembra finito, una ripresa a tutta forza? Pur non proponendo nulla di nuovo i cinque americani sono in grado di far uscire fuori il giovane metallaro che è rimasto nel vostro inconscio: quello che indossava il giubbino in Jeans e il bracciale di borchie.
Ultimo aggiornamento: 22 Ottobre, 2023
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Anno 2009: quattro ragazzi ferraresi mettono a ferro e fuoco il palco del Circolo Twilight di Fabbrico e convincono il sottoscritto della bontà della loro proposta musicale. Anno 2023: a sei anni dall’ultimo disco “Claiming Supremacy” (voto: 4/5), i Game Over tornano con il nuovo “Hellframes”. Sei anni di distanza fra un disco e l’altro possono sembrare tanti; dobbiamo però mettere in conto che di mezzo ci si è messa la pandemia e che tutti i testi e le musiche sono appannaggio del batterista Anthony” Vender” Dantone (entrato nel 2012 N.d.A.). Questi fatti, presumibilmente, hanno rallentato il corso dei lavori. Il disco riprende il filo musicale interrotto sei anni fa e, a mio avviso, il gruppo si è smarcato ancora di più dai territori del Thrash ortodosso dei quali era padrone all’inizio. In un brano come “Path Of Pain”, per esempio, ho riscontrato una ricerca musicale ascrivibile al repertorio dei Metallica meno violenti mentre nel bridge, c’è sentore di Mercyful Fate. La stessa influenza - quella dei Mercyful Fate e di King Diamond - è presente nel quarto pezzo intitolato “The Cult”. A spezzare il ritmo arriva “Count Your Breath” con le sue fasi lente, ma è solo un’illusione dato che, nel prosieguo, troviamo fraseggi liberi e intrecci Thrash. “My World Dies Screaming” traccia un nuovo solco sulla strada percorsa dai Game Over: la band rinuncia alla pura velocità, per adottare un’atmosfera più decadente e per certi versi, malinconica. Chiudo la recensione dicendo che mi rimangono alcuni (parziali) dubbi sulla voce di Renato “Reno” Chiccoli che, in alcune fasi, sembra aver “subito” qualche serata di bisboccia dove e scorsa qualche birra di troppo. Rimane comunque, al di là di ogni dubbio, il suo contributo positivo e fondamentale al basso. Anche le chitarre si lasciano talvolta prendere un po’ troppo la mano, ma ciò non inficia il buon lavoro svolto nel complesso. I Game Over rimangono uno dei gruppi più validi nell’ambito del Metal estremo italiano e “Hellframes” è l’ennesima riprova di ciò che ho scritto..
Ultimo aggiornamento: 17 Settembre, 2023
Top 10 opinionisti -
“Back to the Beginning” è il titolo/manifesto scelto dai Sons Of Cult, band formata a Palma di Maiorca sul finire del 2020, per siglare il disco d’esordio. Ho detto titolo/manifesto perché l’intento dei cinque spagnoli sarebbe - condizionale obbligatorio - quello di riportare in auge i suoni e i tempi d’oro dell’Heavy Metal. Nonostante un paio di componenti abbiano una certa esperienza avendo militato in altri gruppi, devo dire che il disco non è completamente riuscito. La voce di Jaume Villanova, accreditato nella bio come emulo di Ozzy Osbourne, risulta eccessivamente monocorde. Alcune delle canzoni hanno ritmiche troppo simili tanto che per almeno tre di esse, mi è venuta in mente “Looks That Kill” dei Motley Crue. Questo fatto la dice lunga in quanto a originalità e capacità nel creare pezzi diversi fra loro. Contando il fatto che i soli sono incisi in maniera più bassa rispetto ai restanti strumenti e che la pronuncia del cantato in inglese non è il massimo: probabilmente era meglio usare lo spagnolo. Passo a elencarvi le canzoni che in un certo qual modo, hanno suscitato il mio interesse. Parto con “But Not Me”, riff a media velocità e una seconda fase a più chitarre rendono il tutto convincente. Proseguo con “Always”, un pezzo che, nonostante un ritornello piatto, si salva grazie al suo Hard Rock in media cadenza, alla melodia con una buona struttura e un solo ben realizzato. Finisco segnalando la cover di “Desert Song” (MSG, “Assault Attack”, 1982) presente nell’edizione giapponese del CD e resa, voce a parte, in maniera più che dignitosa. Per il resto, fra echi di “Holy Diver” presenti in “The Farewell Song” e quelli di Judas Priest presenti in “I Don’t Care”, null’altro da dire. Se i Sons Of Cult non cambieranno l’approccio e parte della struttura musicale fortificando il suono e facendolo “uscire” a dovere, non riusciranno ad essere competitivi.
Ultimo aggiornamento: 06 Settembre, 2023
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I Perfect View sono nati a Modena nel 2008 e con “Bushido (The Way of the Warrior)” sono giunti al traguardo del quarto disco. Questo ultimo lavoro presenta alcune novità; in primo luogo la formazione ha subito un drastico cambiamento: ai due veterani Francesco Cataldo (chitarre) e Frank Paulis (basso), si sono affiancati il cantante romano Damiano Libianchi, il batterista Davide Lugli e il tastierista Alberto Bettini; in secondo luogo l’album si presenta sotto forma di concept (ideato da Frank Paulis N.d.A.) e narra la storia di un ragazzo affetto da disabilità, che vuole ricalcare le orme del padre diventando un Samurai. Il disco ha usufruito di una lunga e accurata fase di pre produzione e credo ci sia voluto un’infinita pazienza da parte di Roberto Priori che, nei suoi Pristudio, ha dovuto mixare e masterizzare brani con cinque chitarre, strumenti e voce registrati in altre sedi. Tutto questo lavoro ha portato in dote un suono cristallino che, a dispetto di quanto detto sulla fase tecnologica, non risulta completamente asettico lasciando una buona dose di genuinità. I Perfect View flirtano da sempre con l’Hard Rock americano, quello delle grandi arene dove è la melodia a farla da padrona. Questa volta, tuttavia, mi sento di dire che c’è stato un lieve spostamento di alcune partiture verso il Progressive Rock. Per essere più precisi, vuoi per la voce “morbida” di Damiano Libianchi che per le tastiere di Alberto Bettini, accomunerei le suddette partiture al suono dei strepitosi DGM. Come potete immaginare la storia che si dipana attraverso dodici brani - tredici nella versione “fisica” giapponese - è abbastanza lunga. Niente paura: coloro che acquisteranno il CD la troveranno spiegata pezzo per pezzo nel booklet. Per la musica, oltre a ciò che ho detto, vale il fatto che la band ha svolto un’operazione “furba” e intelligente. Le canzoni possono essere ascoltate in maniera singola senza paura di perdere il filo musicale visto che mantengono una propria identità, seppur con qualche fil rouge che talvolta le accomuna. Questo fatto faciliterà la creazione di un’adeguata scaletta per i concerti, senza dover per forza suonare tutto il disco. Mi sono piaciute particolarmente “Love”, canzone nella quale è possibile apprezzare la voce di Damiano affiancata a quella di Emanuela Siconolfi ai cori, e “Loyalty”, un pezzo che abbraccia il Rock di classe per poi corroborarlo con un ritmo dinamico. Chi apprezza le chitarre e i diversi suoni che emanano andrà in solluchero ascoltando “Honor”. Chi predilige la velocità si scatenerà con “Honesty”. Detto che tutti i soli di chitarra appannaggio di Francesco Cataldo sono inseriti in maniera perfetta nelle ritmiche emano l’ultima sentenza: chi ama gruppi come Blue Murder, Dokken, Foreigner e simili, con “Bushido (The Way of the Warrior)” troverà pane per i suoi denti.
Ultimo aggiornamento: 28 Agosto, 2023
Top 10 opinionisti -
Nel Metal estremo, talvolta, i confini musicali sono molto labili. Per questa ragione non voglio ingabbiare gli Athenesi in un solo genere. Certo, nelle nove tracce dell’esordio discografico del terzetto bergamasco dal titolo “At The beginning”, sono presenti marcati riferimenti a gruppi Technical Thrash come gli svedesi Hexenhaus - anno di formazione 1987 -, ma fra le moltissime influenze si possono notare passaggi musicali alla Possessed e alla Immortal dei due periodi, quello blasfemo e quello guerrafondaio /epico. A mitigare tanta foga ed energia ci pensano passaggi più lenti degni degli Amorphis di “Tales From The Thousand Lakes”. La voce belluina e ruvida come la carta vetrata di Marco Espada, anche chitarrista, esprime rabbia e disagio, ma avrei gradito un poco più di diversità nei toni e meno “urlato”. Si può essere cattivi anche in maniera più “sottile”. Le canzoni poi ne avrebbero guadagnato in dinamicità. Il trio da origine a pezzi molto validi cercando di personalizzarli il più possibile. Proprio per questo motivo: la qualità, non è facile trovare una canzone che emerge sulle altre. Per i vari tipi di ascoltatore posso dare qualche consiglio. “Denial” parte da una marcia norrena e si snoda fra il Technical Thrash e ripartenze più o meno “atletiche”. “Human Project” colpisce per i suoi cambi, le sue fasi in calare, e il primo solo di chitarra inaspettatamente dolce. “Inhale Insanity” è costituita da riff intricati (ed intriganti) e cadenze. “Sentence 666” ha delle spezzature e una resa più incisiva dovuta a cambi tecnici. “Universal” vede gli Immortal dell’ultimo periodo affiancati ad un solo di vaga matrice Slayer e a far da cornice, ancora una volta, troviamo ritmi spezzati e galoppate. “At The Beginning” è un esordio niente male che lascia di stucco chi continua a professare una netta esterofilia musicale.
Ultimo aggiornamento: 08 Agosto, 2023
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Per un lungo periodo di tempo Vanadium e Death SS hanno rappresentato il sogno di vedere l’Heavy Metal italiano travalicare i confini nazionali ed avere successo. Non è questa la sede per analizzare se e come il sogno è diventato realtà. Dopo lo scioglimento definitivo dei Vanadium: anno 1996, il cantante Pino Scotto ha dato vita a numerosi progetti musicali, e ad una carriera solista densa di album e concerti tenuti in ogni parte d’Italia. Pino è uno dei pochi personaggi della scena Metal italiana in grado di suscitare sentimenti contrastanti, ma di sicuro, a 73 anni, non ha perso la voglia di cantare e nemmeno quella di lanciare strali contro cose o persone che non gli vanno a genio. “Live N’ Bad” contiene diciotto pezzi suonati dal vivo: tre sono presi dal repertorio dei Vanadium, tre sono dei soli degli strumentisti e i rimanenti sono estrapolati dalla vasta produzione da solista. Il diciottesimo e ultimo pezzo è “Stone Dead Forever” dei Motorhead e, ovviamente, è stato dedicato a Lemmy. Diciamo la verità, la voce non è sempre al top e la chitarra di Steve Volta, in alcune fasi, tende ad essere un poco “anarchica”. C’è però da rimarcare il fatto che mix e mastering a cura di Tommy Talamanca ci restituiscono un suono genuino e sincero e questo, in un mondo dove tutto viene “aggiustato” con il computer, è un pregio. Sappiamo bene che i Led Zeppelin fanno parte del DNA del singer nostrano e “La Resa Dei Conti” (da “Vuoti di memoria” – 2014) lo dimostra in pieno. Brani con un buon tiro ed una buona esecuzione come “Eye For An Eye” (dall’album omonimo - 2018) o “Morta è la Città” (“Buena Suerte” – 2010) ci danno l’idea di come in questi pezzi Steve Volta sa assecondare le ritmiche e piazzare dei buoni soli. A proposito di questi, aggiungo che quello del batterista Luca Mazzucconi è basato su schemi comprovati, quello di basso a cura di Giananatonio Felice, invece, è ben strutturato e rilascia una buona dose di energia, quello di Volta è da vedere come un omaggio a chitarristi come Van Halen, Randy Rhoads e Malmsteen. Buone le versioni di “Don’t Be Looking Back” e “Streets Of Danger” dei Vanadium, mentre “Get Up Shake Up” vive di due fasi: una più univoca e l’altra più nerboruta. “Stone Dead Forever” lascia qualche perplessità sulla resa, ma l’intervento di una chitarra pirotecnica nel finale, risolleva le sorti del brano. Come detto Pino non rinuncia a qualche polemico intervento contro i politici, ai leoni da tastiera (“Talking Trash”) o a un notissimo cantante; se sapete chi ha collaborato con lui in “Come Noi” avete capito di chi si tratta. “Live N’ Bad” non è un brutto album, fotografa semplicemente l’istante di una persona che del Rock 'n' Roll, ha fatto la sua vita. Aspettiamo il prossimo lavoro previsto per il 2024 e vedremo cosa accadrà.
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