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Opinione scritta da Ninni Cangiano

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    28 Dicembre, 2024
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I Rauhbein sono un gruppo tedesco fondato dal cantante Henry M. Rauhbein nel 2019, con all’attivo una lunga serie di singoli e tre full-lengths, di cui questo “Adrenalin” è l’ultimo, uscito dopo Natale, il primo per l’importante Reigning Phoenix Music. Musicalmente, potremmo piazzare la band a metà strada tra i Feuerschwanz ed i Saltatio Mortis, pur senza gli strumenti tradizionali di queste band (c’è solo il violino e niente cornamuse o altro), anche per la somiglianza del vocione roco del leader con quello dei mitici Ben Metzner e Alea der Bescheidene, ma anche per le ritmiche sempre frizzanti e veloci, imposte dall’ottimo batterista. Il songwriting, come questo genere impone, non è arzigogolato, ma conciso e breve, tanto che l’album non dura nemmeno 40 minuti, suddivisi per 10 tracce, compresa una bonus-track che sembra sia una sorta di inno ai Kassel Huskies, squadra di hockey su ghiaccio tedesca della zona da cui arriva la band stessa (e per la quale immagino facciano il tifo). Come tradizione di questo genere musicale, le varie canzoni mettono allegria e voglia di zompettare, magari con in mano un bel corno pieno di birra ghiacciata; potremmo infatti definire la musica dei Rauhbein come l’ideale colonna sonora per una serata tra amici per fare casino tutti assieme, innaffiati da fiumi di birra. La band tedesca, insomma, non si discosta di una virgola dai cliché tipici di questo genere di folk metal di scuola tedesca ma, pur non essendo obiettivamente particolarmente originale o innovativa, quel copia/incolla lo fa dannatamente bene, tanto che ogni ascolto dato a questo disco si concludeva con notevole soddisfazione e piacere. Ed anche quando il ritmo rallenta (vedasi, ad esempio, “Bruder”), l’ascolto è sempre gradevole e la traccia convincente ed efficace. Se, insomma, siete fans del medieval folk cantato in tedesco (idioma ostico che, però, per questo genere musicale ci sta dannatamente bene), questo “Adrenalin” dei Rauhbein potrà fare sicuramente al caso vostro!

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    26 Dicembre, 2024
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I Sorceress Of Sin sono una band inglese formatasi nel 2020, con all’attivo già due full-lengths (entrambi recensiti sulle nostre pagine, tra le autoproduzioni), “Mirrored revenge” nel 2020 e “Constantine” nel 2021. Ottenuti buoni riscontri con questi due dischi, il gruppo inglese strappa un contratto alla nostrana Wormholedeath Records (che finalmente torna a rilasciare del power metal!) e pubblica in questi giorni di fine 2024 il terzo album intitolato “Ennea”, dotato di piacevole artwork ispirato all’antica Grecia che lascia capire il concept che lega i vari pezzi: appunto la mitologia greca. Come nel precedente disco, ci troviamo davanti ad un power metal molto melodico, ma anche ricco di energia, grazie anche all’approccio spesso aggressivo della singer Lisa Skinner (ma non sempre, come in “The quest”). Il problema principale, che c’era anche nei dischi precedenti, è il songwriting eccessivamente prolisso e lungo che appesantisce non poco l’ascolto, basti pensare che il disco dura quasi un’ora ed è composto da soli 9 pezzi, con un solo brano che dura meno di 5 minuti (“Nymphet”, non a caso la migliore della tracklist!) e con la lunghissima suite “Clarity of confusion” che raggiunge quasi 12 minuti, ma che sarebbe stata molto più efficace con robuste sforbiciate di almeno 3-4 minuti. Ecco, per il futuro, i Sorceress Of Sin dovranno fare molta più attenzione al songwriting, in modo da rendere i loro componimenti più efficaci e diretti; capisco la voglia di strafare, ma non siamo al debut album dove si potrebbe anche capire e chiudere un occhio; se si vuole uscire dall’underground bisogna cercare la perfezione. Dispiace dirlo, perché per il resto questo “Ennea” è davvero un bel disco, ben cantato, ben suonato dai vari musicisti e registrato altrettanto bene e, se solo fosse durato, almeno ¼ d’ora in meno sarebbe stato davvero una bomba. Disco riservato ai fans della band ed agli appassionati del power metal più melodico che non fanno caso alla lunghezza dei singoli pezzi.

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    26 Dicembre, 2024
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Conosco i greci Desert Near The End da ormai un decennio, essendomi imbattuto all’epoca nel loro secondo album “Hunt for the sun” ed avendone seguito sostanzialmente anche le successive tappe; in questo mese di dicembre rilasciano il loro sesto album (il settimo, contando anche quello uscito con il nome The Eventide), intitolato “Tides of time”, sotto la label polacca Theogonia Records. Anche questa volta il duo Prasinikas/Papandreou ha rivoluzionato la formazione, reclutando un nuovo batterista e due nuovi chitarristi solisti, il che da sempre credo sia una sorta di tallone d’Achille per la band. Ogni volta, infatti, pare che ci sia voglia di ricominciare daccapo e, se in passato il sound era stato anche accostabile ai Kreator, questa volta pare di ascoltare un nuovo disco degli Iced Earth, con la sola differenza che il buon Papandreou sfigura maledettamente, sia per potenza che per espressività, se lo paragoniamo al grande Matt Barlow (non prendo in considerazione chi ha poi cantato nel gruppo americano dopo di lui!). Il vocalist greco, infatti, tende spesso ad esagerare andandosi a cacciare in vocals estreme al limite del growl che poco o niente c’azzeccano con il sound power/thrash che è possibile ascoltare in questo disco, finendo per incattivirlo in maniera spropositata (sostanzialmente solo nel pezzo “Oceans of time” non cade in questo fatale errore). E proprio le parti canore finiscono per essere il punto debole del disco che, musicalmente parlando, è ben fatto e piacevole da ascoltare, seppur sostanzialmente privo di originalità (termine questo che non credo sia compreso tra gli obiettivi del gruppo greco). Migliorabile anche il songwriting, con canzoni fin troppo lunghe (il disco è composto da 9 tracce per la durata totale di oltre 56 minuti) che spesso superano i 7 minuti e finiscono per risultare alquanto prolisse (come l’opener “City of eternal flame”, che poteva tranquillamente essere divisa in due brani diversi di circa 3 minuti e mezzo ciascuno). Il punto di forza, invece, sono le atmosfere sulfuree che vengono realizzate nei vari pezzi e che contribuiscono non poco a ricordare gli Iced Earth di dischi come “The dark saga” o “Burnt offerings”. Particolare anche l’uso frequente del blast-beat da parte del nuovo batterista Stelios Pepinidis che, seppur possa sembrare a primo acchito alquanto eccessivo, alla fin dei conti non dispiace, contribuendo ad irrobustire il sound. Siamo arrivati ad un punto della carriera in cui una band dovrebbe avere una strada personale e ben definita, invece i Desert Near The End continuano ad ispirarsi fortemente a gruppi storici (in precedenza i Kreator, ora gli Iced Earth), particolare che non giova più di tanto e non permette di farli apprezzare pienamente; questo “Tides of time” non è male come disco, soprattutto dal punto di vista prettamente strumentale, ma per quanto fin qui descritto non riesce a strappare più della sufficienza.

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    22 Dicembre, 2024
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Gli Steel Inferno sono un gruppo di Copenhagen formatosi nel 2012; nella loro carriera hanno realizzato diversi singoli e tre full-lengths (l’ultimo dei quali, risalente al 2022, è stato recensito dal sottoscritto su queste stesse pagine), prima di rilasciare questo “Rush of power” a fine novembre 2024 per la label danese From The Vaults. Il sound degli Steel Inferno è fermo agli anni ’80, allo speed metal di gente come gli Agent Steel (quelli dei primi dischi), con qualche spruzzata di US-Metal ispirata soprattutto ai primi Helstar. Tornando agli Agent Steel, è abbastanza evidente che il singer Chris Rostoff si ispiri fortemente nel suo stile canoro a quello del mitico John Cyriis, risultandone però solo una copia non ottimamente riuscita ed un po’ rauca. Ma veniamo a questo album, dotato di artwork alquanto brutto (non che quelli dei suoi predecessori fossero migliori…) e composto da sole 9 tracce per la durata di poco più di 34 minuti. Il songwriting è quindi estremamente conciso ed anche alquanto efficace, visto che lo speed metal non richiede canzoni particolarmente elaborate, ma più che altre basate su ritmiche veloci e chitarre affilate come rasoi. In questo sicuramente la band danese riesce egregiamente, con il batterista Krzysztof Baran che lancia il suo strumento spesso a velocità folli (specie la doppia-cassa) e la coppia di chitarristi Lars Lyndorff e Jens Andersen che si danno da fare tra riff ed assoli. La registrazione è ancora una volta alquanto old-style e sacrifica il basso di Thierry Zubritovsky che si sente fin troppo in sottofondo; potremmo aprire un ampio capitolo sul senso di registrare a questa maniera un disco del 2024, ma appare evidente che agli Steel Inferno poco importa di tali dettagli! Loro amano quelle sonorità “vintage”, quel sound che in tanti hanno già suonato da oltre 40 anni a questa parte ed il resto potrebbe tranquillamente andarsi a farsi benedire! Evitiamo, quindi, di addentrarci in discorsi su originalità ed innovazione, perché mi sa che sono capitoli assenti nel vocabolario di questo quintetto danese. E già solo per la passione evidente e per l’impegno che ci mettono vanno rispettati, se poi aggiungiamo che, in fin dei conti, lo speed metal degli Steel Inferno è piacevole da ascoltare, allora capirete perché questo “Rush of power” raggiunge sicuramente la sufficienza. Disco riservato agli appassionati di questo genere di sonorità old-style, astenersi soggetti differenti.

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    22 Dicembre, 2024
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I Sign of the Jackal arrivano da Rovereto in Trentino e sono attivi dal 2008; finora hanno realizzato, oltre ad un demo nel 2008, un EP nel 2011 e due LP nel 2013 e 2018; a fine novembre 2024, grazie alla label tedesca Dying Victims Productions, hanno realizzato il loro terzo album con questo “Heavy metal survivors”. Il disco è dotato di artwork alquanto old-style (come si usava negli anni ’80) ed è composto da 10 tracce per poco meno di 40 minuti di durata totale, fra cui anche una cover di tali Childhood’s end, sconosciuta band americana che ha realizzato solamente un EP nel 1985. Per chi non conoscesse il gruppo trentino (come il sottoscritto, prima di questa recensione), vi sono stati dati tanti dettagli che ne lasciano immaginare il sound: il titolo del disco, l’artwork, la cover di un gruppo degli anni ’80… avete indovinato? I Sign of the Jackal sono devoti all’heavy metal che si suonava 40 e passa anni fa e non gliene frega assolutamente niente di mode, innovazione, originalità e tempo che passa, loro vivono sulla loro pelle e nel loro cuore quelle sonorità e tanto basta! Fatevene insomma una ragione, qui non c’è posto per le sonorità moderne, ma c’è solo e soltanto quel fottutissimo heavy metal che esplodeva negli anni ’80 grazie alla NWOBHM ed allo US-Metal. Le varie canzoni puzzano di fumo e whisky (o birra, se preferite), di giubbotti di pelle e borchie, di capelli cotonati e toppe colorate con i vari loghi delle bands preferite e più famose. La registrazione, fortunatamente, non è così “vintage”, anche se la batteria poteva essere trattata meglio (soprattutto il rullante ha quel fastidioso “effetto fustino del detersivo” che fa accapponare la pelle!). Se quindi amate queste sonorità old-school, questo disco potrà fare al caso vostro e potrete apprezzare la voce squillante ed acuta della singer Laura “Demons Queen” Coller, gli assoli dei due chitarristi ed il ritmo frizzante imposto dalla batteria di Corrado “Hellblazer” Menegatti, con il basso a pulsare in sottofondo; qualcuno di contro potrà chiedersi che senso abbia suonare ancora a questa maniera nel 2024, quando l’hanno già fatto in miriadi di gruppi da 40 anni a questa parte. La risposta è semplice: suoniamo la musica che amiamo e ce ne fottiamo di tutto il resto! Con questa filosofia, sicuramente riuscirete ad apprezzare anche voi i Sign of the Jackal ed il loro “Heavy metal survivors”.

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    22 Dicembre, 2024
Ultimo aggiornamento: 22 Dicembre, 2024
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Solitamente un live album esce dopo aver pubblicato qualche album da studio con un po’ di canzoni tra cui scegliere, invece gli americani Wings of Steel hanno deciso di autoprodursene uno, intitolato “Live in France”, praticamente all’inizio della propria carriera (la band è attiva da pochi anni), con solo un LP ed un EP alle spalle. Oltre al duo che costituisce la line-up ufficiale della band, si sa solo che tale Marcel Binder si è occupato della batteria, mentre la restante parte dei session-men non è stata resa nota (sia per il basso che per la seconda chitarra). Il disco è stato registrato al Le Splendid di Lille il 17 maggio 2024, ha il classico artwork della band con i due Pegaso in primo piano (ormai vere e proprie mascotte del gruppo) ed è composto da 8 tracce per una durata totale di poco inferiore ai 40 minuti. Non avendo da scegliere tra molti dischi, la scaletta è stata maggiormente incentrata sull’unico full-length (“Gates of twilight” del 2023) con le prime 4 tracce e la settima; dall’EP d’esordio (“Wings of steel” del 2022) invece troviamo le tracce 5 e 6 oltre alla conclusiva. Per chi non conoscesse questo gruppo (come il sottoscritto prima di questo live album), si sappia che suona un piacevole heavy metal, alquanto old-school, con qualche digressione nel melodic power; tutto molto orecchiabile quindi e ricco di melodia, con la voce del buon Leo Unnermark che cerca sempre di raggiungere (spesso con successo) le note più alte del pentagramma, mettendo in evidenza una non indifferente potenza. Personalmente ho apprezzato maggiormente “Cry of the damned” e “Gates of twilight”, anche per via della presenza di piacevoli parti soliste di chitarra e basso; forse avrei puntato più sul ritmo ed avrei evitato di piazzare in scaletta ben due ballads (“She cries” e “Liar in love”) ma, come detto, non avendo da scegliere su tanto materiale, evidentemente non c’era molto altro da inserire. Si tratta comunque di un disco di breve durata, piacevole da ascoltare e che può permettere di scoprire questi Wings of Steel, gruppo dotato sicuramente di buone potenzialità. Vedremo cosa riserverà loro il futuro dopo questo “Live in France”, magari con una line-up completa…

P.S. Come comunicato dalla stessa band, nel live hanno suonato anche Stefan Bailet (chitarra ritmica) e Mathieu Trobec (basso).

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    21 Dicembre, 2024
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I Tailor's Wave sono un gruppo nato a novembre 2020 dall'incontro del polistrumentista Samuele Sarti con il singer Rik Forsenna (Tombstone); da allora è stata completata la line-up e sono stati rilasciati ben tre full-lengths, di cui questo “Ajna” è l’ultimo, uscito su Wanikiya Record ad inizio ottobre e con un artwork sinceramente rivedibile. Lo stile musicale del gruppo fiorentino è un thrash metal fortemente ispirato ai Megadeth, ma soprattutto agli Annihilator, senza però che ci sia la fantasia chitarristica di gente come Jeff Waters o Kiko Loureiro. In mezzo a questo thrash, però, ogni tanto i toscani piazzano delle sorprese: mi riferisco ad esempio all’attacco di “Kill him” che ci porta in una chiesa con canti liturgici, ma soprattutto alla conclusiva “Suddenly love”, brano letteralmente spiazzante e completamente differente, anni luce distante dal thrash, ma che sembra una canzone di David Bowie, in cui persino il singer utilizza uno stile canoro del tutto diverso che non può non ricordare il mitico Duca Bianco; stessa sensazione che si ha nella parte centrale di “Silent memories”, proprio per via di questo approccio canoro più meditato e sicuramente più interessante del solito screaming ormai iper-abusato. Non so se queste diversità possano, o meno, giovare alla band, ma obiettivamente servono a variare la proposta musicale e possono anche indicare una via maggiormente personale che permetta di non ripercorrere gli stessi stilemi che in tanti hanno tracciato dagli anni ’80 a questa parte. Già, perché il resto delle canzoni, seppur gradevoli per un qualsiasi thrasher, alla fin fine convincono fino ad un certo punto, forse anche perché non c’è una traccia che spicchi sulle altre, ti faccia subito sbattere il capoccione e valga da sola l’acquisto del cd. Ho ascoltato e riascoltato questo disco più e più volte, alla ricerca di quella scintilla che potesse far battere il cuore più forte ed emozionare questo vecchio thrasher cresciuto a pane ed Annihilator (come penso abbia fatto lo stesso Samuele Sarti), ma arrivavo sempre alla fine con un po’ di amaro in bocca, come se la band fosse tipo il classico studente dalle ottime potenzialità ma che non si impegna abbastanza. Sinceramente non so spiegare meglio questa sensazione, perché obiettivamente questo disco è sicuramente ben fatto, ma credo che i Tailor’s Wave abbiano tutte le qualità ed il talento per fare molto meglio di così. Questo “Ajna” comunque strappa una più che meritata sufficienza.

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    21 Dicembre, 2024
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I Lastera si formano a Copenhagen nel 2021 dalle ceneri dei Downfall, gruppo nato come progetto solista del batterista Emil Frøsig che nel decennio precedente aveva realizzato due full-lengths; lo stesso Emil si porta dietro dai Downfall il valido singer Oliver Svensson in questa nuova band che finora aveva realizzato una certa quantità di singoli ed il debut album “From the ashes” nel 2022, prima di autoprodursi questo EP intitolato “Rapture to ruin”, con l’aiuto del famoso produttore Jacob Hansen (Amaranthe e Volbeat, tra i tanti). Ci troviamo davanti ad un concept fantasy (scritto dal bassista Kristoffer Koudahl), diviso in 5 pezzi per la durata totale di quasi 26 minuti; si tratta, quindi, di canzoni dal minutaggio non breve, come spesso accade nel prog/power come quello suonato dai danesi. Il songwriting è dunque alquanto complesso e non proprio easy-listening, dato che i vari musicisti mettono in mostra tutta la loro perizia tecnica, con scale, assoli e virtuosismi vari; accanto alla voce pulita e squillante dell’ottimo Svensson, si ascoltano anche delle harsh vocals che sinceramente disturbano alquanto, anche se fortunatamente sono abbastanza limitate. Il ritmo è poi molto veloce, grazie ad una doppia-cassa sparata spesso a velocità folli dal leader della band, anche se onestamente trovo eccessivo il blast-beat del brano conclusivo “Bloodline”. Vi sono poi diversi tocchi sinfonici (soprattutto nella quarta traccia “Displaced by dark”, proprio per questo forse la migliore del lotto) che non dispiacciono assolutamente, ma anzi innalzano il livello. Ho ascoltato e riascoltato sempre con piacere, più e più volte, questo disco, dato che obiettivamente è ben fatto e ben suonato e sicuramente molto meglio della stragrande maggioranza di certa roba che ci viene propinata quotidianamente da tante labels (anche importanti, purtroppo), vere e proprie immondizie musicali! Continuo sempre a sorprendermi quando poi invece dischi e gruppi di simile valore restano confinati nell’underground più profondo e costretti all’autoproduzione, ma la miopia del music business e l’ignoranza delle masse sono ormai fatti assodati. Le cinque canzoni di questo EP sono tutte di valore qualitativo superiore alla media e non c’è una che spicchi, sia in senso negativo che positivo (a parte la già citata quarta traccia), proprio perché appunto sono tutti componimenti piacevoli e davvero validi. Se siete appassionati del prog/power, non fatevi sfuggire questo “Rapture to ruin” dei danesi Lastera, perché è sicuramente meritevole di ogni attenzione. Se poi la band saprà evitare certe tentazioni musicalmente estreme, in futuro sono sicuro saprà fare ancora meglio!

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    15 Dicembre, 2024
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Nel corso della storia degli Helloween sono parecchi i live album (soprattutto negli ultimi anni), ed eccoci a parlare del nuovo live delle zucche amburghesi, intitolato “Live at Budokan” e girato nello storico locale giapponese per lo show conclusivo del tour 2022/2023. Il disco è composto da 15 tracce per quasi due ore di musica che va ad esplorare soprattutto la parte più vecchia della carriera degli Helloween, senza dimenticare qualche brano più recente, come il singolo del 2022 “Best time”. Non possono mancare canzoni storiche come “Eagle fly free”, “Future world”, “Save us”, “Forever and one”, “Keeper of the seven keys”, “Dr. Stein” ed “I want out”, oltre ad un medley di circa ¼ d’ora di pezzi cantati da Kai Hansen risalenti alla primissima parte della carriera della band. Personalmente non avrei dimenticato la mitica “March of time”, magari eliminando quella canzonetta di “Perfect gentleman” (brano che ho sempre odiato!), ma si tratta di parere strettamente personale. Si tratta dunque di una festa per i fans del power metal, che potranno dilettarsi ascoltando pezzi di storia di questo genere musicale. Il disco ha durata importante, anche perché ci sono parecchie parti discorsive, quando i due cantanti si interfacciano con il pubblico giapponese, sempre molto reattivo e coinvolto. La prestazione dei singoli musicisti, inutile dirlo, è semplicemente maiuscola, anche se la parte del leone la fa Michael Kiske anche semplicemente per il fatto che la maggior parte dei pezzi risalgono al periodo d’oro in cui non c’era ancora Andi Deris che comunque dimostra ancora una volta, come se ce ne fosse bisogno, di essere un singer di indubbie qualità. Oltre alla versione su doppio-cd (o triplo vinile), esiste anche quella in dvd o blu-ray con l’identica tracklist, ma con in aggiunta le immagini video, parte delle quali possono essere gustate nei tre video ufficiali rilasciati dagli Helloween. Se, dunque, siete collezionisti dei dischi di questo gruppo storico, anche questo “Live at Budokan” non dovrà assolutamente sfuggirvi; in caso contrario, sappiate che si tratta pur sempre di un’operazione commerciale, dato che solo cinque anni fa era uscito un altro live album con questa stessa formazione e con una tracklist non troppo differente…

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    14 Dicembre, 2024
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Sono passati ben nove anni dal debut album “My own truth”, tempo in cui ai greci Sunlight sono successe diverse cose, a partire da una sorta di rivoluzione nella line-up con i soli Makis Kaponis (chitarra) e Panos Anastopoulos (tastiere) rimasti della formazione originale e ben tre nuovi membri entrati poco prima dell’uscita di questo nuovo full-length. Il secondo disco del gruppo di Atene (attivo dal 2009) si intitola “Son of the sun”, è dotato di piacevole artwork (di cui non è noto l’autore), è composto da 9 tracce per quasi ¾ d’ora di durata totale ed è stato registrato tra giugno 2019 e dicembre 2023. Le registrazioni sono quindi state eseguite dalla line-up sotto riportata, mentre i tre nuovi entrati, Manos Karachalios, Andreas Kalogeras e Mike Karasoulis, hanno preso il posto rispettivamente di bassista, batterista e cantante. Normalmente una formazione variabile potrebbe destabilizzare ed incidere pesantemente sul songwriting, ma non è questo il caso dei Sunlight, dato che questo album si lascia ascoltare gradevolmente, grazie anche proprio ad un songwriting ben fatto e più compatto che in passato. Se nel primo disco, infatti, potevamo ascoltare diverse digressioni hard-rockeggianti, in questo nuovo lavoro la componente power metal, seppur nella sua versione più melodica, è decisamente preponderante e qualche tocco più leggero lo possiamo sentire solamente nella ballad “Secret of silence” ed in pochissimi altri momenti qua e là nella tracklist, soprattutto grazie alle tastiere dell’ottimo Panos Anastopoulos. Le varie canzoni, come detto, si fanno ascoltare in maniera piacevole, a patto di essere appassionati di queste sonorità; tra di esse, segnalerei l’ottima opener “Son of fire” (non a caso scelta per un singolo uscito a novembre), la robusta “Echoes of hope” furbamente piazzata dopo la predetta romantica ballad; ma anche la veloce e ruffiana “Can’t let you go”, fino alla conclusiva ed orecchiabile “Sunrise”, che suggella degnamente il lavoro. A voler essere pignoli, non mi ha fatto impazzire la voce del singer Dimitris Giannakopoulos, forse un po’ troppo nasale ed apparentemente non particolarmente potente; si spera quindi che il nuovo innesto (Mike Karasoulis) abbia una voce più squillante e con maggiore potenza. Non resta molto da aggiungere, se non che la produzione dei Devasoundz Studios è valida e consente di apprezzare tutti gli strumenti nella giusta maniera. In conclusione, questo “Son of the sun”, uscito per l’ucraina Total Metal Records, permette ai greci Sunlight di ritornare sulla scena con un lavoro certamente apprezzabile; staremo a vedere se i vari cambiamenti di formazione daranno stabilità e spinta, impedendo al gruppo di sparire nuovamente nell’oblio.

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