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Opinione scritta da Luigi Macera Mascitelli

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    14 Ottobre, 2022
Ultimo aggiornamento: 14 Ottobre, 2022
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Quella dei tedeschi Firtan è una carriera a dir poco brillante: nonostante consti solamente di tre album - tra cui quest'ultimo "Marter" - ci ha mostrato una band in costante crescita, sempre alla ricerca di nuovo materiale per stratificare ed ampliare ancora di più la proposta, senza tuttavia sfociare nella proverbiale troppa carne sul fuoco. Dicevamo di "Marter", la terza fatica firmata AOP Records che giunge dopo quattro anni dal più che ottimo "Okeanos", l'album che segnò un parziale allontanamento dalla vena Pagan Black feroce in favore di un approccio più Avant-garde, folkloristico e costantemente spennellato di sentori Post Black in stile Harakiri For The Sky. Non un vero e proprio punto di rottura dunque, ma sicuramente un capitolo che diede il via alla ricerca di un'identità ancora più forte ed incisiva che in questo "Marter" trova la sua massima espressione. Potremmo concludere qui dicendo che siamo di fronte ad un capolavoro, ma proviamo comunque a dare un'idea di quello che andrete ad ascoltare.
Si diceva più su come quello dei Firtan sia un Black Metal affatto convenzionale - almeno per chi lo vede ancora con gli occhi della Norvegia degli anni '90 -, costituito da un'insieme di tante piccole pietruzze che insieme formano un caleidoscopio stilistico ampio ma mai dispersivo. Ecco, immaginate la possente fierezza dei Windir con la disperazione elegante degli Harakiri For The Sky e velate pennellate Alcest e progressive. Il tutto - scontato dirlo - suonato senza mai scadere nella mera emulazione; piuttosto è questo il caso di un perfetto uso di strumenti già noti usati per creare qualcosa di completamente nuovo. Ecco perché i Firtan si fanno amare: nella loro estrema eterogeneità c'è un nocciolo comune ed un focus che rendono l'ascolto emozionante, da pelle d'oca; dalle sfuriate di disperata follia e tristezza come in "Labsal" a vere e proprie lacrime messe in musica come in "Amor Fati" che molto deve all'influsso degli islandesi Sólstafir. Dagli armoniosi arpeggi fino alle tinte oscure che richiamano la vecchia scuola, il quintetto mantiene comunque una classe ed una teatralità quasi reverenziali riuscendo perfino a sfociare, come in "Lethe", nel Death Metal, ma sempre e comunque con eleganza e cognizione di causa. Musicalmente parlando, dunque, i Firtan hanno ulteriormente alzato l'asticella della loro proposta con un sound estremamente complesso ma a modo suo lineare e mai forzato; binomio, questo, che è la vera chiave di volta di "Marter" che va di pari passo con il tema trattato: l'individuo nelle sue infinite sfaccettature esistenziali che oscillano tra la disperazione del fallimento e la speranza della salvezza. Insomma, tutto è perfettamente in linea con la musica proposta. Se tutto ciò verrà portato esattamente così com'è in sede live, beh, signori miei, saremo davanti ad una giovane quanto sorprendente rivelazione.

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    14 Ottobre, 2022
Ultimo aggiornamento: 14 Ottobre, 2022
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Ci scusiamo enormemente per il ritardo con cui arriva questa recensione; soprattutto in questi casi quando ti capita tra le mani la cosiddetta perla rara. Di chi stiamo parlando? Dei Gold Spire: band svedese formatasi ad Uppsala nel 2019 per mano dei fratelli Erik e Påhl Sundström, entrambi ex-Usurpress. Due personalità, dunque, di certo non nuove nel panorama Metal e con un discreto curriculum alle spalle. A seguire, poi, abbiamo Heval Bozarslan dei Sarcasm alla voce e, udite udite, un bassista ed un sassofonista non Metal a completare la line up: rispettivamente Petter Broman e Magnus Kjellstrand. Insomma, sulla carta una band che fa dell'eterogeneità il suo punto forte e la colonna portante della proposta musicale dei Nostri che potremmo quasi definire come il punto di incontro di ciascun membro. Ovviamente sarebbe una lettura eccessivamente semplicistica di quella che, al contrario, è una vera e propria opera d'arte di incommensurabile bellezza nella quale Death Metal, Jazz, Progressive, Doom e qualche sferzata gotica danzano e si uniscono creando la magia. Questo "Gold Spire" è uno degli album più extrasensoriali che il sottoscritto abbia mai ascoltato in anni di Metal, e non tanto per la proposta in sé che fa dell'uso preponderante delle tastiere e del sax una sua caratteristica - entrambi strumenti ampiamente sdoganati nel Metal oggigiorno -. Piuttosto ciò che rende la band svedese veramente degna di nota è l'esecuzione vera e propria e la conseguente armonia che si viene a creare minuto dopo minuto. Da qui si intuisce l'enorme preparazione di ciascun membro e soprattutto il salto di qualità dato dal bassista e dal sassofonista coinvolti che non provenendo dal Metal hanno dato a tutta l'opera un'impostazione quasi classica, più da esperienza mistica che da botta di adrenalina vera e propria. Inoltre c'è da dire che laddove la piega del disco verte maggiormente sul Death - vedasi "Skull Choirs - la vena Ulcerate e Deathspell Omega viene fuori subito, a testimonianza di come i Nostri abbiano volutamente dato alla loro creatura un'impostazione Avant-garde fin da principio e non delle pennellate qua e là che ne ricordano gli stilemi. Detto altrimenti: "Gold Spire" è un album studiato e creato per portare l'ascoltatore su di un'altra dimensione nella quale i suoni si mescolano ed mandano in frantumi le sinapsi. Il tutto, dicevamo, suonato con una gran classe, altro fattore che ha determinato la piena riuscita del disco. Minuto dopo minuto, infatti, ci si rende conto di come le numerosissime influenze - a volte diametralmente distanti tra loro - qui riescano a legarsi perfettamente. In nessun caso si avverte quel senso di rottura o stonatura tra le parti, e stiamo parlando di un'opera nella quale il vero protagonista è il sax ed il Death Metal è quasi secondario, perciò immaginate quanto sia difficile rendere ogni brano scorrevole e perfettamente inserito nel contesto. Ecco, i Gold Spire ci sono riusciti egregiamente: equilibrati in ogni aspetto, senza eccedere in sterili prove tecniche o in noiose litanie. Al contrario, rimarrete incollate alle cuffie - ovviamente scontato dire che un disco di questo calibro vada gustato in un certo modo -. Teneteli d'occhio, potrebbero diventare il nome di punta di questo modo di intendere il Death Metal.

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    10 Ottobre, 2022
Ultimo aggiornamento: 10 Ottobre, 2022
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Bryan Eckermann: un nome una garanzia, c'è poco da fare; e con questo autoprodotto "Plague Bringers", ottavo capitolo della sua più che prolifica carriera, abbiamo la dimostrazione concreta di come anche un progetto solista di questo calibro possa essere estremamente interessante. Ciò che il buon Bryan ci propone è sicuramente qualcosa che non rivoluziona il mondo della musica, ma allo stesso tempo va riconosciuto che il modo di proporlo fa fare al Nostro il salto di qualità: un Black melodico tinteggiato qua e là dal sentore Dissection/Old Man's Child, ma inserito prepotentemente in un contesto Death Metal vicino a gente come Arch Enemy, Death, Hypocrisy, Mors Principium Est e Children Of Bodom. Soprattutto di questi ultimi due il progetto solista ne è parecchio influenzato per quanto riguarda l'abbondanza di sezioni soliste. D'altronde era scontato che un disco composto da un solo artista contenesse molte parti in cui cimentarsi in assoloni. Tuttavia c'è da dire come la musica di Eckermann sia piuttosto equilibrata, tant'è che ad un primo ascolto sembra tranquillamente di trovarsi di fronte ad un album di una band completa. Ed è forse questa la qualità che più ci ha colpito dell'artista americano: il fatto di essere tutto sommato eterogeneo ed improntato a dare risalto alla musica anziché sciorinare una sterile mole di tecnicismi fini a se stessi. Si va dunque dalle ballad meravigliose come "Reflections in a Dirty Mirror", o alle litanie che sanno di Insomnium e Dissection come in "Moonlight and Frostbite". Insomma, non siamo certamente di fronte al capolavoro dei capolavori; ma non si può nemmeno dire che Mr. Eckermann rientri nella media. Diciamo quindi che questo "Plague Bringers" è un disco ben al di sopra delle aspettative e che nel suo essere classico offre dei buonissimi spunti e ben oltre un'ora di ricchissima musica. Consigliato

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2.5
Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    04 Ottobre, 2022
Ultimo aggiornamento: 04 Ottobre, 2022
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Sexmag: un nome che più sconosciuto non si può. Trattasi di una band appartenente al sottobosco più underground del panorama Death/Thrash polacco, con all'attivo un solo EP, "Sex Metal", del quale vi parleremo. In realtà non c'è molto da dire in merito, trattandosi di un lavoro che sprizza vecchia scuola da ogni particolare, a cominciare dalla copertina che sembra fuoriuscita da una locandina di qualche film inedito di Dario Argento. Comunque sia i Nostri propongono un Death/Thrash Metal figlio di gente come Exodus, Sepultura, Slayer, Sarcofago, Possessed e compagnia bella. Insomma, avete capito perfettamente le coordinate stilistiche entro cui inquadrare i Sexmag. Ora, per non tirarla troppo per le lunghe, sono fondamentalmente due i punti che non ci hanno convinto: la pessima voce e un songwriting piuttosto basico e scontato. Veniamo al primo punto su cui in realtà non c'è molto da dire: la prestazione canora è a dir poco imbarazzante. Il vocalist è sfiatato e tenta miseramente di imitare lo stile canoro del compianto Paul Baloff degli Exodus con risultati più che scarsi. Per quanto riguarda il secondo punto c'è da dire che di base le idee sono anche buone, e tutto sommato il dischetto fila liscio. Tuttavia ogni traccia, per quanto feroce e spaccaossa possa essere, è decisamente troppo scontata: laddove ti aspetti arrivi un determinato passaggio ecco che arriva. Volendo sorvolare questo punto e cercando di apprezzare anche il valore old school dato dalla produzione low-fi da anni '80, i Sexmag si presentano con una certa verve che sicuramente si riflette nel loro EP. Ma con una voce del genere, dispiace dirlo, non andranno da nessuna parte.

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    04 Ottobre, 2022
Ultimo aggiornamento: 04 Ottobre, 2022
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Debutto assoluto per il duo norvegese Phantom Fire con questo "The Bust of Beelzebub", licenziato da Edged Circle Productions. Black/Speed Metal feroce ed old school come se piovesse: questa la proposta dei Nostri, che, al netto di quelle che sono le coordinate stilistiche che tutti conosciamo, riesce comunque a fare la sua buona figura. Qualità che sicuramente è merito dei singoli componenti della band, già navigati e perfettamente inseriti nella scena Black norvegese -Eld è il bassista dei Gaahls Wyrd, per dire-.
Comunque sia, i Phantom Fire si muovono all'interno di territori ampiamente conosciuti che fanno capo a gente come Darkthrone, Venom, Midnight e quella costante Black'n'Roll tipica dei Taake. Insomma, potremmo dire che i Nostri abbiano riportato sotto una luce molto più oscura e maligna il retaggio dell'Heavy Metal Motorheadiano. Eppure, proprio quando sembra che il disco sia perfettamente avviato verso il suo punto focale ecco arrivare la traccia "Pihsrow" a ribaltare completamente la situazione. Da qui in poi il duo inizia a strizzare l'occhio alle sonorità horror degli anni '80-'90 con campionamenti e sintetizzatori. Ecco dunque che il disco prende una piega molto più Doom e psichedelica, quasi ipnotica, salvo poi ritornare verso la Norvegia più feroce e caciarona con "Feed On Fire", che con il suo sentore catchy è perfetta da sparare in macchina a tutto volume; qui siamo proprio in territorio Heavy Metal britannico senza se e senza ma. Insomma, se sulla carta siamo di fronte ad un album per certi aspetti originale nella proposta, lo stesso non può dirsi sul versante della personalità: più volte infatti si ravvisa un andamento fin troppo standard e preconfezionato; da un lato i pattern funzionano, ma dall'altro si scade inevitabilmente nella mediocrità in questo costante saliscendi. Quindi, se siete proprio fan del genere allora il duo di Bergen potrebbe regalarvi una gustosa mezz'ora di buon Black Metal, altrimenti potete passare avanti senza troppe ferite.

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4.5
Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    03 Ottobre, 2022
Ultimo aggiornamento: 03 Ottobre, 2022
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Il Black Metal è probabilmente - gusti personali a parte - il genere che più di tutti riesce a penetrare in profondità nell'animo umano e a portare a galla sentimenti, emozioni e stati d'animo molto spesso ritenuti perfino innaturali. Soprattutto i filoni più moderni del genere, in particolare Post-Black e Blackgaze, si concentrano maggiormente sulla potenza evocativa della musica combinando la cruda ferocia del genere con una disperata quanto languida e triste melodia. Questo ossimoro apparentemente insolubile è invece fonte di tanta, tantissima pelle d'oca, poiché diventa persino indescrivibile il ventaglio di sensazioni che si riescono a provare. Ecco, gli austriaci Ellende, one man band creata dal mastermind L.G. undici anni fa, riescono perfettamente in questo intento proponendoci una musica che negli anni è diventata sempre più riconoscibile e stratificata tanto che, ad oggi, assieme ai loro connazionali Harakiri For The Sky possono essere considerati tra le più importanti realtà del Post-Black Metal. A testimonianza di quanto affermato subentra "Ellenbogengesellschaft", quarta meravigliosa opera firmata Lukas Gosch e probabilmente la più bella, stratificata ed emotivamente potente di tutta la sua carriera. Mai ci saremmo potuti aspettare un qualità di questa portata, considerando anche lo strepitoso lavoro svolto con i capitoli precedenti. Eppure il buon L.G. è riuscito nell'intento di regalarci un viaggio ultraterreno nel quale la tristezza, la gioia, l'amore, l'odio, la disperazione e la spensieratezza si uniscono in un solo piano esistenziale senza che ogni singola componente si possa riconoscere. "Ellenbogengesellschaft" è esattamente quel tipo di album che metti in cuffia al buio o quando passeggi nei boschi e vuoi isolarti completamente dove nessuno può vedere le lacrime uscirti dagli occhi. Non è un caso, tra l'altro, che nel brano "Ruhelos" sia presente proprio il vocalist degli Harakiri For The Sky, come a voler testimoniare che le due realtà siano imprescindibili nel bagaglio culturale di chi ama questo genere. Andando più in profondità in questi 50 minuti di ascolto, possiamo notare come la musica degli Ellende tenda ad avere sempre quella vena più morbida e meno spigolosa; lavoro reso possibile dalla costante presenza del pianoforte e delle tastiere che alleggeriscono la sferzata morente delle chitarre. Di contro queste ultime ci offrono uno spettro compositivo notevole: dall'incanto degli arpeggi alla teatralità dei riff più dal sapore Black fino alle struggenti melodie in acustico... Una potenza evocativa che raramente la s'incontra in un disco, soprattutto se è sempre costante quel sapore Progressive che dà all'ascolto il suo fascino ipnotico ed imprevedibile, come se da un momento all'altro ti aspetti un determinato passaggio, ma poi ne giunge un altro. Ecco, giocando su questo mood altalenante L.G. è riuscito ad imbastire un'opera d'arte di una bellezza indescrivibile nel quale la struggente tristezza di sottofondo fa da contraltare ad un'eleganza e teatralità quasi regali. Eppure ciò che resta alla fine è l'angoscia d'aver concluso il viaggio, colmi di lacrime e con la voglia di ripeterlo ancora e ancora in un loop infinito nel quale poter scorgere le infinite sfaccettature che gli Ellende hanno da offrirci. E forse è questa la capacità più grande che va riconosciuta alla band: l'estrema eterogeneità che, tuttavia, punta sempre e comunque verso un'unica direzione, come un veliero distrutto che continua incessante verso la sua rotta...la bellezza del nulla. Complimenti!

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    03 Ottobre, 2022
Ultimo aggiornamento: 03 Ottobre, 2022
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Atmosfere tetre, freddo glaciale, voce mortifera ed eterea come un'eco lontana... la morte come qualcosa di tangibile e non ultraterreno. Temi che, presi in assoluto all'interno di un disco potrebbero tranquillamente non suscitare chissà quale clamore; soprattutto se si parla di Black Metal. Tuttavia non è tanto il cosa, quanto il come queste tematiche vengano proposte a fare la differenza tra un lavoro mediocre o nella media ed un capolavoro. Ecco, oggi siamo - fortunatamente - in quel rarissimo secondo caso con il qui presente "Lagu": quarto album dei francesi Caïnan Dawn che, senza giri di parole, sono tra le migliori band a proporre un certo tipo di Black Metal. Degni eredi del collega d'Oltralpe Esoctrilihum, i Nostri portano in musica qualcosa di estremamente sfuggente: un mix di sperimentazioni, sferzate Avant-garde e sfuriate Raw sorrette da una maligna quanto ben percepibile atmosfera di sottofondo che eleva il tutto su di un altro piano esistenziale. Forse l'unico aggettivo per descrivere "Lagu" è "ipnotico"; a cominciare dalla copertina che ritrae un vasto oceano al crepuscolo, come a voler dare all'ascoltatore un'idea già visiva di quanto andrà ad ascoltare: la pura contemplazione della morte nella sua forma più concreta e tangibile. Non si tratta, dunque, di un semplice viaggio astrale verso dimensioni lovecraftiane dove il terrore ed il male inghiottono ogni cosa. O meglio, non è solo questo. Nove tracce complesse, stratificate, maligne come delle litanie dimenticate nelle quali l'arte, la follia, l'eleganza e la morte danzano all'unisono portando lo spettatore in una sorta di trance uditivo dal quale si esce cambiati; forse più consapevoli della caducità della vita. A generare questo mortale flusso velenoso contribuisce un songwriting che sa essere scarno negli intenti ma estremamente stratificato nella sua esecuzione: ad un primo ascolto la musica dei Caïnan Dawn è fredda, resa tale dalle chitarre mortifere ed estremamente pungenti. Ma andando avanti ci si rende conto come questa sia solo la punta dell'iceberg. Minuto dopo minuto il comparto strumentale si apre mostrando costanti cambi di mood: arpeggi, tremolo, parti cadenzate... il tutto, ripetiamo, poggiante su uno spesso strato di nebbia morente dato dalle atmosfere e melodie di sottofondo che danno ai riff la nota spettrale ed elegante che rende "Lagu" il capolavoro che è; sicuramente superiore al già praticamente perfetto "F.O.H.A.T." del 2017. Questo, in definitiva, è uno di quei casi in cui è veramente impossibile riuscire a darvi un'idea di siffatta opera con le parole, semplicemente perché ogni orpello fisico sembra sgretolarsi di fronte alla bellezza del nulla che questo disco porta alla luce. Esattamente come Caronte porta Dante negli abissi più profondi dell'inferno, allo stesso modo i Caïnan Dawn con la loro spettrale bellezza trascinano per quasi un'ora di tortura e morte l'ascoltatore.

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    29 Settembre, 2022
Ultimo aggiornamento: 29 Settembre, 2022
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Giunge al suo sesto album con "Earth Penetration" la one man band finlandese Hail Conjurer, side project di Harri Kuokkanen, già vocalist degli Hooded Menace. Un disco, questo, che si configura come un'opera alquanto originale e sui generis. Se vi aspettavate il classico Black Metal finnico o comunque un genere tutto sommato riconoscibile entro certe coordinate, allora siete proprio fuori strada. Quella che andrete ad ascoltare una volta premuto il tasto "play" è una vera e propria tortura mentale: un mix allucinogeno e mortifero di Black Metal, Noise, Ambient, Doom Metal, urla, litanie... il tutto volutamente registrato in maniera scarna e scheletrica per dare maggior risalto alle chitarre zanzarose e al senso di smarrimento e morte che si respira per 35 minuti circa. Insomma, quella messa in musica da Mr. Kuokkanen è una blasfema orgia in cui lo sporco e il marcio si mischiano alla malattia mentale, riuscendo così a darci in pasto un disco che è Black Metal nelle intenzioni ma Doom - in senso lato ovviamente - nell'esecuzione. Potreste scorgere elementi degli ultimi Darkthrone, così come la vena Raw dei colleghi di casa Behexen o quel frangente dal sapore sperimentale dei Ride for Revenge; o, infine, quel tocco liturgico tipico dei Batushka e la vena Ambient degli ultimi lavori di Burzum. In ogni caso è evidente come il lavoro svolto solo in apparenza risulta caotico e senza senso; tuttavia riconosciamo come Hail Conjurer sia un ascolto tutt'altro che facile, dove la perdita del focus è sempre dietro l'angolo se non ci si concede quella mezz'ora di tranquillità per poter apprezzare ogni elemento dell'album. Da qui, dunque ne traiamo la conclusione che questo "Earth Penetration" sia un'opera veramente complessa e, spesso, così eterogenea da risultare quasi riduttivo inquadrarla in un filone musicale ben preciso. Quindi di certo non si tratta di un lavoro universalmente fruibile, ma qualcosa che si rivolge ad un pubblico piuttosto esigente o mentalmente aperto. A parte le tastiere mortifere, il senso claustrofobico e la malatissima voce dell'artista finlandese, non troverete altri punti di riferimento qui, se non l'angoscia di una lenta tortura che spegne ogni singolo barlume di vita.

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    23 Settembre, 2022
Ultimo aggiornamento: 23 Settembre, 2022
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Che i Venom Inc. fossero diventati nettamente superiori agli storici Venom del mastermind Cronos lo si era già intuito nel 2017. Proprio in quell'anno la band capitanata da Tony "Demolition Man" Dolan pubblicò il primo disco "Avé": un concentrato adrenalinico di purissimo Black/Heavy/Speed Metal old school suonato con una classe senza eguali. A confermare la questione, poi, fu proprio il disco uscito l'anno dopo dei Venom originali che risultò nettamente inferiore e molto più "caciarone": segno che molto probabilmente Cronos e soci si siano fin troppo adagiati su quello che, a buon diritto, è il sound da loro inventato ma che a conti fatti oggi non ha più presa; almeno non come quarant'anni fa. Insomma, quella che veniva considerata solo una costola degli originali Venom senza arte né parte alla fine si è rivelata essere una realtà tutt'altro che copia/incolla di quella originale e con un'identità tutta sua. Oggi, dunque, siamo qui per presentare questo magnifico "There's Only Black", secondo satanico sigillo che segna il ritorno dopo cinque anni del trio inglese sotto la sempre granitica egida di Nuclear Blast Records. Senza troppi giri di parole ci troviamo di fronte ad un vero e proprio capolavoro che trasuda old school da tutti i pori, MA con un approccio estremamente moderno e curato, tanto da risultare ferocissimo come una volta ma super godibile e scorrevole. Insomma, è ormai consolidato, sicuro, cristallino e inoppugnabile come Demolition Man e soci siano una band che ha saputo mantenere fede alle proprie origini, ma allo stesso tempo ha sviluppato una linea tutta sua. Il processo, infine, ha portato alla luce questo secondo fenomenale disco, che definire adrenalinico e feroce sarebbe perfino riduttivo. Innanzitutto la novità più importante è l'abbandono del leggendario Abaddon sostituito dal nuovo batterista War Machine che, diciamolo subito, non ha sfigurato minimamente in questa sua prima prova dietro le pelli. A seguire, poi, il micidiale Mantas, colui che scrisse il leggendario riff di "Black Metal", con tutte le conseguenze che seguirono dopo quel fatidico 1982. Un chitarrista che si è rivelato a dir poco sbalorditivo e soprattutto affatto relegato ad un copia/incolla dei suoi vecchi fasti. Al contrario: la sua ascia nei Venom Inc. si è evoluta enormemente abbracciando il classicissimo approccio Motorhead, Venom e Sodom e soluzioni molto più moderne che non disdegnano pennellate melodiche, arpeggi e assoli ben strutturati. Che si tratti della micidiale opener "How Many Can Die" o alla simil ballad "Burn Liar Burn", Mr. Mantas ha saputo imprimere in questo disco tutto il suo ventaglio di conoscenze in un modo a dir poco notevole. Tradotto: non siamo di fronte a qualcosa di scontato che ti aspetteresti da una band di questo calibro. Al contrario "There's Only Black" è un lavoro molto più complesso e stratificato di quanto si possa pensare e non un semplice specchietto rivolto agli anni '80. A coronare il tutto, infine, il mitico e cattivissimo Demolition Man al basso e alla voce, il vero sigillo infernale dei Venom Inc. con le sue corde vocali forgiate nel metallo più nero. Una performance canora che riconosceresti tra un milione che deve tutto al compianto Lemmy per lo stile così scabroso ma al contempo intonato.
Potremmo stare qui ancora a tessere le lodi dei Venom Inc. ma ci limitiamo a far notare come anche un disco molto più "classico" sarebbe comunque stato eccezionale. Eppure i Nostri non si sono accontentati preferendo invece saltare oltre l'ostacolo e proporci qualcosa di nettamente superiore alle già più rosee aspettative che avevamo. Quindi, che siate fan die hard della vecchia scuola o delle nuovissime leve alle prime armi con l'Heavy Metal, questo secondo album del trio inglese DEVE assolutamente far parte del vostro bagaglio culturale. Complimenti!

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    21 Settembre, 2022
Ultimo aggiornamento: 21 Settembre, 2022
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Iniziamo e chiudiamo la recensione con una domanda: ma il senso di questo EP quale sarebbe? Ora, per dovere è nostro compito fornire qualche spiegazione in più, perciò vediamo il perché di questa domanda. Oggi parleremo di una nostra vecchia conoscenza, la one man band inglese Foul Body Autopsy, progetto nato dalla mente del mastermind Tom Reynolds e dedito, inizialmente, ad un Thrash Metal tinteggiato di Melodic Death e Death piuttosto interessante e ispirato al maestro dell'horror George A. Romero. Almeno così è stato fino al 2018, anno del secondo e - per ora - ultimo disco. Dopo tre anni l'artista torna con un EP, questo "Shadows Without Light - Part One" - più la seconda parte nel 2022, dato che il lavoro in questione è del 2021; scusate il ritardo - che ci presenta la band sotto tutt'altra luce: Melodic Death nella sua forma più pura totalmente imbevuta di Soilwork, Dark Tranquillity e Insomnium. Un trittico che si riflette nell'unica traccia presente che si rivela essere davvero interessante e ricca di elementi. Allora perché la domanda iniziale? Semplice: le altre due tracce sono dei remix terribili della prima e basta. Quindi, siamo di fronte ad un EP che in realtà è un singolo brano; da qui la domanda: ma il senso quale sarebbe, dato che anche la seconda parte del disco segue lo stesso schema?

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