Opinione scritta da Luigi Macera Mascitelli
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Ultimo aggiornamento: 22 Ottobre, 2023
Top 10 opinionisti -
Tornano dopo cinque anni di assenza i modenesi The Modern Age Slavery, nome importante italiano nella scena Metal europea, soprattutto per la proposta estremamente moderna che unisce il Deathcore con una ferocissima componente Death Metal, il tutto condito da orchestrazioni elettroniche che molto si avvicinano alle colonne sonore dei moderni sparatutto, Doom in primis. Ebbene, i Nostri hanno deciso ancora una volta di rinnovarsi, questa volta prendendo maggiormente in considerazione la componente Death - in primis Fleshgod Apocalypse - e quella Blackened che potrebbe ricordare i Behemoth: il risultato è "1901: The First Mother", l'album che forse più di tutti ci presenta la band nella sua forma più smagliante, con un costante saliscendi di elementi che danno vita ad un disco di pregevolissima fattura. Adrenalina e velocità sono probabilmente i due elementi che maggiormente danno vita ai quasi 40 minuti dell'intero lotto di tracce, con un'attenzione sempre presente alle orchestrazioni che si stagliano e di botto si interrompono lasciando spazio a parti super cadenzate da spaccare il collo. Una modernità di sound che non disprezziamo affatto, soprattutto perché non risulta finta e confezionata in larga scala; tradotto: il quintetto ci mette sempre del suo non sfociando mai nel citazionismo fine a se stesso o comunque in stilemi troppo noti. Al contrario la band sa muoversi con degli elementi certamente conosciuti ma non per questo abusati. Insomma, siamo di fronte ad un'opera granitica senza cadute di stile e che ci presenta un gruppo fresco ed in salute. Ottima infine la scelta di non sforare troppo con la durata delle tracce, che probabilmente in un contesto simile sarebbe potuto risultare di difficile digestione.
Ultimo aggiornamento: 22 Ottobre, 2023
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Quella che andiamo a presentare oggi in sede d'esame è una band che ci ha besso ben 29 anni per tirare fuori il primo album: stiamo parlando degli statunitensi Gaffed, che dopo due demo ed un quasi trentennio di silenzio, riesumano la loro creatura con il qui presente "Die Already". Un disco che si rivolge senza fronzoli agli amanti delle frange più feroci del Death, quelle che trasudano Dying Fetus e Suffocation da tutti i pori; e tanto basta a Bob Luft e soci per ritornare in superficie dopo tutto questo tempo. In realtà ciò che andremo ad ascoltare è esattamente ciò che ci si aspetterebbe da un album con un curriculum di cui sopra: puro e semplice Brutal Death che si anima di tantissime parti groove - a tratti potrebbe quasi sfociare nello Slam - per poi esplodere in cavalcate blastate e tiratissime. Tuttavia, se da una parte l'album sembra scorrere anche bene, senza chissà quali guizzi di genio, dall'altra ci tocca far notare una certa carenza di energia, come se ogni brano cercasse di esplodere senza mai effettivamente arrivare all'apice, fermandosi un passo prima. Sarà la produzione che ci è sembrata un po' secca o comunque poco in linea con i tempi di oggi, sarà anche questa sovrabbondanza di decelerate; sta di fatto che i Nostri si comportano sicuramente bene a livello compositivo - son comunque trent'anni che i Gaffed esistono - ma il tutto ci sembra fermo al livello scolastico del genere, con poche frecce nella faretra degne di nota, come l'ottima "Perverse Exhumation", a detta nostra la migliore del lotto.
Ultimo aggiornamento: 03 Settembre, 2023
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È una recensione non facile quella che andremo a stilare in questa puntata: da un lato infatti saremmo tentati di lasciarci andare ai sentori nostalgici e di fan incalliti dei Sepultura dicendo quanto questa versione di "Morbid Vision" del 1986 riregistrata dai fratelli Cavalera sia una figata colossale; dall'altro invece, tornando con i piedi per terra, ci viene da chiederci se ci fosse davvero bisogno di un restyling di uno dei dischi più iconici che ha dato gli albori al genere Thrash/Death. Andiamo con ordine. Sarebbe sciocco se dicessimo che questo nuovo parto in casa Cavalera non sia stato di gradimento. Poter (ri)sentire pezzi iconici come "Troops of Doom", "Morbid Visions" e compagnia bella in chiave moderna, con un sound molto più corposo ed una maturazione stilistica superiore di trent'anni è tanta, tantissima roba. Complice anche la voce del mitico Max, che con il suo piglio molto più hardcore - vedasi anche i live dei Cavalera Conspiracy e Soulfly - rende i brani davvero macabri e ferocissimi. Idem per la sezione ritmica ad opera del fratello Iggor, una garanzia totale da sempre. Aggiungiamo, come dicevamo, una produzione al passo con i tempi ed il gioco è fatto. Potremmo dire un centro pieno ad una distanza pari a zero. Detto in altri termini: mettere in mano ai fratelli Cavalera una loro stessa produzione di trent'anni fa è come bere un bicchiere d'acqua, risultato perfetto garantito. Ma dall'altro lato ci chiediamo se davvero ci fosse bisogno di una mossa simile: perché dare una seconda vita, per così dire, ad un disco che di seconde vite non ne aveva per niente bisogno? Mi direte la produzione forse, ma ricordiamo che negli anni '80 tutti i dischi suonavano così "caserecci", ed era anche quello il bello che dava il tocco macabro e stagnante alle produzioni dell'epoca. Questo nuovo "Morbid Visions" dunque va preso per quello che è e visto all'interno di un contesto più ampio: un gran prodotto - e grazie al c***o - di cui non c'era bisogno ma che di contro ci offre uno spaccato di passato in chiave moderna deliziandoci di perle rare ripulite e smaltate a dovere.
Ultimo aggiornamento: 03 Settembre, 2023
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Quella dei tedeschi Mental Cruelty è una storia che negli ultimi anni è stata travagliata, vedasi le vicende giudiziarie che hanno interessato l'ex vocalist a seguito delle quali la band ha dovuto riformare la line-up con una nuova voce. Ma detto ciò, la cosa che comunque ha sempre contraddistinto i Nostri, specie dopo quel gran disco di "Inferis" del 2019, è l'indiscutibile bravura musicale. In poco tempo il gruppo è diventato il nome di punta della nuova ondata Deathcore, quella che fa capo a gente come i Lorna Shore e che porta sul piatto una nuova versione del genere, pesantemente influenzata da elementi sinfonici e Black, il tutto condito da riff e ritornelli estremamente articolati e melodici; insomma possiamo dire che quella del Deathcore è una vera e propria seconda vita. Con questa premessa vi presentiamo questo quarto album intitolato "Zwielicht", uscito per Century Media e che si rivela un punto di rottura dei Mental Cruelty con il passato: in primis perché è la prima prova per il nuovo vocalist Lukas Nicolai, ben diverso dal suo predecessore ma comunque inserito fin da subito nel nuovo contesto; in secondo luogo perché il quintetto ha "addolcito" il proprio sound abbandonando quasi del tutto la componente Black in favore di un approccio più sinfonico e dedito a orchestrazioni - che personalmente sono ben gradite-. Insomma, se la firma dei tedeschi è sempre quella, dall'altro lato abbiamo degli elementi nuovi o comunque rinnovati che ci hanno lasciato l'impressione di una realtà in salute che ha deciso - forse complici le vicende giudiziarie? - di scrollarsi di dosso alcuni elementi per così dire vecchi. Il risultato è un disco compattissimo dall'inizio alla fine, in cui le chitarre passano in secondo piano, tranne nei bellissimi assoli o parti gemellate, per lasciare spazio alla sinfonia. Tuttavia in questo rinnovo c'è da sottolineare come questo stile sembra quasi aver preso un'unica direzione, ossia quella consolidata dei Lorna Shore: in qualsiasi momento dunque sembra di sentire il gruppo di Will Ramos quando, al contrario, in passato lo stile dei Mental Cruelty era molto più personale. Sul piatto della bilancia insomma abbiamo sicuramente elementi nuovi, in particolare il nuovo vocalist che risulta molto più eterogeneo; ma dall'altro si è sacrificato parte della personalità in favore di linee stilistiche sempre più rimarcate. Un buon tiro che speriamo in futuro porterà il gruppo a sistemare ulteriormente.
Ultimo aggiornamento: 11 Giugno, 2023
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Tornano - finalmente - dopo due anni i micidiali Distant, band olandese che nel 2019 debuttò su Unique Leader Records con il gigantesco "Tyrannotopia", album che diede una ventata di freschezza al genere Deathcore con pesanti innesti Downtempo e cibernetici ispirati all'immaginario sci-fi. Con questa formula il quintetto riuscì a ritagliarsi una fetta dignitosamente importante nel panorama, emergendo al fianco dei grandi nomi che negli ultimi anni hanno ridato vita al genere. Oggi siamo qui ancora una volta per celebrare la terza uscita dei Distant, giunta dopo alcuni EP che non hanno mai fatto perdere le tracce della band: ecco a voi "Heritage", che per i Nostri segna anche un importante traguardo, l'entrata nel roster di Century Media Records al fianco dei Lorna Shore, ad oggi il nome di punta della nuova ondata -core. La formula è semplice quanto complessa: se da un lato Alan Grnja e soci non hanno cambiato quell'amore per le sonorità cibernetiche dalle atmosfere Cyberpunk e per i pesantissimi breakdown spaccaossa, dall'altro la formula si è alleggerita nella proposta. Non stiamo parlando di un sound più morbido, bensì di un approccio più scorrevole, che abbraccia anche elementi più melodici e groove, per un risultato estremamente più maturo rispetto ai due dischi precedente, che per quanto fenomenali - recuperateli - lasciavano intravedere ancora un approccio a volte acerbo. Qui, al contrario, siamo alla glorificazione pura dei Distant, che confezionano la loro opera migliore e più completa sotto ogni aspetto. Dalla voce cavernosa e corrosiva di Grnja, al songwriting serrato e abissale che non lascia spazio a nessun tentennamento. A coronare il tutto i numerosissimi ospiti che hanno ulteriormente impreziosito tutta la baracca, dal mitico Will Ramos fino ai vocalist di Suicide Silence, Emmure, Bodysnatcher, Angelmaker, Cabal, Paleface e altri; per quanto - e va sottolineato - il solo Alan basti e avanzi per offrirci una performance canora semplicemente sublime.
Ultimo aggiornamento: 11 Giugno, 2023
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Unite gente del panorama Black proveniente da Svezia, Norvegia e Finlandia e state pur sicuri che ciò che ne uscirà sarà un prodotto ben al di sopra della media: matematico. Questo è il caso degli Høstsol, quartetto che tra le fila conta il - magnifico, personalmente parlando - Niklas Kvarforth degli Shining alla voce, Kalmos e Rainer Tuomikanto degli Ajattara, rispettivamente al basso e alla batteria, e Cernunnus dei Manes alla chitarra. ed ecco a voi "Länge leve döden", licenziato da Avantgarde Music, per i palati più fini ed esigenti. Ciò che andremo ad ascoltare, ovviamente, è Black Metal. Ma non il classico Black a cui siamo abituati, bensì un mortifero veleno che unisce insieme la vena più raw e feroce ad un'eleganza atmosferica degna di nota. Da qui segue come questo debutto, frutto comunque di gente che sa bene ciò che fa, non poteva non essere qualcosa di mostruoso. Particolarità del disco è proprio la grande eterogeneità che permea ogni traccia, in ciascuna delle quali è possibile percepire il tocco di ognuno dei tre paesi da cui provengono i nostri. Fiore all'occhiello dunque sono la voce cadaverica e ferocissima di Niklas, che dà quel tocco di follia nichilista già ben noto negli Shining, e il songwriting compattissimo e molto ampio. Si potrebbe fare un discorso a parte per ognuno dei cinque brani proposti, che a discapito della durata importante - non si va mai sotto i 7 minuti e mezzo - riescono a regalarci l'estasi allo stato puro, con continui giochi di luci ed ombre. Ed è proprio questa la genialata di un album di questo calibro: non essere mai relegato ad un filone specifico, ma ad una corrente mista che riesce a pescare sapientemente da tanti cilindri per poi riassumere tutto in un'unica grande opera di qualità superiore alla media.
Ultimo aggiornamento: 23 Aprile, 2023
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Se siete fan della Marvel avrete sentito parlare del concetto di "Multiverso", ossia la teoria secondo la quale esistono infiniti altri universi in cui i fatti che avvengono nel nostro potrebbero non essere mai accaduti o aver avuto esiti differenti negli altri. Ecco, trasportate questo discorso nel mondo della musica, in particolare con una semplice domanda: e se gli In Flames non avessero mai preso quell'orrenda piega Alternative, ma avessero continuato sulla falsariga del capolavoro "The Jester Race"? Bene, oggi il quesito ha finalmente una risposta: Majesties, trio statunitense che debutta con questo fantastico "Vast Reaches Unclaimed" licenziato da 20 Buck Spin.
Sappiamo benissimo di essere molto provocatori con questo titolo di recensione, ma chiunque - spulciate in giro e ve ne accorgerete - abbia ascoltato l'opera dei Majesties si è fatto la stessa identica domanda. Quello presentatoci in sede d'esame è un album che è stato messo in congelatore nel 1995 e tirato fuori 28 anni dopo, c'è poco da discuterne. E, detto sinceramente, siamo di fronte ad un lavoro veramente degna di nota: intrecci di chitarre, fraseggi tipici degli anni '90, scream cadaverico, dissolvenze... ci sono TUTTI gli ingredienti che hanno reso Göteborg la culla ancestrale del Melodic Death, ma ad opera di una band statunitense, che ha ben pensato di rispolverare dai cassetti del materiale ben noto e riportarlo in luce quasi trent'anni dopo. Il risultato è un disco che contemporaneamente è nostalgico ma non da copia/incolla; fattore, questo, che rende i Majesties una realtà musicale più che interessante. Se, infatti, da un lato siamo di fronte ad un sound ed un approccio ben noto, dall'altro il trio ha saputo prendere bene le distanze dal mero citazionismo fine a se stesso, imbastendo quindi un'opera che sa essere comunque personale. Ne sono un esempio i bellissimi innesti più tecnici, arzigogolati e cupi degni di gente come Ceremonial Oath ed Eucharist, che si stagliano su una base Melodeath classica ma non per questo scarna di spunti originali e, perché no?, innovativi a modo loro. Chiaramente non siamo di fronte ad un capolavoro o comunque ad un prodotto di imprescindibile ascolto e siamo comunque consci del fatto che alla fine chi maggiormente apprezzerà i Majesties sono i nostalgici del Göteborg Sound, a testimonianza di come per il trio ci sia ancora tanto margine di miglioramento per aggiustare il tiro e magari rivolgersi di più sull'evoluzione del proprio stile. Comunque sia "Vast Reaches Unclaimed" è un album che saprà regalarvi ben più di un semplice ascolto distratto, ma un vero e proprio tuffo nel passato in barba a chi, invece, ha preferito perdere la retta via - chi ha detto In Flames? -.
Ultimo aggiornamento: 23 Aprile, 2023
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I romani Devangelic dovrebbero ormai essere per tutti un ascolto imprescindibile, soprattutto per coloro che amano il Death Metal suonato in un certo modo: super tecnico ma MAI per un singolo istante prolisso o fine a se stesso. Quella dei nostri è stata - ed è tutt'ora - una continua scalata verso le vette più alte del genere, con un costante arricchimento del sound e della proposta musicale, già confermata con il capolavoro "Ersetu" del 2020, il disco che - e non lo diciamo con nessun intento negativo, anzi - li ha decretati come i Nile italiani. Se, tuttavia, Sanders e soci sono gli egittologi per eccellenza, i Devangelic sono i massimi esperti di storia della Mesopotamia, con concept album che farebbero impallidire perfino il prof Barbero. Bastano infatti poche note del nuovissimo "Xul" per renderci conto di cosa stiamo parlando: violenza allo stato puro con costanti richiami alle sonorità mediorientali che ci trasportano indietro nel tempo, tra storia, mitologia ed esoterismo. E tanto basta al quartetto per confermarsi ancora come tra le migliori realtà al mondo di questo modo di intendere il Brutal Death. Nulla a che vedere con lo Slam di cui ormai il mondo musicale è saturo. Tutt'altro: qui siamo in territori dove la pesantezza fa certamente il suo ruolo, ma con criterio e giudizio. Le chitarre sono possenti e monolitiche, ma nascondono dietro una versatilità ed una scorrevolezza che raramente, molto raramente, si sente. Considerando quanto affermato prima, ossia i costanti richiami alle sonorità orientali. Se suonate uno strumento non potrete non notare determinate scale che automaticamente vi proiettano in quei territori.
Osiamo perfino dire che questo "Xul" sia superiore al precedente "Ersetu" per un "semplice" motivo: il disco del 2020 puntava maggiormente sulla forza di impatto, spesso incastrandosi in passaggi fini a se stessi, o comunque di difficile comprensione. Tradotto: album della madonna, ma non ancora perfettamente maturo. Dopo tre anni Mario Di Giambattista e soci hanno preso quanto fatto di buono snellendo dove c'era bisogno e aggiungendo qualche innesto più melodico, con il risultato che "Xul" ha conservato la ferocia assassina ma al contempo è molto più scorrevole e definito, offrendoci un quadro molto più chiaro della band. Tradotto ancora: un capolavoro inenarrabile da annoverare nella lista "orgoglio italiano". Complimenti!
Ultimo aggiornamento: 05 Marzo, 2023
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Amanti delle sonorità degli anni '80, oggi ci rivolgiamo a voi della vecchia guardia che siete cresciuti a pane e Venom, Bathory, Hellammer, Celtic Frost, Sodom, Motorhead e compagnia bella. È con questa breve ed incisiva premessa che vi presentiamo il debutto del quartetto Malleus, "The Fires of Heaven" licenziato da Armageddon Label. Della band in questione non si sa praticamente nulla, come ogni realtà underground proveniente dalla scena Black che si rispetti. Tuttavia poco ci interessa, poiché qui siamo nel territorio dei cosiddetti "zero fronzoli". Tradotto: quando si parla di Black/Speed vecchia scuola, la regola è solo quella di pestare forte come se non ci fosse un domani. Il resto son solo chiacchiere. E tanto ci basta per poter apprezzare un'opera come questo "The Fires of Heaven", che incarna al meglio l'esperienza delle band leggendarie sopracitate, con un tocco di modernità dato dal sound sicuramente più "pulito" rispetto a quello di quarant'anni fa. Tuttavia, se altri gruppi provenienti da questo filone celebrativo della vecchia gloria, come ad esempio Midnight, Butcher, Toxic Holocaust et similia, cercano comunque di guardare in avanti, rispolverando dalla cantina, per così dire, quelle sonorità, in questo caso si è fatto il lavoro opposto. I Malleus non ne vogliono sapere minimamente di guardare al futuro, preferendo invece ancorarsi alla brutalità primordiale del metal pestando fortissimo con il loro sound grezzissimo che tutto deve ai Motorhead, Sodom e Venom in particolare. Non c'è il minimo accenno di novità; e sinceramente guai se ce ne fosse. Riff ferocissimi suonati con delle motoseghe arrugginite, voce cadaverica - sembra Mortuus dei Marduk al microfono - e batteria tirata fino alla follia. Stop, basta, caput, finito. Nient'altro da aggiungere: ogni cosa che vada oltre la semplice ossatura basilare sarebbe solo un inutile orpello. E noi non potevamo chiedere di meglio, soprattutto se consideriamo come in questo mega tributo alla vecchia guardia non ci siano momenti noiosi o "già sentiti", per quanto sia innegabile non avere confidenza con questo sound. In pratica i Malleus si cimentano con una strada già ampiamente battuta, ma con un tocco di personalità appena sufficiente per non sfociare nel copia/incolla. Tradotto ancora: spaccano!
Ultimo aggiornamento: 12 Febbraio, 2023
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Se il 2022 è stato l'anno dei portoghesi Gaerea, con la loro definitiva consacrazione nel panorama Black europeo e mondiale, il 2023 è il turno degli Oak, gruppo formato proprio da due membri - un ex - dei Gaerea, per quanto riguarda il filone Atmospheric Doom/Death Metal. Formatosi nel 2018, il duo fin dal primissimo "Lone", uscito l'anno seguente, si è contraddistinto per l'enorme e quasi incalcolabile potenza evocativa del disco. Atmosfere cupe ma mai pesanti, sognanti, tristi, malinconiche e costantemente spennellate da ferocissime sezioni Death, per un album che, alla fine dei conti, risultò un vero e proprio gioiello. D'altronde stiamo pur sempre parlando di due artisti che di certo non sono alle prime armi. Tradotto: la vena Gaerea si sente, ma non da un punto di vista di sonorità, quanto di attitudine nel saper emozionare nota dopo nota. Insomma, per farla breve, gli Oak si sono immediatamente ritagliati una fetta importantissima della scena portoghese. Ma è in questo 2023, con il passaggio a Season Of Mist, che i Nostri vengono ufficialmente consacrati con il qui presente "Disintegrate": secondo monolitico capolavoro che eleva ancor di più quanto fatto di buono nel 2019. Una sola omonima suite di 45 minuti in cui la band ripercorre le fasi dell'ascensione verso nuove dimensioni oniriche: un vero e proprio viaggio astrale che minuto dopo minuto ti fa spogliare di ogni orpello fisico e materiale fino a raggiungere vette finora inesplorate. Dalla disintegrazione del corpo fino alla consacrazione dell'anima, "Disintegrate" ti tiene incollato alle cuffie in un costante saliscendi di emozioni contrastanti: la dolcezza delle chitarre e dei meravigliosi arpeggi si infiamma della furia del Death Metal che viene costantemente impreziosito dalle ritmiche rallentate molto vicine ai Paradise Lost o My Dying Bride in questo continuo oscillare. Potremmo definire la nuova creatura degli Oak come un caleidoscopio: non esiste e non esisterà mai una prospettiva sola, ma una serie infinita di piani esistenziale che si fondono l'uno sull'altro creando un qualcosa mai sentito fino ad ora. Ed è impressionante come una sola traccia di 45 minuti non annoi nemmeno per un secondo, ma che anzi riesca a regalare un ventaglio emotivo semplicemente indescrivibile. Da qui non possiamo che dare al disco il voto massimo, anche se sarebbe riduttivo giudicare un'opera simile solamente con un numero. Qui si va ben oltre la musica: qui il Metal tocca una delle sue vette più alte. Tra i candidati ad "album dell'anno" ad occhi chiusi. Complimenti!
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