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Opinione scritta da Chiara

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Opinione inserita da Chiara    15 Mag, 2015
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Nuova ristampa per i Razor, all’interno dell’operazione di rilancio della storica band canadese sponsorizzata dalla Relapse Records. Come nel caso di “Shotgun Justice” e “Violent Restitution”, anche “Open Hostility” ci viene riproposto pulito, lucidato e truccato come una vecchia auto da corsa, grazie a una qualità del suono più limpida e ben otto bonus track che faranno leccare i baffi agli irriducibili della formazione (anche perché la metà sono inediti risalenti al 1990!).

Il settimo album della band, pubblicato nel 1991, è l’ultimo prima dello scioglimento della formazione nel 1992 (ritrovatasi per la gioia dei fan nel 1997), ed è un’altra pietra miliare del caro vecchio thrash, uno di quegli album che ogni thrasher che si rispetti deve avere consumato a dovere. C’è da dire che i Razor non sono mai stati baciati dalla fortuna per quanto concerne la solidità della line up, e infatti per “Open Hostility” non solo assistiamo alla defezione del bassista Adam Carlo (sostituito da Jon Armstrong), ma anche alla mancanza del batterista Rob Mills, che in seguito a uno sfortunato incidente, pur rimanendo ufficialmente nella band, non potrà partecipare alle già risicate registrazioni dell’album venendo sostituito per l’occasione da nientepopodimeno che… una drum machine. Proprio a quest’ultima è da attribuire l’unica debolezza di “Open Hostility”, che suona un po’ troppo artificiale forse, ma a mio avviso, non è tra le peggiori drum machine che abbia mai sentito. Resta il fatto che questo difetto viene facilmente fatto dimenticare dalla consueta scarica di rabbia in stile Razor, talmente radicata nel profondo che non si estinguerà mai, ed è un bene che sia così per tutti noi che amiamo utilizzare la musica come valvola di sfogo per i piccoli grandi problemi quotidiani.

Si parte dalla protesta nei confronti della censura, capace di tarpare ottusamente le ali ad ogni espressione artistica (“In Protest”), ma non ci si dimentica delle catastrofi ambientali (“Iron Legions”), passando per la polizia violenta e corrotta (“Mental Torture”). Anche i party possono essere fonte di dissapori, soprattutto per chi si deve mettere a pulire le conseguenze dei bagordi altrui (“Bad Vibrations”), ma troviamo uno spiraglio di positività in “Cheers”, che di tanto in tanto non guasta. “Psychopath” è un piccolo inno speed per chi si sente diverso e “sbagliato”, semplicemente indimenticabile per tutti fan del genere. Nel complesso, il vocalist Bob Reid si è calato nella parte alle grande. Rispetto al già ottimo lavoro in “Shotgun Justice”, ora sembra cantare con un entusiasmo ancora maggiore e con più incisività, mentre il buon Dave Carlo continua sull’onda dei riff “tranchant” e veloci come la luce, in pieno stile Razor.

L’atteggiamento menefreghista della band canadese ha sempre aiutato i nostri (e mi riferisco in particolar modo a Dave Carlo, l’unico “sopravvissuto” della line up originale) ad arrivare fino ad oggi, togliendosi anche qualche sassolino dalle scarpe. Sono pochi i gruppi infatti che possono vantare carriere decennali e ristampe dei propri dischi: credo che quest’ultimo aspetto sia il massimo onore che, escludendo Grammy e awards vari ed eventuali, possa essere riconosciuto a un artista. I Razor ce l’hanno fatta, e noi non possiamo far altro che dargliene atto!

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Opinione inserita da Chiara    13 Mag, 2015
Top 50 Opinionisti  -  

Per questa recensione mi piace esordire citando gli stessi Razor: “Attenzione! Oggi i Razor sono ancora più veloci e potenti di quanto possiate immaginare. Questo album potrebbe essere troppo “heavy” per voi, oltre a contenere testi sadici e antisociali. Usatelo con estrema cautela, e sincronizzate il vostro battito cardiaco con il nostro sound carico d’odio”. Come si fa a non amarli? Queste parole risalgono a venticinque anni fa, ma sembrano scritte ieri. vuoi perché la scena thrash anni ’80 e ’90 si sta riproponendo negli ultimi tempi con un revival abbastanza insistente (anche se nella sua versione più blanda, e non lo dico da nostalgica del passato). Vuoi soprattutto perché i testi di “Shotgun Justice” (e dei Razor in generale) sono ancora attualissimi. L’odio è tra i sentimenti più puri che l’essere umano possa provare, e non conosce né mode né il passare del tempo. E “Shotgun Justice” ne è completamente impregnato, da cima a fondo.

La reissue di “Shotgun Justice” (insieme a “Violent Restitution” e “Open Hostility”) voluta dalla Relapse Records, è un’iniziativa per rilanciare i Razor, che stanno per tornare con un tour imponente e, si spera, con materiale inedito. Al suo interno, oltre alle quattordici canzoni originali, sono state inserite sei gustose bonus track, che tra rough mix e versioni live ci offrono una visuale a 360 gradi della panoramica razoriana dell’epoca. Il sesto album della formazione canadese ha visto originariamente la luce nel 1990, e risente delle caratteristiche di certe release dell’epoca, soprattutto a livello di produzione e mixaggio ben lontane dal perfezionismo digitale di oggi: la ristampa contribuisce a togliere questa ruggine regalando una veste (anche grafica) nuova e smagliante agli album sopracitati, mossa sicuramente apprezzabile che permette di godere appieno di quelle sfumature che magari alle orecchie meno attente possono sfuggire quando il suono non è dei più puliti, ma in questo modo si rischia di tradire lo spirito e le intenzioni originarie di una band come i Razor che non è mai voluta scendere a patti con le logiche di mercato e che se ne è sempre fregata dei trend. Ad ogni modo, trovo che l’iniziativa sia assolutamente lodevole, in quanto ha tutte le carte in regola per far conoscere come si deve l’opera della storica band alle nuove generazioni e agli appassionati di musica di tutte le età.

Su “Shotgun Justice” è stato detto e scritto davvero di tutto in questo quarto di secolo. È l’album spartiacque che ha introdotto i Razor negli anni ’90, ed è il primo con Bob Reid alla voce, dopo l’abbandono del frontman “Sheepdog” McClaren. Il buon Reid non fa di certo rimpiangere McClaren, grazie a uno stile unico e a un tono perentorio in grado di dar vita ai testi di Dave Carlo (ad oggi l’unico membro originario rimasto nella formazione). Rimanendo in tema songwriting, con “Shotgun Justice” il chitarrista/compositore dà il meglio di sé avventurandosi nei territori spinosi della denuncia sociale (“Miami”), delle critiche endogene nei confronti della stessa scena metal, corrotta e venduta (“Stabbed In The Back” e “Violence Condoned”) e delle violenze familiari (“Parricide”), oltre a lanciarsi in riff da manuale con la sua fedele sei corde. Pur restando nei limiti del thrash, ogni traccia ha la sua originalità: una su tutte “Meaning Of Pain”, che attacca lenta e inesorabile, per poi esplodere come una bomba al segnale urlato di Bob Reid. La title track rimane tra i pezzi più memorabili dei Razor, con il suo refrain e la forza speed dei versi. Ma la band non si dimentica le origini splatter (vedi “Cranial Stomp”), argomento trattato con il consueto sarcasmo.

“Shotgun Justice” è un must have per tutti i thrasher, giovani e meno giovani: che sia la issue originale o la ristampa poco conta, l’importante è averne una copia e assegnarle un posto d’onore nella vostra discografia!

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Opinione inserita da Chiara    11 Mag, 2015
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Devo ammettere che mi sono approcciata a “Rest/Less”, il nuovo album dei tedeschi Choking On Illusions, con una certa circospezione. Sarà la copertina un po’ hipster e criptica, ma il mio timore era quello di incappare in un hardcore adolescenziale poco in linea con i miei gusti musicali. Dopo averlo ponderato da lontano, quasi come un cane da caccia che fiuta il territorio, mi sono avvicinata e mi sono resa conto che le mie paure erano almeno in parte ingiustificate. Dico in parte perché la formazione tedesca presenta un hardcore melodico e leggero, ma nonostante i membri della band siano tutti giovanissimi, il pubblico a cui si vogliono rivolgere con “Rest/Less” non è solo formato da teenager, ma anche e soprattutto da giovani adulti in piena crisi esistenziale (fascia nella quale si possono riconoscere molti di noi). I Choking On Illusions infatti presentano un concetto di hardcore molto personale e dinamico, che sono riusciti a consolidare nel corso di quasi sette anni di attività e di due fatiche di studio (la prima, “Guide Me Home”, risale al 2012), oltre a un buon numero di live che di certo male non fanno, soprattutto quando si è così giovani e si ha molto da imparare dalla “vita di strada”.

“Rest/Less” è tutto questo. Dopo una breve intro, si inizia sul serio con la title track, un bell’esempio di melodia e cantato pulito che i nostri riescono a maneggiare con disinvoltura. “Sleepwalker” ha più ritmo ed energia rispetto al pezzo precedente, ma il cantato rimane sempre cristallino raggiungendo il suo apice nel bel refrain più che orecchiabile, accompagnato da martellate di doppio pedale che forse sul finale confondono un po’ le idee rendendo il pezzo lievemente disconnesso e poco lineare. Con “Left Unsaid” si procede seguendo il mood sognante distintivo dei Choking On Illusions, e il passare del tempo è scandito dal ticchettare delle bacchette di Dustin Ueckert e dagli arpeggi delicati di Jannick Aulenbacher e Maciej Spiczak. Il retrogusto fantastico/onirico è il canovaccio sul quale si compone anche “Borderlines”, che presenta però qualche accenno di riff più corposo rispetto allo stile COI. L’album è diviso in due parti ben distinte da “Interlude”: se la prima sezione è più eterea e malinconica, la seconda, pur mantenendo intatta questa sensazione generale, diventa più cupa grazie a un cantato sensibilmente più profondo e sofferto. Se escludiamo gli “whoa” da stadio del ritornello, “Death Waltz” è l’episodio più sporco, frenetico ed elettrico di “Rest/Less”, che si conclude in bellezza con “Baptism – Funeral”, un compendio dell’universo dei cinque musicisti.

“Rest/Less” è un viaggio di una mezzora scarsa, ideale per prendere una boccata d’aria e riposare le orecchie con suoni freschi e piacevoli come solo l’hardcore teutonico contemporaneo sa essere.

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Opinione inserita da Chiara    08 Mag, 2015
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I Vulcano sono un’istituzione del metal sudamericano. Non solo sono stati tra i primi (se non i primi in assoluto) a spargere il verbo del metallo estremo in Brasile ma, si dice, che senza di loro i Sepultura non sarebbero mai esistiti. Quindi non si può far altro che inchinarsi di fronte alla loro maestria. “Wholly Wicked” è il nono album della formazione di San Paolo, ed è l’ennesima conferma delle capacità tecniche che hanno portato i Vulcano a mantenere intatta la loro verve nel corso di ben trentaquattro anni di attività. Diciamo che la band brasiliana è un po’ come la vostra pizzeria preferita (se mi concedete la similitudine gastronomica): ci andate da anni, e non ne siete usciti insoddisfatti mai una volta, e sapete che ci ritornerete fino alla fine dei vostri giorni (o di quelli del pizzaiolo, dipende dai punti di vista).

In “Wholly Wicked” troviamo tutte le caratteristiche vincenti dei nostri, a partire dalle lyrics al vetriolo, passando per i riff puliti, precisi e micidiali come un bisturi, e la sezione ritmica molto marcata e viscerale. Si apre senza se e senza ma con “The Tenth Writing”, che presenta nel refrain una bella sovrapposizione di growl e screaming che contribuisce a dare una certa profondità al pezzo. “Daughters Of Pagan Rituals” è un sabba thrash, dipinto senza mezzi termini ed evocato nel ritornello ripetuto fino all’ossessione. Un altro brano estremamente valido è “Infusion Of Hatred”, letteralmente un’iniezione di veleno letale che ha il solo difetto di finire troppo improvvisamente lasciando con il cuore in gola: ma che bomba! “Tormented” è invece la prova più evidente dell’uso massiccio della parte ritmica da parte dei Vulcano: il nostro Ivan The Darkestt martella sulle sue quattro corde come se non ci fosse un domani, mentre il Barbaro Arthur ci dà dentro alla grande con il doppio pedale. Le influenze black non mancano di certo, come dimostra la cattivissima “Malevolent Mind”.

Oltre ad essere un gran bel disco, “Wholly Wicked” offre l’occasione ideale per rispolverarsi la discografia completa dei Vulcano (o per comprarsela, per chi ancora non ce l’avesse). Il tempo passa, ma come un buon vino, non fanno altro che migliorare!

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Opinione inserita da Chiara    07 Mag, 2015
Top 50 Opinionisti  -  

Band come i Whipstriker mi fanno venire voglia di prendere un biglietto di sola andata per il Brasile: sole, mare, e buona musica. Cosa si può pretendere di più? Il trio di Rio De Janeiro, con quasi sette anni di esperienza alle spalle, dopo il primo full-length “Crude Rock ‘n’ Roll” del 2010, ripropone oggi tramite PRC Music la seconda fatica di studio venuta alla luce nel 2013, “Troopers Of Mayhem”, che anticipa una nuova uscita discografica della formazione prevista per il 2016.

“Troopers Of Mayhem”, con i suoi quasi due anni di vita, è quindi un album piuttosto conosciuto in ambito underground, travalicando i confini sudamericani e diffondendosi come un virus pestifero nel resto del mondo. Nonostante la relativa anzianità, il secondo lavoro dei Whipstriker supera la prova del tempo grazie a un approccio fresco e sempreverde, risultando gradevole anche dopo parecchi ascolti: il sapersi prendere in giro è una dote dei tre brasiliani che fa sì, tra le altre cose, che la loro opera sopravviva al corso degli eventi. La proposta del trio è un thrash vecchia scuola con influenze proto black, come insegnano la title track e “We Came From The Wild Lands”, l’urlo di guerra dei nostri prodi. “Lucifer Set Me Free” è meravigliosa nella sua particolare impronta heavy tradizionale oltre ad essere impreziosita dalle note di un organo, ideale per scolpirci nella mente il contenuto della preghiera nera alla base del pezzo. “Genocide Now!” invece è una mina vagante a tutto thrash, mentre con “Murder in VM Street” si ritorna a sonorità più lente e drammatiche, ma le urla del refrain ci fanno ripiombare con i piedi per terra ricordandoci esattamente da dove vengano i Whipstriker. Si chiude in bellezza con “Backward Progress”, con una intro diabolica suonata al contrario che apre su un pezzo fulminante e si conclude con l’urlo di guerra tanto caro alla formazione brasiliana “we came from the Wild Lands!”.

Qualche piccola pecca c’è, come il mixaggio un po’ troppo grezzo, ma possiamo dire che sia una caratteristica comune a molte produzioni carioca, quindi ci sta, e possiamo chiudere un occhio, se non entrambi. Soprattutto quando la musica è talmente potente da annientare qualsiasi tipo di giudizio razionale e non si può far altro che dare retta al nostro istinto più primitivo. Bravi Whipstriker, li aspettiamo al varco il prossimo anno.

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Opinione inserita da Chiara    06 Mag, 2015
Top 50 Opinionisti  -  

Riff furiosi, urla atroci, ritmo claustrofobico e oscuro: questo è il doom vecchio stile proposto dagli Stonegriff, band svedese alla seconda fatica di studio, intitolata “Come Taste the Blood”. La formazione è nata nel 2009, debuttando ufficialmente solo l’anno successivo con la demo “Epicus Democus”, ma ha dovuto affrontare una miriade di abbandoni e di cambi di line up. Gli avvicendamenti degli ultimi anni però hanno concesso agli Stonegriff di farsi le ossa, partecipando a diversi festival in giro per la loro terra natia e l’Europa. Ora i quattro hanno trovato un certo equilibrio, che li ha portati all’ottimo “Come Taste the Blood”, che presenta tra l’altro un gradevolissimo artwork in pieno stile Stonegriff.

Ascoltando l’opera dei quattro svedesi non si può non pensare a un altro quartetto storico, composto da personaggi che del doom sono stati i padri fondatori: mi riferisco ovviamente ai Black Sabbath. “Come Taste the Blood” è completamente permeato dalle influenze di Ozzy e compagni, rivisitate però in chiave moderna e rielaborate con un tocco personale di creatività. “Valkyrian Quest” e la title track sono un esempio della componente classica della formazione svedese, mentre “You're Never Alone” è la dimostrazione più lampante dello spirito innovativo dei nostri, pur nel massimo rispetto della tradizione: il suo ritmo trascinante, ripetitivo, fatto di bassi ossessivi è quasi sensuale, e rimane in testa da subito. Stesso discorso vale per “Brother Cain”, un’altra prova dello stile inconfondibile degli Stonegriff. E per chi avesse qualche dubbio, “In Doom We Trust” li spazza via tutti, facendo il punto della situazione e ricordando agli ascoltatori che il doom è la ragione di vita dei nostri. Si chiude con “Saligia”, una preghiera disperata di quasi sei minuti da pelle d’oca assoluta.

Il sound degli Stonegriff non lascia scampo, cattura fin dalle prime note e non vi darà tregua, al punto che sarete costretti a supplicare per poterne ascoltare ancora un po’. È quasi un’esperienza extrasensoriale, consigliatissima a chiunque voglia avvicinarsi al mondo doom/progressive ma non abbia idea di quali pesci pigliare.

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Opinione inserita da Chiara    05 Mag, 2015
Top 50 Opinionisti  -  

Hellacaust, un nome un programma. La formazione canadese infuoca i palchi e i timpani di tutto il mondo dal 2000, dando vita, cito, a “un caotico maelstrom di headbanging furioso completamente fuori focus, ma contagioso e liberatorio”. Non esiste immagine più vivida e veritiera per descrivere lo stile di questa band, a cavallo tra black, thrash e doom, che si sommano in un unico tornado etichettato sotto il nome di war metal, un ibrido blasfemo che spesso sfocia per la sua crudezza e violenza nel grind. “What Is Not” è il quarto full length degli Hellacaust, e affonda le sue radici nel pessimismo generale nei confronti dell’umanità intera e del progresso verso il quale non si può far altro che provare la rabbia più devastante immaginabile.

La nuova opera degli Hellacaust non è un ascolto facile. È necessario dedicarle tempo e attenzione per comprenderne il senso intrinseco e apprezzare gli spunti che i quattro canadesi ci offrono. In primo luogo perché, come citato qualche riga sopra, non è raro il caso in cui più sottogeneri convivano nella medesima canzone (vedi la title track) e la prima sensazione è quella di confusione sonora che solo dopo qualche ascolto riesce ad essere districata. La melodia e i ritornelli orecchiabili sono del tutto banditi, manco fossero degli appestati da rinchiudere in quarantena. Il bassista e cantante John MacDougall vomita veleno dall’inizio alla fine di “What Is Not”, seguito a ruota dai compagni di avventure Graham Ferguson e Troy Kirker alle chitarre e Evan Wamboldt alla batteria. L’album è un’ottima prova di forza della formazione, che non prende neanche un attimo il fiato e si concede uno sfogo di quaranta minuti abbondanti senza tregua, potente e devastante fino al midollo. Ne è un esempio lampante “Skitzophrenicult”, che, come suggerisce il titolo stesso, è un inno alla follia a ritmo di stop and go e riff spezzati e schizofrenici. La perla nera dell’album è “Lament Configuration”, un piccolo capolavoro black di una velenosità e crudezza sconvolgente. Un altro pezzo forte è “Belly Of The Beest”, una discesa senza freni nelle viscere (nel vero senso della parola) dell’Inferno guidata da assoli di chitarra acuti e agghiaccianti come le urla dei dannati.

Gli Hellacaust sono dei veterani, e non hanno paura di esprimere in musica i loro pensieri più oscuri e perversi, rendendoci partecipi del loro sfogo e facendoci godere le loro composizioni in bilico sul baratro della follia.

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Opinione inserita da Chiara    04 Mag, 2015
Top 50 Opinionisti  -  

E poi arrivano le belle sorprese. I Risen Prophecy, giovanissima band inglese che vanta la medesima line-up dall’anno della fondazione (il lontano 2005), hanno appena sfornato “Into the Valley of Hinnom”, secondo full length della formazione e degno successore di “Screaming For Death”, esordio discografico risalente al 2010. I quattro musicisti ci regalano un mix piacevolmente sorprendente di thrash e power/progressive metal, gestito con un’incredibile nonchalance e capacità tecnica ancora più invidiabile, soprattutto considerando l’età anagrafica dei nostri.

Se “Into the Valley of Hinnom” fosse un libro, sarebbe un romanzo di formazione: la discesa nella Gehenna con tanto di sacrifici umani (evocati dal bell’artwork della copertina) è accompagnata da un’intro (“The Descension”, appunto) che con semplici ma efficaci arpeggi ci introduce nel mondo leggendario e maestoso dei Risen Prophecy. Si entra nel pieno dell’azione con “Brood of Vipers”, primo esempio dello stile inconfondibile della band, in cui le sonorità thrash si accordano armoniosamente con il cantato teatrale e carismatico del vocalist Dan Tyrens, capace di regalarci performance degne di Rob Halford con i suoi acuti e il falsetto di “Knowing Nothing” e “To The Wolves”. La colossale title track, grazie ai suoi undici minuti che scorrono lisci come l’olio, è l’ennesima dimostrazione delle capacità dei quattro inglesi, musicisti scafatissimi in grado di districarsi tra sonorità più frenetiche e power ballad come nel caso di questo pezzo (ascoltatelo con attenzione, vi dice niente “Rime of the Ancient Mariner” degli Iron Maiden?). Poco fa si parlava di romanzo di formazione: sì, perché “Into the Valley of Hinnom” si conclude con un lieto fine, l’ascesa dagli Inferi (vedi l’outro “The Ascension”) dopo un viaggio lungo e periglioso.

È raro trovare una band che possa essere apprezzata da cultori di diversi sottogeneri, ma ogni tanto succede: i Risen Prophecy hanno superato egregiamente la prova, facendo la felicità di thrasher e aficionados del power/progressive più classico.

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Opinione inserita da Chiara    28 Aprile, 2015
Ultimo aggiornamento: 28 Aprile, 2015
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JJ Peters, il frontman dei Deez Nuts, band hardcore australiana attiva dal 2007, in occasione dell’uscita del nuovo full length, “Word Is Bond”, ha voluto ricordare con la sua tipica veemenza che “i Deez Nuts non sono dei privilegiati. Lo si può notare da tutti i punti di vista. Ed è anche per questo che “Word Is Bond” è un album pieno di passione”. E senza peli sulla lingua, in perfetto stile JJ Peters. A differenza dei precedenti tre album della formazione di Melbourne, “Word Is Bond” trova lo spazio per guardarsi indietro e iniziare a pensare agli anni che passano. Certo, i quattro hardcorer rimangono sempre i compagni di merenda perfetti, quelli che tutti noi vorremmo avere per uscire e fare bisboccia, ma con l’età arrivano anche le responsabilità. A detta del frontman infatti, “questo è l’album più intimo che la band abbia mai composto”. Certo, la festa non è finita, ma è ora di crescere.

La dura realtà, però, non è affrontata in termini di noiosa introspezione, ma in toni hard punk più forti che mai, con pezzi veloci ed ermetici come i loro stessi titoli, farciti da ampie dosi di rap che, anche se in minor misura rispetto ai lavori passati della band, rimane sempre un’influenza significativa. Le danze si aprono con “Word”, una fucilata hardcore breve e intensa come solo questo genere sa essere. E in “Pour Up”, mascherata sotto una patina punk a tutta birra, si nasconde un inno apparentemente pro-bevute e vita dissoluta che invece vuole condannarne le conseguenze (così come “Party At The Hill”, che vede un featuring di Drew York dei newyorkesi Stray from the Path). Se in “Behind Bars” i ritmi rallentano sensibilmente lasciandosi guidare da riff più cupi e minacciosi, quasi alla Slayer, in “What I Gotta Do” sono i cori massicci e le percussioni potenti a farla da padrone, trasformandola in un vero e proprio inno hardcore. La tensione ritorna palpabile in “Don’t Wanna Talk About It”, punk nell’anima ma profonda quanto basta per darle uno spessore tutto suo. Il pezzo forte, che ancora adesso mi martella nella testa e che è diventata una della mie canzoni preferite degli ultimi tempi, è “Face This On My Own”, con le sue melodie super catchy che conquistano al primo ascolto e ne pretendono tanti, tanti altri. Stessa cosa vale per “Wrong Things Right”, che rimane dentro da subito grazie al refrain ripetuto all’infinito. Il cerchio si chiude con “Word Is Bond”, che riprende idealmente il discorso dove “Word”, la prima del traccia del disco, l’aveva lasciato in sospeso.

Che dire quindi, i Deez Nuts sono cresciuti, ma non sono diventati barbosi. Rinnegando (in parte) il loro passato, sono riusciti ad acquistare una maggiore consapevolezza che li aiuterà in futuro ad esplorare nuovi territori, portando con sé un bagaglio di esperienza e di passione che li accompagnerà durante la maturità, musicale e non.

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Opinione inserita da Chiara    27 Aprile, 2015
Top 50 Opinionisti  -  

Una cosa è certa: la giusta dose di autoironia è un dono, e può aiutare ad avere successo in molti aspetti della vita. I Voice Of Ruin ne hanno a palate, ed è uno dei segreti della loro fortuna. A tal proposito non posso non citare le note biografiche presenti sul sito ufficiale della band: “Alcuni ci definiscono modern death metal, altri thrash, metalcore, o addirittura stoner. Di sicuro non siamo niente di nuovo sotto il sole, ma che importanza ha? Lo sanno tutti che Jack Daniel non ha inventato il whisky e che i Motörhead non sono la prima rock band al mondo, però sono entrambi fantastici!”.

Fatto sta che grazie a questo atteggiamento, qualunque sia il genere dei cinque musicisti svizzeri, è messo in pratica nelle uniche tracce inedite di “Consumed”, EP prodotto sull’onda del successo del secondo album della band, “Morning Wood”. Le canzoni in questione (“I Am The Danger” e “Our Need To Consume”) sono in effetti un amalgama ben riuscito di deathcore e melodia, piacevoli all’ascolto ed efficaci nel loro genere. Nota di folklore su “I Am The Danger” per tutti coloro che hanno seguito “Breaking Bad” con il fiato sospeso: che i Voice Of Ruin siano fan di Walter White/Heisenberg? Chissà. Tornando alla musica, i rimanenti quattro pezzi di “Consumed” sono quattro cover di canzoni tratte dal fortunato “Morning Wood”. E che cover! I nostri infatti affidano le loro creazioni ad artisti che poco hanno a che fare con la scena metal. Un’operazione rischiosa se pensiamo in particolar modo a scelte simili fatte da altre band in passato, ma in questo caso, complice la simpatia e la capacità di non prendersi sul serio dei Voice Of Ruin, il risultato è complessivamente buono. E poi chi l’ha detto che death metal, dubstep, elettronica e 8-bit music non possano andare a braccetto? Ne è un esempio “Morning Wood”, rivisitata in chiave eighties, grazie all’intervento della vocalist francese Desire less, conosciutissima negli anni ’80. Il pezzo più forte a mio avviso è “Day Of The Rage”: riff tamarri si intrecciano con il cantato growl sullo sfondo di synth “strombazzati” a tutto andare. Per finire in bellezza, le due versioni di “The Rise Of Nothing” sono una vera e propria incursione in territorio dubstep con gustose eco 8-bit music.

“Consumed” è un atto d’amore da e per i fan: infatti, è stato realizzato in crowdfunding, ed è destinato al pubblico di irriducibili dei Voice Of Ruin. Se invece non conoscete i cinque elvetici, è più consigliabile approcciarsi a “Morning Wood” per capire esattamente di che pasta sono i fatti i nostri eroi.

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