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Opinione scritta da Luigi Macera Mascitelli

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    14 Mag, 2017
Ultimo aggiornamento: 15 Mag, 2017
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Finalmente, dopo svariate recensioni, ho potuto mettere mano,o per meglio dire orecchie, ad un album death metal vecchia scuola di una band tutta italiana: sto parlando di "The Black River" degli Hastur. Il gruppo, che nasce nel 1993, dopo svariati cambi di line-up, EP e progetti non rilasciati, finalmente è riuscito a partorire un signor album di pura cattiveria e brutalità.

Possiamo farci immediatamente un'idea di cosa ci aspetta già a partire dalla prima traccia, "Black River": innanzi tutto i miei complimenti per l'intro che mischia insieme ruomori di acqua che scorre e urla strazianti in lontananza; ma la vera chicca arriva non appena il pezzo parte, perchè ci sbatte in faccia bestialità pura in forma di riff martellante, potente, tagliente e brutale. Il tutto condito da un sapiente uso del growl che dona all'insieme l'ulteriore vena macabra necessaria a creare l'atmosfera. Perfettamente percepibile è l'influenza di gruppi come Immolation, Deicide e Obituary sopratutto per quanto riguarda l'oscurità dei pezzi, i riff che quasi rasentano il black e, talvolta, la pesantezza voluta di alcuni brani come "Purgatory" ed "Infamous".

Ragazzi, c'è davvero poco da dire se non che i nostri compaesani sono riusciti a comporre un signor album degno dei migliori anni del death metal, per cui mi limiterò a rinnovare i complimenti a questi ragazzi e alla loro capacità di tenere duro in tutti questi anni prima di portare alla luce un prodotto più che valido. Ascoltate "The Black River" e immergetevi nell'oscurità.

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    07 Mag, 2017
Ultimo aggiornamento: 07 Mag, 2017
Top 10 opinionisti  -  

Quando ho iniziato ad ascoltare "Connected/Condemned" degli Jotnar ero un pochino scettico: figuriamoci se dalle Isole Canarie può venire fuori una band melodic death come si deve! E invece, con mio sommo stupore, mi sono ricreduto; e sapete perchè? Perchè gli Jotnar sono un gruppone che ti sbattono in faccia un melodic death moderno da rimanerci a bocca aperta. Piccola premessa prima di parlarvi di questo lavoro: ho dovuto fare un enorme sforzo per non accostastare troppo la band agli In Flames, e tra poco capirete perchè.

Il primo grandissimo elogio voglio farlo alla voce (di solito mi riservo questa parte alla fine ma questa volta ho voluto fare un'eccezione): è qualcosa di spettacolare, un cantato pulito e cristallino ed uno scream molto corposo e naturale come non se ne sentono da un bel pò. Inoltre la cosa che mi ha stupito è la facilità con cui viene usato lo stile canoro di Anders Fridén: sembra che il cantante svedese abbia cambiato connotati e si sia messo a cantare negli Jotnar. Già dalla prima traccia, "Connected/Condemned"; tutta la bravura di Mario Infantes (voce), e della band in generale, si percepisce in un riff veloce, potente, melodico e cristallino tipico del death moderno.
Perchè, come ho detto poc'anzi, ho faticato per cercare di non associare gli Jotnar agli In Flames? semplice: perchè l'album sembra, in tutto e per tutto, uscito dalle menti della band svedese. Non esagero se vi dico che questo lavoro potrebe essere tranquillamente messo nel filone che va da "Clayman" (2000) a "Sense Of Purpose" (2008) ed essere scambiato per un lavoro degli In Flames. L'ulteriore fatica che ho fatto è se elogiare gli Jotnar per la quasi assurda capacità di accostarsi al gruppo di Anders (addirittura a livello di cantato come prima ho detto) oppure se criticarli per questo, poichè, così facendo, rischiano di non distinguersi per un loro contenuto e di essere perennemente associati ad un'altra band. Per cui, per evitare di dividere voi utenti in due file di pensiero, lascio a voi l'ardua sentenza di giudicare e mi limiterò a dirvi che l'album, dal punto di vista di songwriting e riff, è spettacolare perchè si percepisce una profonda conoscenza degli strumenti che riescono ad incrociarsi e a danzare insieme in armonia. Per intenderci, nell'album è presente la cover in chiave melodic death di "Say It Right" di Nelly Furtado, la nota cantante pop, che mi ha lasciato a bocca aperta: di solito non amo le cover, ma questa spacca di brutto e, se non lo sapessi, potrei benissimo dire che si tratta di un brano come gli altri presenti nell'alum.

Insomma, queste righe cercano di farvi capire che l'unico modo per giudicare correttamente "Connected/Condemned" degli Jotnar è ascoltarlo e basta. Solo così potrete farvi un'idea della band e dire se il fatto di assomigliare così tanto agli In Flames, come solo loro sanno fare, sia un pregio o un difetto.

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    04 Mag, 2017
Ultimo aggiornamento: 04 Mag, 2017
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Ormai si è capito, sono un amante del thrash vecchia scuola e del death grezzo e violento e, per quanto possa spaziare con i generi, questi due li avrò sempre nel cuore. Con tale premessa sono lieto e contentissimo di presentarvi gli Hate Unbound, band thrash e death (thrashcore se vogliamo usare termini tecnici) direttamente da Detroit, con il loro "Plague".

Non c'è molto da dire, se non che questo album spacca di brutto: riff cattivi, violenti, grezzi, taglienti...Insomma, una vera e propria macchina da guerra e da carneficina. Vi basti sapere che, tra i gruppi che rientrano nelle influenze della band, vi sono Slayer, Death, Lamb Of God e Metallica. Ma, bando a queste formalità doverose, entriamo più nel dettaglio e vediamo cosa hanno da offrire gli Hate Unbound con il loro capolavoro. Tanto per cominciare devo fare un elogio alle tracce "Baptized In Lies", "Soiled" e "Plagued" perchè, secondo me, sono quelle che più rappresentano il lavoro della band: era da un po' che non ascoltavo dei riff cafoni e cattivi come fossero dei pugni dritti in faccia, senza troppi fronzoli e ghirigori...in un'espressione: pure fucking metal! Non mi stupisce se un gruppo di questo calibro abbia condiviso il palco con Dying Fetus o Belphegor (tanto per citarne un paio).
Altra questione interessante di "Plague" è il fatto che ci sia anche qualche innesto più melodico: se, infatti, prediamo la traccia "Grey Skies", oltre ad essere martellante e violenta, essa presenta delle strofe in cui le chitarre eseguono una parte quasi tendente al metalcore melodico. Ovviamente è solo una piccola cornice poichè la band ha fatto suo il concetto di un album che debba essere una violenta scarica di cattiveria per l'ascoltatore, per cui la vena melodica in "Grey Skies" va presa come una sorta di licenza poetica di contorno.
Infine un encomio va fatto alla voce che, palesemente ispirata a Randy Blythe, mostra di sapersi adattare molto bene ai riff proposti con punte di scream acutissimo e growl più cupo.

Che dire ragazzi, mi ritengo estremamente soddisfatto dopo aver ascoltato per giorni e giorni questo album pauroso, perchè mi mancava un po' di sana violenza nel metal moderno. Se siete appassionati di thrash e death dovete assolutamente ascoltare gli Hate Unbound e il loro mostruoso "Plague"!

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    30 Aprile, 2017
Ultimo aggiornamento: 30 Aprile, 2017
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Urskog è una one man band svedese che ha da poco rilasciato la sua prima demo. Di solito è sempre difficile basare un giudizio su un lavoro parziale perchè non può darci un'idea precisa e dettagliata del gruppo che si ascolta, ma in questo caso mi sono ricreduto. Signori, abbiamo tra le mani un'ottima demo, ben realizzata a livello di post produzione e con due tracce che spaccano di brutto!
La prima cosa che mi è piaciuta della demo è il misto tra death, thrash e sludge, che ci regala un prodotto duro, grezzo, rumoroso e violento, il tutto grazie anche alla vena punk ben percepibile nell'ascolto. Il sound e l'impostazione generale dei pezzi sono molto vecchia scuola, e questo, a noi fans del thrash e del death, può solo che far piacere. Una cosa che mi ha colpito del progetto è il fatto che sia stato realizzato da una sola persona e, ancora di più, che tutto il lavoro sia di notevole qualità per essere una semplice demo, per cui ho enormi aspettative per un futuro ed eventuale album.
Che dire di più se non che gli svedesi, a livello musicale, ci sanno fare e sono tra i pionieri del metal?

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    29 Aprile, 2017
Ultimo aggiornamento: 29 Aprile, 2017
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Quando ho iniziato ad ascoltare "The Robotized World" dei Beyond Description, la prima cosa che ho pensato è stato "Wow, un disco thrash di una band giapponese, sono cuoriosissimo di sentire come si suona da quelle parti!". Insommma, non vedevo l'ora di approcciarmi a questo lavoro e le mie aspettative erano abbastanza alte. Purtroppo, e mi rincresce dirlo, l'album è stato deludente e, per la prima volta, non so neanche cosa dire e da dove partire, perciò cercherò di darvi un'idea generale di quello che ho ascotato.

Ciò che, più di tutto, mi ha dato particolarmente fastidio di "The Robotized World", è la durata delle canzoni: 12 tracce per un totale di circa 22 minuti (in pratica, per quanto poco dura, non mi sono neanche accorto di aver ascoltato un intero album). Sinceramente non riesco a trovare il senso a tracce come "Return", "Target" (questa dura addirittura 1 minuto e 17 secondi!) e "Saucer": con circa 1 minuto e 30 secondi come posso farmi un'idea della band e del pezzo? Non stanno suonando del grindcore ma del thrash metal! Avrò ascoltato questi pezzi almeno una decina di volte e, tuttavia, non riescono a colpirmi. Musicalmente sono molto bravi, infatti la voce mi piace davvero tanto ed è azzeccatissima e gli strumenti fanno un'ottima figura perchè i riff sono sparati, cattivi e violentissimi. Ciò mi fa davvero rabbia poichè, se questo album fosse stato strutturato meno frettolosamente e con più raziocinio, sarebbe stato un signor lavoro; e ciò posso ben affermarlo grazie alla traccia "Chase" che, stranamente, è la più lunga (2 minuti e 51 per la precisione) e mi ha dato modo di apprezzare i Beyond Description e le loro potenzialità.
Consiglio vivamente alla band di rivedere in futuro l'impalcatura generale dei propri lavori e di ragionare meglio su ciò che vuole proporre, oppure rischia di non essere apprezzata per la troppa fretta nel fare le cose.

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    24 Aprile, 2017
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Nel mondo della musica, soprattutto al giorno d’oggi, è necessario proporre sempre qualcosa di nuovo ed innovativo se ci si vuole distinguere: ciò è dovuto al fatto che, ormai, i generi sono saturi e l’unica soluzione è quella di presentare un lavoro che riesca ad unire varie influenze per dare vita ad un prodotto interessante. Gli Athorn, con il loro concept album “Necropolis”, rappresentano esattamente questo tentativo di fondere diverse esperienze in un unico risultato. Tutto il lavoro è incentrato sul tema post-apocalittico: cosa accadrebbe se un meteorite colpisse la terra trasformando gli uomini in morti viventi? Da ciò l’idea di concretizzare in musica il caos, derivante da un simile panorama, presentandoci un misto tra progressive melodic death con innesti power ed epic.

Personalmente ho trovato qualche difficoltà nell’inquadrare questo album in quanto la band non è perfettamente riuscita nell’intento di portare un qualcosa che sia frutto di più generi uniti insieme. Partiamo dalla prima traccia, “Another Day In Hell”, la quale è anche la più bella dell’intero lavoro: qui sono perfettamente percepibili i vari innesti che sono stati applicati in maniera intelligente e studiata, tant’è vero che il riff portante è un ottimo compromesso tra melodic death e power (sembra di ascoltare In Flames e Stratovarius contemporaneamente). Eccezion fatta per “The Dark Breed” dalla struttura violenta e veloce, “Ghost Brigade” nella quale c’è un leggerissimo sentore black e la voce in pulito è davvero molto piacevole e, infine, la ballad “Born In Flames” davvero molto bella e godibile, sembra che gli Athorn abbiano lentamente perso la strada: i pezzi non sono niente male, tuttavia sembra che non siano più un’intelligente unione di vari generi, ma un semplice accostamento, a volte forzato, di diverse influenze musicali; sono brani in cui, anziché avere riff particolari ed innovativi, le influenze sono troppo staccate tra loro e il risultato finale è una mescolanza non molto omogenea.

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    15 Aprile, 2017
Ultimo aggiornamento: 15 Aprile, 2017
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Il nuovo singolo degli Streams è appena uscito e ci permette di degustare un'anteprima di ciò che sarà il loro album. Non si può dire molto essendo una singola traccia, tuttavia è già possibile farsi un'idea sommaria: la band ci sbatte in faccia un death metal feroce con sonorità che sfociano nel deathcore e una melodia di base simil horror, quasi di stampo symphonic. Il brano proposto è molto cadenzato con parti di mosh nelle quali non si può non fare heabanging ed, in generale, il pezzo fila come un treno: violento, brutale, cattivo... un pugno dritto in faccia senza compromessi. L'unica pecca è data dalla voce che, secondo me, andava lasciata più naturale e meno "lavorata" in post-produzione: un vero peccato perchè si tratta di un growl, che sfocia in punte di scream, davvero ben eseguito, molto profondo e che ben si adatta all'insieme.

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    13 Aprile, 2017
Ultimo aggiornamento: 13 Aprile, 2017
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L’anno 2017 dal punto di vista musicale parte davvero bene, soprattutto per la scena melodic death. Finalmente è stato rilasciato “Embers of a Dying World”, il sesto album dei Mors Principium Est: la band finlandese, dopo vari cambi di formazione e una miglior caratterizzazione del proprio stile, ci presenta un prodotto con gli attributi per la gioia di noi fans.


Cominciamo subito con il dire che il sound di questo lavoro è sorprendentemente scuro, violento, disperato e malinconico: un melodic death con innesti death e symphonic. Chi se lo sarebbe aspettato da una band della Finlandia, considerando che da queste parti le sonorità sono più morbide e cristalline (vedasi gli Insomnium)! Se volete farvi un’idea riguardo questo particolare stile non potete non ascoltare “Into The Dark”: tutta la melodia che accompagna il brano sembra provenire direttamente dai migliori lavori dei Dimmu Borgir, ma la band non si limita a questo e ci sbatte in faccia un riff sparato e cattivissimo di indubbia provenienza At The Gates. Passando, invece, a brani come “The Drowning” è percepibile anche l’influenza dei compaesani Children Of Bodom; eppure i Mors Principium Est riescono sempre a mettere la loro firma, vuoi dal particolare scream di Villie, vuoi dalla chitarra inconfondibile. Insomma,è sempre presente un qualcosa che dica “ehi, questi siamo noi e basta!”.
Per non spoilerarvi troppo questo capolavoro mi limiterò a menzionare quella che, secondo me, è la traccia più bella in assoluto, “Death Is The Beginning”: è una specie di ballad tristissima, disperata e con una melodia a dir poco spettacolare… la messa in musica di un pianto agonizzante, poesia pura per le orecchie e per il cuore. Non vi dico bugie affermando di averla ascoltata per due giorni di fila; ed ogni volta la pelle d’oca è d’obbligo.


I complimenti alla band sono assolutamente doverosi perché, con “Embers Of A Dying Wolrd”, entra di diritto nei big del melodic death. È un lavoro innovativo in cui le influenze di vari gruppi e generi sono ben avvertibili e, tuttavia, razionalizzate in un prodotto unico e con molto carattere. La recensione stessa non basterebbe a dare il giusto spazio ad ogni singolo brano proposto, per cui sta a voi ascoltatori procurarvi il prima possibile una copia del disco per assaporarne le varie sfaccettature.

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    04 Aprile, 2017
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Come ho ribadito più volte, oggigiorno sperimentare e cercare di concretizzare idee nuove è la strada giusta per emergere nell’ambito musicale. Questo discorso vale soprattutto per le band emergenti o "minori" che vogliono iniziare a formare il proprio bacino di utenza. Con tutta onestà posso dire che dopo aver ascoltato “A Quiet World”, terzo album dei tedeschi Words Of Farewell, mai le parole sopra dette sono state più vere: questo gruppo ha saputo mettere insieme vari elementi provenienti dal progressive, dal melodic death e qualcosina dal djent dando vita ad un qualcosa che definire spettacolare è dire poco.

Già a partire dalla prima traccia, “My Share Of Loneliness”, è perfettamente riconoscibile l’influenza dei Dark Tranquillity, soprattutto nella tastiera che, e questo vale per tutti i brani, riesce a dare una pienezza all’insieme davvero notevole. Una delle tracce più belle e particolari è sicuramente “Gallows Frame”: questi ragazzi hanno creato una ritmica tendente al djent mantenendo però sonorità melodiche di stampo scandinavo. È un qualcosa di eccezionale, un brano pieno di sentimento da far venire la pelle d’oca. Ecco cosa distingue un lavoro fatto bene!
È doveroso porre attenzione sull’ultima traccia “This Shadow My Likeness” perché sono dieci minuti di pura poesia. Tendenzialmente sono scettico riguardo i brani molto lunghi, in quanto c’è sempre il rischio che l’ascoltatore possa annoiarsi se il pezzo non è studiato in maniera intelligente. Ebbene, i Words Of Farewell ci sono riusciti egregiamente portando una canzone malinconica, triste e molto melodica grazie ad un’ottima armonia tra le chitarre e la tastiera. Senza timore posso affermare che sembra quasi un pezzo dei Dream Theater di cui, tra l’altro, si può sentire l’influenza durante l’ascolto dell’album.
Complimenti, infine, alla voce che ci regala un growl pieno e ben interiorizzato (frutto di molta pratica, e si sente!) ed, in generale, al lavoro di post produzione minuzioso in ogni dettaglio per dare posto a ciascuno strumento.

Che dire, sono soddisfattissimo di questo album ed allo stesso tempo non riesco quasi a credere che questi ragazzi abbiano sempre avuto le idee chiare sul da farsi e su come realizzarle al meglio. Il mio unico consiglio va a voi utenti: ascoltate questa band e recuperate i primi due lavori perché spaccano davvero!

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    28 Marzo, 2017
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Quando si ascolta il primo album di un gruppo non sempre si è in grado di capire quale sia la linea intrapresa. Ciò a causa di due motivi: la mancanza di lavori precedenti con cui fare un confronto e il fatto che il primo album non sempre delinea il genere e, in generale, l’andamento futuro della band. Ovviamente le eccezioni ci sono sempre state, come i nostri connazionali Frozen Hell che, con “Path To Redemption”, ci sbattono in faccia un melodic death dalle mille sfaccettature senza peli sulla lingua, deciso, con personalità e grinta.

Cominciamo con il dire che l’intero album va ascoltato tutto di fila in quanto le singole tracce sono state concepite e strutturate per essere ascoltate una di seguito all’altra. È una decisione azzardata ma, inspiegabilmente, la band è riuscita a dare risalto e personalità a ciascun brano pur realizzando una sorta di singola canzone.
Si comincia con “Stainless”, traccia che racchiude la determinazione dei Frozen Hell con un riff “old school” di ispirazione scandinava, in stile In Flames e Dark Tranquillity tanto per citarne un paio, per poi passare a brani più cattivi, taglienti, spediti e con pochi fronzoli (e a noi piace cosi!) come “Chaotic Hostilities” e “Demons Inside”. Un encomio in particolare va fatto proprio sul piano del genere proposto: i Frozen Hell hanno inserito elementi particolari nei loro pezzi, basti citare “Weavers Of Fate” con un intro arabeggiante e “Unforgotten” dal sapore epic/speed, che sembrano dire “Ecco, questi siamo noi!”
Tuttavia qualche appunto da fare c’è e riguarda la troppa durata di “Quiet Before The Storm”: è un intermezzo (come si evince dal titolo stesso) di quattro minuti abbondanti di cui più della metà sono occupati da percussioni tribali (non nego di aver skippato questa parte) e solo dopo la chitarra propone un gradevole arpeggio che prepara al brano successivo. Un vero peccato perché se fosse stato concepito diversamente sarebbe stato sicuramente valido.


I Frozen Hell hanno dimostrato al mondo della musica che ci sanno fare buttandovisi senza timore, sprezzanti del giudizio altrui e con idee fresche e innovative sotto alcuni aspetti. Si spera continuino su questa via che hanno iniziato a battere perchè ci sono tante idee che bollono in pentola.

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