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Opinione scritta da Luigi Macera Mascitelli

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    30 Giugno, 2019
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Feroci, brutali, cattivi e violenti. Sono questi gli aggettivi con cui oggi vi presento i canadesi Concrete Funeral ed il loro primissimo lavoro "Ultimum Judicium": una vera bomba atomica dritta in faccia per gli amanti del death/thrash. Il mix perfetto tra Exodus, Lamb Of God e le sfuriate micidiali alla Carcass. E volete sapere l'ironia di tutto ciò? Si tratta di un disco autoprodotto, senza etichetta discografica. Da qui un dubbio mi sorge: a quali divinità avete chiesto aiuto per ottenere un prodotto di una qualità eccellente come questa?
Ragazzi non scherzo se vi dico che "Ultimum Judicium" è un lavoro diretto e micidiale che vi prenderà a calci in quel posto! Basta farsi un'idea ascoltando la prima traccia, "Speak Of The Devil": totalmente imbevuta dei Cavalera Conspiracy e di accelerate, è l'opening perfetta che vi farà schizzare il cervello dalle orecchie. Ottima la performance canora in grado di regalarci scream corrosivi e growl potenti e cavernosi. Ancora mi chiedo come facciano questi ragazzi a tirare fuori un prodotto semplice ma di impatto dato che si tratta del primo lavoro in studio -non ci sono né ep, né demo precedenti per quanto ne sappia-.
Menzione onorevole per "Holo-Comb" e "Code Adam",le mie due tracce preferite in assoluto: tutto il talento dei Concrete Funeral è qui e si concretizza in questi brani pieni di groove, blastate e riff tellurici e potenti. Ottimi anche gli assoli di chitarra acidi, velenosi e taglienti come bisturi. Da lodare anche la componente death che non rimane relegata a semplici passaggi, ma che si incastra perfettamente su uno scheletro di puro thrash ottantiano. Prendete i nostrani Coffin Birth e avrete un'idea della proposta dei canadesi in questione.
Bravissimi, tra le migliori uscite underground dell'anno! You Rock!

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    30 Giugno, 2019
Ultimo aggiornamento: 30 Giugno, 2019
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Nascono nel 2013 gli americani Flub con l'Ep "Purpose", e già all'epoca si poteva intuire il potenziale di questi ragazzi. Oggi, dopo sei anni, la band sforna il suo primo album omonimo: una bomba che propone un death metal sperimentale totalmente votato al progressive, al jazz e alla musica latina. Il tutto condito da dei riff in stile The Black Dahlia Murder e Necrophagist. Insomma, un bel calderone di roba che riesce a trasportare l'ascoltatore su altri lidi grazie all'effetto sorpresa: non si sa mai cosa un brano possa contenere e questo non fa che aumentare l'enfasi e il climax man mano che si procede nell'ascolto.
Prendiamo immediatamente come esempio l'opener "Last Breath": si parte arrabbiatissimi con dei riff taglienti e veloci che ricalcano gli At The Gates degli albori. Ma ecco che il brano fa il giro di boa addentrandosi in sonorità e ritmiche completamente diverse, con innesti alla Dream Theater e passaggi spagnoleggianti. Ottimo, anzi magistrale, il lavoro di groove: una batteria così attenta, studiata, ricca di flow, di jazz e passaggi arzigogolati, raramente l'ho sentita. Un po' meno la parte canora che vede uno scream buono ma personalmente troppo strozzato, a differenza del growl cavernoso e potente.
Si prosegue con la splendida "Umbra Mortis" dal sapore djent -mi ha ricordato molto gli Animals As Leaders- ed in grado di offrirci un ottimo compromesso tra il death crudo e l'armonia del metal sperimentale. Finalmente un album in cui la tastiera non è relegata a meri passaggi di abbellimento! Qui la parte strumentale è tutto: ognuno ha la sua parte e contribuisce egualmente al prodotto finale. Questo è il punto di forza dei nostri amici Flub: la perfetta sincronia e sinergia tra i vari membri. Il risultato? Una piccola grande perla. Bravissimi!

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    16 Giugno, 2019
Ultimo aggiornamento: 16 Giugno, 2019
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Finalmente metto di nuovo le mani ad un album di debutto e doppia gioia per il genere trattato: oggi parleremo degli olandesi Distant e del loro primissimo quanto marcissimo "Tyrannotophia", creaturina firmata Unique Leader Records che ci sbatte in faccia un pesantissimo slamming deathcore/downtempo da rimanerci secchi. Ultimamente in redazione stanno arrivando diversi dischi deathcore, segno che -e sono felicissimo di questo- forse si può parlare di una ripresa del genere che da un po' di tempo non sentivo quasi più. Se poi ci aggiungiamo l'abbandono delle sonorità alla Suicide Silence che hanno rotto i cosiddetti ed un ritorno a quelle sonorità primitive e marce del death, ecco che la questione si fa assai interessante.
Questo è esattamente il caso di oggi. I Distant non ci pensano due volte e vogliono debuttare con i fiocchi proponendoci un album di una pesantezza disumana, carico di slamming death alla Kraanium e blastate qua e là per prendere a pugni in faccia l'ascoltatore. Chitarre distortissime e bassissime di accordatura, copertina dell'album accattivante e malatissima...tutto ci fa capire l'intenzione dei nostri amici olandesi: liberare il loro mostro ed entrare con un calcio in faccia nel mondo del death.
La mattanza prende il nome di "Zeroten", l'opening di questo "Tyrannotophia": violenta, cadenzata fino a livelli umanamente accettabili da far saltare la testa per lo "scapoccio". Che dire, poi, della voce di Alan: seppur leggermente effettata, ci regala un pig squeal acido e corrosivo ed un altrettanto ferocissimo growl. Perfette le tempistiche delle strofe in grado di incastrarsi tra una martellata e l'altra rendendo ulteriormente evidente l'influsso slam e downtempo. Ma tranquilli, c'è spazio anche per qualcosina più blastata e veloce con la traccia omonima: qui siamo più su territorio deathcore, seppur non mancando quel filo conduttore che rende l'album un'incudine imponente che ti spappola la testa.
Per tutto l'ascolto si percepisce un senso di terrore e massacro, come se fossimo inseguiti da un pazzo con una motosega accesa. L'effetto è esattamente quello di voler mettere in musica una scena splatter, senza dare troppo spazio ai fronzoli. Grazie anche alla parte melodica e dissonante che accompagna ciascun pezzo, "Tyrannotophia" è il connubio perfetto tra vecchio e nuovo, tra il death feroce in stile Bloodbath e Aborted , il deathcore alla Thy Art Is Murders e Osiah e lo slamming brutale come base di appoggio. Il risultato? Marciume e potenza allo stato puro!
Complimenti ragazzi, ci avete regalato un piccolo masterpiece che vi farà fare strada.

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    16 Giugno, 2019
Ultimo aggiornamento: 16 Giugno, 2019
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Bene signori, oggi per la prima volta vi porto una band israeliana. E che band! Si tratta degli Shredhead: creaturina nata nel 2011 proponendo un thrash metal ottantiano davvero cattivo e di impatto. Dopo aver pubblicato un paio di album con questo stile, il quintetto decide di cambiare rotta con il nuovissimo "Live Unholy". Ora siamo su lidi molto più moderni che ricalcano l'esperienza della band che più di tutte ha dato vita a quel mix tra thrash e metalcore: i Lamb Of God. Esatto, con il loro terzo album gli Shredhead fanno il giro di boa e ci presentano un prodotto a dir poco notevole.
Innanzitutto devo fare i miei più sinceri complimenti alla voce di Aharon Ragoza: un growl ed uno scream praticamente identici a quelli di Jens Kidman dei Meshuggah. La prima volta cheho ascoltato "Live Unholy" pensavo ci fosse lo svedese alla voce! Perfetto per il contesto, in grado di tirare fuori una furia omicida dalle corde vocali... un dieci pieno alla performance. Se poi ci aggiungiamo che l'intero lavoro è un tripudio di riff taglienti e aggressivi, ecco che l'album acquista un valore qualitativo non indifferente. Già dall'omonima traccia che fa da opening si capisce che aria tiri qui. Proseguendo con "Overshadows" o la successiva "King Maggot" i Lamb Of God si sentono tutti: tracce tirate da inizio a fine che faranno uscire i morti in un live. Lavoro di groove impeccabile con una batteria randellante e cadenzata e un blast beat serrato e tellurico. Tutto fila come deve e il quintetto israeliano ci fa capire che forse il cambio di stile era doveroso. Non che i precedenti lavori fossero sprecati o non all'altezza di questo, ma si capisce benissimo che l'intento era spingere ulteriormente l'acceleratore degli Shredhead.
Unico difetto? Forse l'assomigliare un po' troppo a Blythe e soci. Magari aggiungendo quel tocco in più o cambiando qualcosa nell'approccio si potrà tirare fuori un album imponente e fresco. A parte questo appunto che suona più come un mio capriccio personale, consiglio caldamente l'ascolto di "Live Unholy" a chi cerca delle sonorità thrash ma con un approccio più moderno, oppure a chi vuole andare in giro in macchina con un lavoro degno di nota a tutto volume.

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    09 Giugno, 2019
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Attivi dal 2007 e a distanza di cinque anni dal secondo full-length, i britannici Lvcifyre tornano alla riscossa con un nuovo Ep: oggi parleremo del micidiale "Sacrament". Quattro tracce, più una cover, di blackened death feroce e primordiale da far venire la pelle d'oca. No, non è il classico impatto alla Behemoth se è quello che vi state chiedendo; o meglio, non è solo questa la proposta del trio britannico. La cosa che ho apprezzato di più di questo lavoro è il forte senso di evanescenza che riesce a creare: saranno le sonorità quasi oniriche, sarà lo spietato growl con l'effetto eco, saranno i riff ipnotici... non lo so. L'unica cosa certa è la cattiveria claustrofobica e primordiale che si viene a creare durante tutto l'ascolto. Sembra di ascoltare gli Immolation in chiave black, tanto per darvi una vaga idea. Già dall'opening "The Greater Curse" si capisce che le porte dell'Inferno stanno per essere aperte. E parlando di inferno ecco che la mia vena nerd si fa sentire: questo Ep sarebbe la colonna perfetta per il videogioco "Doom". I riff bestiali, la voce cavernosa e ruggente, il senso di malvagità che fuoriesce dal disco, sono perfetti mentre si fanno apezzi dei demoni, tra fiumi di sangue e cervella spappolate.
Complimenti ragazzi, un'ottimo connubio tra death e black per gli amanti delle sonorità old school. Attendo con trepidazione il prossimo full-length!

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    09 Giugno, 2019
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Spesso capita che alcuni dischi arrivino con un anno di ritardo in redazione o finiscano nella mole di roba da recensire, perciò mi scuso in anticipo per la lunga attesa. Oggi parleremo dei cechi Antigod e della loro terza fatica intitolata "W.R.A.T.H.". Totalmente votati al thrash ottantiano e al death feroce degli albori, il quintetto tira fuori una bestia marcia e cattiva da far impallidire l'ascoltatore. Tredici tracce per un totale di trentacinque minuti scarsi: breve durata ma impatto devastante, questa la formula vincente che fa di questo album una vera bomba atomica dritta in faccia.
Ogni pezzo è scevro di qualsivoglia ghirigoro. Qui si mena forte e basta e le smancerie le lasciamo a quelli che ascoltano Justin Bieber.
Se amate band come Carcass, primi Cannibal Corpse e Dying Fetus per la parte death/grind e Sodom ed Exodus per quella thrash, allora gli Antigod faranno al caso vostro. Non ho altro da aggiungere. Ottimo lavoro ragazzi!

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    31 Mag, 2019
Ultimo aggiornamento: 31 Mag, 2019
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Era il 1987, l'anno in cui le porte dell'inferno si aprirono ed un vento gelido arrivò dalla tundra norvegese: i Darkthrone videro la luce. Venne il debutto con "Soulside Journey" (1991), ma Fenriz e Nocturno Culto sapevano che il death non era per loro e con un'aura maligna si spostarono sui lidi che ancora oggi contraddistinguono la leggenda di Kolbotn: black metal feroce e primordiale.
Oggi è il giorno in cui il fuoco nero divampa ancora una volta, carico della furia ottantiana tipica dell'immortale duo: oggi, 31 maggio, esce "Old Star", diciottesimo album della band ed ennesima perla di rara bellezza. Annunciato dalla pubblicazione della traccia "The Hardship of the Scots", l'intero lavoro è stato fino ad oggi pervaso dal mistero, come ormai Fenriz e Nocturno Culto ci hanno abituati: attenti fino all'ultimo affinché non trapelasse nessuna notizia, oltre alle dichiarazioni dei due, l'album si annuncia diretto e votato a quelle sonorità fredde e glaciali da far rabbrividire da inizio a fine. Scevro di qualsiasi ruffianata per imbonire i propri fan, "Old Star" si presenta nudo e crudo ed è lo specchio dell'enorme e disumana cultura musicale che c'è dietro i due storici componenti dei Darkthrone.

Bando alle ciance ed entriamo nelle oscurità infernali. La prima delle sei tracce presenti è la micidiale "I Muffle Your Inner Choir": un'aura nera e macabra da inizio a fine che apre le danze. Veloce, glaciale, spaventosa, carica di odio e rabbia... sembra un tuffo nei vecchi lavori dei Darkthrone, quelle sonorità marce e crude che trasudano Venom e Celtic Frost da tutti i pori. E la voce di Nocturno Culto poi... inconfondibile tra mille altre con il suo scream roco e corrosivo a cui ci aveva già abituato dal precedente ed ottimo "Artic Thunder". E proprio di quest'ultimo vorrei dire qualcosina, basandomi su quanto affermato dallo stesso Fenriz: "Old Star" è il fratello maggiore del suo predecessore, più maturo, definito e diretto...la conseguenza diretta di quanto fatto di buono fino ad ora, a testimonianza del talento quasi disumano che mr. Nagell e mr. Skjellum hanno e dell'altrettanta immunità che i due hanno nei confronti della richiesta del mercato. Col cavolo. Mettendolo in quel posto a tutti coloro che sono ormai schiavi della roba commerciale, i Darkthrone proseguono dritti per la loro strada e suonano solo ed esclusivamente quello che vogliono loro.
Segue la già citata "The Hardship of the Scots" dal sapore black'n roll alla Taake con quel tocco di doom davvero inebriante. Lenta e tagliente è come una lama arrugginita che lentamente penetra la carne. Meravigliosa la batteria di Fenriz assolutamente non triggerata (e guai se lo fosse, sarebbe blasfemia allo stato puro) in grado di dare l'effetto cadenzato prima e più martellante dopo. Un genio, c'è poco da fare!
L'omonima traccia, "Old Star", è la paura fatta musica: la chitarra ipnotica di Nocturno Culto riesce a trasportare su lidi evanescenti in cui il male infernale alberga. Se chiudo gli occhi mi sembra di essere al buio, immerso nella neve in mezzo ad una foresta norvegese. Una glaciale energia oscura pervade la traccia, un'inquietudine che non lascia respiro all'ascoltatore... c'è un motivo se i Darkthrone sono leggendari...
Da citare, poi,"Duke Of Gloat", totalmente ispirata ai migliori lavori degli anni '90: sembra uscita da un "Transilvanian Hunger" (1994) o da un "Panzerfaust" (1995). Tagliente, veloce, tirata da inizio a fine... qui il lavoro di Fenriz e Nocturno Culto è a dir poco sublime e le parole stesse della recensione non basterebbero per spiegare cosa si prova ad ascoltare un brano del genere. Solo chi ama il black ed i più veterani possono capirlo -io stesso da giovane ventitreenne non posso cogliere a pieno cosa voglia dire "Black Metal"-.
"Old Star" si chiude con "The Key Is Inside The Wall" annunciata da un'intro quasi tribaleggiante e cadenzata, per poi esplodere in un tripudio inzuppato da inizio a fine di Heavy metal alla Motorhead, con quel tocco punk tanto caro alla band e la classica impostazione Celtic Frost. Insomma, non manca nulla al brano per essere un masterpiece.

Sei tracce compongono la diciottesima fatica dei Darkthrone. Sei inni alla malvagità infernale che ha immortalato nella leggenda una band giunta al suo trentaduesimo anno di vita. Parlare di black metal quando si tratta del duo Fenriz-Nocturno Culto non è cosa facile, direi quasi impossibile. Solo ascoltandoli ed immergendosi nell'evanescenza ipnotica che riescono a creare si può cogliere l'essenza stessa di un genere crudo e primordiale, ricco di sfumature ed influenze heavy, punk, doom, death e thrash. Ennesima prova della spanna sopra a tutti ed ennesima conferma che c'è qualcosa di non umano in questa band... qualcosa di inafferrabile, un'aura oscura e leggendaria...Grazie...

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    31 Mag, 2019
Ultimo aggiornamento: 31 Mag, 2019
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Sono passati ben 32 anni dal debutto dei Death Angel con il colossale "The Ultra-Violence". Da allora Mark Osegueda e soci, tra alti e bassi -tra cui uno scioglimento-, ne hanno fatta di strada. Eccome se ne hanno fatta! Mai avvezzi ai soliti canoni del thrash ma sempre pronti ad inserire influenze nuove e pattern diversi, restando comunque fedeli alla firma che li ha sempre contraddistinti, il quintetto tira fuori dal cilindro la sua nuovissima fatica uscita proprio oggi (31 maggio): "Humanicide". Signori, un album a dir poco spettacolare -e la recensione potrebbe finire qui per quanto mi riguarda!-.
Un tema forte è quello che accompagna il lavoro: l'umanità si è estinta dopo anni e anni di guerre, capitalismo sfrenato ed egoismo all'ordine del giorno. Solo i lupi (presenti in copertina, tra l'altro) sopravvivono grazie allo spirito del branco e noi dovremmo prendere esempio da loro se non vogliamo incombere nel destino fatale prospettato. Negatività, rabbia, violenza, cattiveria... emozioni forti per un album forte, carico da inizio a fine, inzuppato di energia e rabbia. Insomma: è la denuncia di chi dice "NO" allo stato di cose attuali e vuole mandare un messaggio al mondo per svegliare le coscienze dall'imminente catastrofe. Quando si dice che la musica è un potente mezzo di comunicazione...

Fatta la doverosa premessa, vediamo cosa ha da offrirci il leggendario quintetto di San Francisco. Ad aprire le danze è l'omonima traccia, "Humanicide", anticipata da un'intro epica che carica fin da subito l'ascoltatore per poi esplodere nella violenza più totale. Pugni in faccia martellanti e potenti fatti riff e lavoro di groove granitico e tirato da inizio a fine. Ed è solo l'inizio! Come sempre il buon Mark Osegueda si annovera tra i migliori cantanti in circolazione: prendendo a calci in cu*o -scusate la licenza poetica- l'inesorabile scorrere del tempo, non perde neanche di una pagliuzza il suo vigore e ci regala una performance canora aggressiva, incazzata e roboante... il "NO" di cui sopra.
La mattanza prosegue inesorabile con l'ottima "Divine Defector" dal sapore vagamente death, piena di blastate e accelerate e tirata da inizio a fine dalla doppia cassa dell'instancabile Will Carroll. Suonata in live farà schizzare le ossa nel pit! A seguire abbiamo un pezzo che ricalca al 100% la linea moderna intrapresa dai Death Angel, "Aggressor": ritmiche che si alternano tra stoppate martellanti e arpeggi eleganti. Perfetto connubio tra il passato e il presente.
E poteva mancare un po' di sana influenza crust punk e hardcore? Ma certo che no! Poco più di 3 minuti per la velocissima "I Came For Blood", ma 3 minuti di bordate violente di scapocciate da rompersi l'osso del collo... un altro pezzo che in live lascerà pochi superstiti.
Tutto "Humanicide" prosegue imponente e feroce da inizio a fine, eccezion fatta per "Immortal Behated" che ho trovato poco invogliante e un po' moscia. Sarà la continua alternanza tra lentezza e velocità? Non saprei ad essere sincero; so solo che non mi ha detto granché. Poco importa, si tratta di un piccolo neo su un corpo perfetto.

Le restanti tracce proseguono lisce come l'olio mostrandoci tutta l'esperienza che i Death Angel hanno acquisito in trent'anni di carriera, tra pezzi imbevuti di thrash'n roll ed altri più dal sapore Motorhead che delizieranno i veterani del genere. Il tutto, ovviamente, senza dimenticare il processo evolutivo del quintetto che fa di "Humanicide" la conseguenza diretta del precedente "The Evil Divide" (2016) e consolida ulteriormente la linea intrapresa da qualche anno a questa parte. Un centro pieno per una leggenda del thrash californiano e quasi sicuramente tra le migliori uscite dell'anno. Consigliatissimo!

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    26 Mag, 2019
Ultimo aggiornamento: 26 Mag, 2019
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Sono passati ben 17 anni da quando i nostrani Engine Driven Cultivators vennero fondati. Da allora la proposta è sempre stata una ed una sola: menare forte con del buon vecchio thrash metal ottantiano. Oggi la band laziale torna con il quarto album dopo 8 anni, "Insert Coin".
Ebbene, confesso fin da subito -cercherò di essere diretto e conciso- che mi sarei aspettato qualcosa di più, non il solito album che propone la stessa roba trita e ritrita, soprattutto dopo quasi dieci anni di inattività. Non fraintendetemi ragazzi con quanto appena detto: gli Engine ci sanno fare davvero e tirano fuori delle cannonate quando vogliono ("Red Stripped Police", la furiosa "Stop That Gorilla" e la simpatica "Dual Strike che inizia e finisce con il verso di Bud Spencer in "Altrimenti ci Arrabbiamo"). Il problema è che tutto sa troppo di "già sentito". Amo il thrash e sono cresciuto con esso, ma bisogna riconoscere che è facile perdersi nella miriade di album del genere già presenti sul mercato e gli Engine hanno questo difetto. Dopo otto anni mi aspetto qualcosa di fresco e genuino e non un lavoro di cui si poteva fare tranquillamente a meno. E non voglio nemmeno soffermarmi sul lavoro di post produzione non eccellente -forse per dare quel tocco di anni '80 in più? Chi lo sa- soprattutto per quanto riguarda i volumi e la pulizia del suono. Da questo punto di vista c'è stato un calo rispetto al passato.
Infine, nota dolente che,a mio avviso, penalizza da sempre il quintetto laziale, è la voce di Alessandro Giorgi: piatta, inespressiva e inadatta al genere perché riesce a smorzare clamorosamente la furia e la violenza delle tracce -io cercherei un tipo di cantato alla Bobby "Blitz" Ellsworth (Overkill) o alla Steve "Zetro" Souza (Exodus)-.
Un vero peccato per questo "Insert Coin" che posso tranquillamente definire un album di cui si poteva fare a meno. Un ascolto lo consiglio comunque, dato che tracce valide (quelle sopra citate) ce ne sono; ma nulla di più. Consiglio di rivedere la formula proposta. In bocca al lupo!

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    26 Mag, 2019
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Siamo già abituati a band virtuali che esistono sotto forma di cartone animato (vedasi Gorillaz e Dethklok), perciò l'argomento di oggi non sarà nuovo per molti di voi, ma vi assicuro che merita la sua attenzione. Correva l'anno 2015 e J. P. Ahonen, illustratore e fumettista finlandese, iniziò a creare la sua webcomic intitolata "Belzebubs": divertentissimo fumetto che vede come protagonisti quattro membri di una famiglia di blacksters che, tra metal estremo, satanismo e cliché vari del genere, è sempre in preda a rocambolesche avventure.
Quattro anni dopo la Century Media Records fa sapere al pubblico che avrebbe prodotto il primo disco della band e, quasi come un fulmine a ciel sereno, “Pantheon of the Nightside Gods” ha preso finalmente vita. Ultima nota prima di iniziare: non si sa chi ci sia agli strumenti. Rumors dicono possa nascondersi Niilo Sevänen degli Insomnium -e in effetti la voce sembra proprio la sua, come pure lo stile delle tracce-, ma nulla di confermato.

Come avrete sicuramente immaginato, il genere proposto non poteva che essere il black metal. Anzi, a dirla tutta si tratta di un melodic death totalmente imbevuto di black metal per un totale di nove tracce e circa una cinquantina di minuti di sonore sfuriate. Ad aprirci le danze è la malinconica intro di "Cathedrals of Mourning" che fin da subito non lascia spazio ai fronzoli per partire, invece, a mille: fredda, glaciale e micidiale, la traccia di apertura non batte ciglio e ci regala un brano solido e compatto, totalmente votato al black sinfonico di Emperor, Cradle of Filth e Dimmu Borgir. Ottima la performance canora che, e lo ripeterò fino alla morte, ricorda fin troppo Niilo Sevänen: è sicuramente suo quel growl così cavernoso e potente, ascoltare per credere. Si prosegue con la mia traccia preferita di cui, tra l'altro, è disponibile un video su YouTube, "Blackened Call": la migliore riuscita di questo "Pantheon of the Nightside Gods", con il suo riff che ricorda molto "I Am The Black Wizards" degli Emperor e lo splendido intreccio delle chitarre che dà quel forte tocco di melodic death finlandese.
Ma non è tutto oro quello che luccica. Sono due le pecche di "Pantheon of the Nightside Gods": il risultare prolisso alla lunga e il senso di "già sentito" che pervade le tracce una dopo l'altra. Per quanto riguarda il primo punto c'è poco da dire: lo stile proposto dai Belzebubs può risultare noioso dopo svariati ascolti, soprattutto per quelle lunghe parti melodiche e le ultime due tracce strumentali "Nuns in the Purgatory" e "Maleficarum - The Veil of the Moon Queen, Pt. I" che non aggiungono nulla se non ulteriore noia. Skippate ogni volta.
Sul secondo punto, invece, mi aggancio a quanto ho detto nell'introduzione riguardo Niilo Sevänen . Non riesco proprio a togliermi dalla testa gli Insomnium ogni volta che ascolto "Pantheon of the Nightside Gods": è un continuo -e mi verrebbe quasi da dire palese- richiamo a "In The Halls of Awaiting". Sembra che i Belzebubs vogliano riproporre il lavoro degli Insomnium in chiave black; da qui il fatto che tutto il lavoro è pervaso da quel senso di "già sentito".

In definitiva il progetto è riuscito piuttosto bene con i suoi alti e bassi. Un simpatico ed interessante lavoro per chi ama il black ed il melodic death con il suo alone di mistero dietro.

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