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Opinione scritta da Gianni Izzo

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Opinione inserita da Gianni Izzo    25 Novembre, 2020
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Questo quintetto di pirati, reclutati nel 2014, con un Ep del 2017 alle spalle, viene da una di quelle terre europee in cui il mare proprio non c’è, la Svizzera, ma è sempre bello immergersi nelle epopee piratesche e nelle atmosfere che questa folk metal a tema ripropone. Mi sarebbe piaciuto dirvi che se anche voi siete rimasti con un po’ di amaro in bocca per l’ultimo degli Alestorm, in cui la loro voglia di cazzeggio ha surclassato la bontà degli stessi brani, potevate far vostro senza remore questo “Surrender or die” dei Calarook, ma i nostri hanno voluto mettere fin troppa carne sul fuoco, 16 tracce per più di un’ora di musica, ma non sempre all’altezza delle aspettative purtroppo, quindi niente, dovremmo analizzarne pregi e difetti prima di tuffarci nei mari insieme ai Calarook. Innanzitutto dobbiamo dire che la band, conserva si i ritornelli pirateschi e l’epicità, ma son decisamente lontani dal power metal scanzonato degli Alestorm o dall'heavy più serioso degli storici Running Wild. Di base, i Calarook sono una band melodic death metal, quindi tanto growling, ritmiche serrate, fino ai blast beat, ma con una deriva e con tematiche da scorribande caraibiche. Nei testi ci sono i classici temi storici e leggendari amati da questo genere, dallo Kraken, a Davy Jones, dal Rhum alle tempeste di mare e le sue maledizioni di sorta, fino a Calico Jack con un'aggiunta di sano umorismo, vedi ad esempio "Invisible Pinapples".

Se siete curiosi, lascio a voi la scelta di vedere dove vi portano le coordinate dell'ottima intro sinfonica che ci immerge nei mari di qualche secolo fa, e poi si comincia con riff rocciosi, e due ottimi ritornelli che fanno parte delle prime schiaccia sassi “A Cursed Ship’s Tale” e “Quest For Booze”. Dopodiché l’album mostra il fianco per la prima volta con la tediosissima e fin troppo lunga “Into The Storm”, dove i ritmi rallentano, chiedono forza ad un groove metal scialbo e monocorde. Si procede per fortuna con episodi degni di nota, “Kraken’s Chest”, “Jack Rackham”, la simpatica “Kicking Flamingos”, la drammatica “Davy Jones’ Locker”, con i suoi riff di chiara matriche viking. Il violino arricchisce puntualmente le tracce, ed anche se alcune passano pressoché inosservate, l’eco delle sue melodie si lascia memorizzare in fretta. Direi che se i Calarook avessero limitato il disco, proponendo non più di una decina di canzoni, scegliendo solo le migliori del lotto, staremmo parlando di un ottimo album, sicuramente più fruibile, purtroppo hanno scelto altro, il risultato è una sufficienza piena, sperando che la band sia più accorta in futuro e non esageri nuovamente, almeno che non abbia in mano dei brani potenzialmente irreprensibili. Si tratta di un autoproduzione, ma i suoni sono più che discreti, ci sarebbe piaciuta più amalgama, ma va bene così.

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Opinione inserita da Gianni Izzo    29 Ottobre, 2020
Ultimo aggiornamento: 29 Ottobre, 2020
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Formatisi nel 2003, i canadesi Protokult si presentano come una pagan folk metal band, che passa solerte attraverso i vari sottogeneri del metal, dall’heavy più classico, al power, fino al melodic death che è alla base della maggior parte della loro produzione, anche se il vero punto forza del gruppo è rappresentato dalla cantante e arpista Ekaterina Pyatkova che affianca il cantante, polistrumentista e fondatore della band Martin Drozd.
“Transcending The Ruins” è il terzo lavoro della band, un disco che rappresenta tutto l’armamentario musicale dei Protokult, non esaltato degnamente nei suoi migliori momenti, da una produzione un po’ troppo impastata e retrò, peccato.
Il meglio della proposta arriva verso la metà di “Feed Your Demons”, esattamente con l’entrata da protagonista della Pyatkova, che dà la prima virata decisiva al sound dei nostri che in verità fino a questo momento risultano un tantino piatti e fini a se stessi. La vocalist introduce i canti slavi che hanno fatto la fortuna anche dei momenti più accessibili dei russi Arkona. Si passa quindi ad un ottimo brano in pieno stile power metal anni ’80, anche questo forse un po’ retrò per i tempi, ma non possiamo dire che “1516” non sia comunque un’ottima prova musicale.
Con “Oy Kanada” si passa invece ad uno dei momenti più folk del disco, pieno di grinta e di cori immediatamente memorizzabili. C’è tempo anche per un salto nella musica classica con brani come “Wenches” che ha un inizio in stile musical, per poi farci ascoltare la voce della vocalist anche in versione lirica. “Rusalka”, “Troubled Lad” rappresentano altre degni punti a favore dei canadesi, che però inciampano nuovamente nelle monotonia sul finale, a causa soprattutto di un brano fin troppo allungato come “Dead New World”.
“Transcending The Ruins” è un buon lavoro, ci mostra dei musicisti preparati, ma che pecca forse di qualche saliscendi di troppo e, di qualche momento scoraggiato da una forzata prolissità, ma custodisce in se diversi episodi degni di nota.

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Opinione inserita da Gianni Izzo    12 Ottobre, 2020
Ultimo aggiornamento: 12 Ottobre, 2020
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L’omonimo album degli americani Winter Nights, ha avuto un processo parecchio lungo, basti pensare che “An Endless Apocalypse”, la loro precedente release è uscita nel 2015 ed è da allora che i fratelli Farfan hanno cominciato a scrivere e registrare i brani di questo disco. Infatti alcuni pezzi sono stati proprio registrati già qualche anno fa, mentre alcuni sono stati aggiunti ultimamente. Ma chi sono i Winter Nights? Sono nati nel 2007 a Brooklyn grazie ai due fratelli, entrambi chitarristi e vocalist, Efrain e Jeremy Farfan. Nell’immaginario dei testi, così come il suggestivo artwork, e lo stesso moniker, sembrano essere una band dal forte richiamo viking/pagan, quindi dediti ad un certo tipo di musica che nell’accezione conosciuta ai più potrebbe ricordare gli Amon Amarth, band che appare tra le ispirazioni dei Winter NIghts. Ma per quanto loro stessi si definiscano una melodic death metal band, bisogna prendere il tutto con le pinze. Il loro sound si incastra molto bene con il primissimo melodic death, quando il death era ancora preponderante rispetto ad un certo approccio più epico e catchy. Quindi questo disco omonimo è innanzitutto un martellante ed oscuro lavoro death metal, con qualche apertura melodica, ma sempre molto sinistra, inquieta. E' più facile ritrovarsi con rallentamenti dai tratti malinconici e doom, o tra fredde sfuriate dalle reminiscenze black, che fantasticare di battaglie e paesaggi alla Game Of Thrones. Quindi siete avvertiti, se amate il death dei primi anni novanta, dalle atmosfere particolarmente oscure, con qualche leggera inflessione melodica, i Winter Nights fanno sicuramente per voi; se siete abituati ad ascoltare melodie alla Iron Maiden e Manowar ma con il growling, in questo caso, vi sentirete abbastanza spiazzati.
Nonostante il fatto che le canzoni siano state registrate in periodi differenti, il sound risulta compatto, non siamo di fronte ad una produzione eccezionale, ma è abbastanza buona da farci godere della potenza di pezzi come l’opener, o della cattivissima “Withdrawals”. In generale siamo di fronte ad una prova sufficiente, non particolarmente originale, ma sincera nel suo voler sottolineare l’amore per il metal estremo, fatto con gusto, a cui andrebbe aggiunta giusto qualche limata qua e là per rendere alcuni passaggi un po’ meno scolastici e poter davvero pensare in grande.

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Opinione inserita da Gianni Izzo    02 Ottobre, 2020
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Il quartetto di Boston ha debuttato quest’estate con il potente “Virtues Of The Vicious”. Nati da un’idea del chitarrista Jon Morency e del vocalist già in forza di Ross The Boss, Marc Lopes, i Let Us Pray sono una macchina schiaccia sassi che miscela un po’ tutto, da un thrash molto tecnico e moderno, fino all'heavy classico alla Judas Priest, ma anche sfuriate death, aperture melodiche sempre molto oscure e graffianti. Insomma non vi aspettate qualcosa di epico o classico in stile Manowar, qui siamo di fronte ad una band moderna che vi scaraventerà addosso un tripudio di energia e sostanza.

All'interno del disco ci sono parecchi ospiti: Jonathan Donais degli Anthrax, Chlasciak (già con Helford e Testament), Jimi Bell degli House Of Lords, Matt Fawcett degli Sinate, fino al compianto Oli Herbert (All The Remains), senza dimenticare il batterista Yanni Sofianos degli Obsession.

Insomma “Virtues Of The Vicious” è un’opera in grande dove ogni strumentista ci stuzzica con la sua bravura, ma è ovvio che la maggior parte dell’attenzione va proprio a Marc Lopes, libero da ogni costrizione, esprime tutte le declinazioni delle proprie corde vocali, dalle parti pulite, agli acuti Helfordiani, tra voci graffiate e growling, non sbaglia davvero un colpo. I brani sono forsennati, estremamente dinamici, uniscono il metal dei grandi del passato al metal più moderno, con qualche parentesi persino industrial. La produzione è molto buona, si sentono tutte le sfumature di ogni brano, senza togliere niente alla potenza del medesimo. L’opener è anche la regina dell’intero album, perfetto equilibrio tra le ritmiche telluriche e la melodia, ma abbiamo che l’immediata “Pray”, la title-track, l’oscura e più “calma” “In Suffering”, fino a sfociare nel delirio di “Halo Crown” e “Murder Thy Maker” che sono annoverate tra gli episodi più violenti del disco. In tutto questo i Let Us Pray ci sorprendono con arpeggi pianistici che escono fuori da riff dove non ti aspetti certo il dolce suono di un pianoforte. Forse l’unica traccia un po’ più difficile e che non mi ha lasciato molto è la conclusiva “And Hell That Followed…”, minore come riuscita, ma semplicemente perché abbiamo pezzi di alto livello per tutta la durata di questo “Virtues Of The Vicious”. Complimenti!

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1.5
Opinione inserita da Gianni Izzo    14 Settembre, 2020
Ultimo aggiornamento: 14 Settembre, 2020
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E’ stato bello ascoltare dopo tanto tempo, quello che considero l’ultimo baluardo musicale degli In Flames. Seppure per i più puristi, anche questo disco è stato considerato una sorta di tradimento musicale, l’ho sempre trovato coerente con quanto fatto fino ad allora dalla band svedese. Una buona via di mezzo, tra la voglia di mainstream e le proprie radici musicali, con un sacco di classici e buonissime tracce: dall’opener, a “Pinball Map”, dalla title-track a “Only For The Week”, “Square Nothing”, “Brush The Dust Away”…

Lo sappiamo che gli In Flames hanno optato per una metamorfosi radicale del loro sound e della loro immagine, e forse i fans più giovani neanche conoscono come suonavano gli In Flames fino al 2000. Festeggiare i vent’anni di “Clayman” per mostrare proprio agli ultimi fans qualcosa di importante del proprio passato, potrebbe pure valere una riedizione del disco, che tra l’altro ha anche una copertina più accattivante rispetto a quella originale.
Il voto non è certo riferito quindi al valore di “Clayman” la cui bontà rimane intatta ed ancora estremamente piacevole, nonostante il ventennio che lo separa dalla propria nascita.
Purtroppo però il lavoro è stato “arricchito” da ri-registrazioni dei brani più conosciuti del disco, ed un inedito strumentale, di quelli da un ascolto e approvazione, ma senza nessuna possibilità di trovare la voglia vera di riascoltarlo. Riferimento del titolo a Brahms, “Themes And Variation…” è un medley di “Clayman” riproposto da violoncelli.

Le quattro canzoni ri-registrate dalla nuova line up, a livello compositivo cambiano leggermente, qualche tocco di batteria, qualche taglio, sicuramente la voce mezza disastrata del vecchio Friden non aiuta, ma in realtà le tracce seguono complessivamente le loro alter ego più anziane. E’ il mix e mastering che però le massacra totalmente. Per un attimo ho pensato che le mie casse si fossero rotte. Il sound è tremendamente ingolfato, le chitarre abbassate ed impastate, la batteria sembra suonare dalla camera accanto. Sembra che una scimmia si sia messa a mixare i brani, livellando a casaccio i suoni. Inascoltabile, davvero. Quasi nessuna band tende a cavarsela nel riproporre i propri pezzi in una versione differente, pensavo che le cose peggiori in questo senso siano state pubblicate dai Manowar, ed invece no, gli In Flames si prendono lo scettro della peggior cover band di sé stessa. “Clayman” per me rimarrà sempre un signor album, le cose “nuove” aggiunte a coda del disco sono degne dell’indifferenziata.

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3.5
Opinione inserita da Gianni Izzo    10 Settembre, 2020
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Formatisi nel 2017, i romagnoli Kalahari, dopo qualche demo ed Ep, sfornano questo mini concept di 5 canzoni intitolato “Theia”.
Fondamentalmente ci propongono un metal moderno, patinato, tra galoppate metalliche proprie del metal più classico, fino ad arrivare alle ritmiche potenti del thrash/groove metal odierno.. Ci sono diversi momenti spinti, ma al primo piano rimane sempre molta melodia. Una melodia sentita e drammatica che presenta al meglio il tema apocalittico del disco, che utilizza la mitologia greca come metafora della triste epoca che stiamo vivendo. Le 5 canzoni hanno degli approcci abbastanza variegati, ci sono pezzi “in your face” come “Zombie Night”, ma anche più articolati, dove si passa soavemente tra parti acustiche e dei bei soli di chitarra elettrica come in “I Am The Mountain”. La grintosa title-track è tra le mie preferite, ma non ci sono particolari cali di tensione, se non laddove l’attenzione per il groove diviene ossessiva, ed i ritmi cadenzati diventano un po’ troppo ridondanti. La produzione è ottima, la voce eclettica del cantante Nicola Pellacani altrettanto. Ma tutti i musicisti mostrano un buonissimo grado di tecnica, e rendono “Theia” un buon primo assaggio in grande stile, di questa nuova realtà italiana. Aspettiamo di vedere come si evolverà il songwriting dei Kalahari nel tempo, e se la band riuscirà a mantenere alto il livello di ispirazione anche lungo un album intero. Per ora il risultato è molto soddisfacente.

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Opinione inserita da Gianni Izzo    10 Agosto, 2020
Ultimo aggiornamento: 11 Agosto, 2020
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Il 2019 ha sancito 15 anni di carriera per la power metal band tedesca. 15 anni in cui i Powerwolf sono sicuramente cresciuti in notorietà, grazie ad un songwriting deciso, tremendamente catchy, e che si allontana dal classico power metal, sia per la volontà di portare avanti un’immagine molto gotica, nel vestiario quanto nelle canzoni, sia per il vocione di Attila Dorn, rappresentante sui generis del particolare vessillo oscuro dei Powerwolf.
A me piacciono molto, nonostante palesano ultimamente qualche pecca, un po’ ridondanti sia nei giri di chitarra, nei titoli, nei testi.
Non ci pensano minimamente di fare capolino fuori dalla propria comfort zone, e come succede anche ai Sabaton, secondo me, il loro nome è fin troppo pompato dalla label, con uscite su uscite che li tengono perennemente sul mercato, ma che al contempo un po’ lo ingolfano.

Ed infatti non ci si poteva fa sfuggire un buon anniversario per dare in pasto ai fans, un best of, ed un ennesimo live come secondo cd. Certo, tagliare le ultime 4 canzoni del “Live Sacrament”, solo per aggiungerle in un’altra edizione ancor più costosa, è stata una mezza carognata per quel che mi riguarda, ma detto questo, andiamo al sodo.
Il "Best Of The Blessed" è una raccolta di tutto rispetto, ovviamente i più grandi successi della band ci sono, poi a seconda dei gusti, per qualcuno mancherà sempre qualche pezzo iconico, e ci sarà qualcuno che avrebbe voluto evitare di mettere qualche brano, ma siamo nel pieno delle regole, non si può accontentare tutti. I Powerwolf hanno poi deciso di svecchiare qualche brano, ri-registrandolo nuovamente, la differenza si sente soprattutto con “Kiss Of The Kobra King”, portata di nuovo a lucido, per il resto, le ri-registrazioni sono ancora più compresse e arricchite di orchestrazioni e cori, forse non se ne sentiva il bisogno, anche perché la produzione di molti brani è talmente recente che era ottima già così. A questo punto mi sarei concentrato sui pezzi più vecchi e basta, invece vediamo che i Powerwolf han rimesso mano sopratutto sugli ultimi successi della loro discografia.

Il secondo cd ci presenta nuovamente la band in versione live, la loro esecuzione è ottima, il loro dialogo col pubblico anche, spero di riuscire a vederli dal vivo, perché il coinvolgimento è assicurato.
E’ ovvio che questo nuovo prodotto sia un’ennesima mossa commerciale, forse potrà interessare qualche fan che vuole collezionare ogni singola uscita della propria band preferita, ma visto che i brani sia nel best of, sia in versione live, alla fine sono stati dati già abbondantemente in pasto al pubblico già con precedenti produzioni, salvo un paio di canzoni qua e la, direi che “Best Of The Blessed” è un'uscita dedicata sopratutto a chi ancora non conosce bene i Powerwolf, sicuramente ottimo per farsi un’idea di come suonino dal vivo ed in studio. Per noi altri, a mio avviso, abbiamo già tutto ciò che ci serve della band, io per primo salterò quest'uscita ed aspetterò volentieri il prossimo nuovo album.

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Opinione inserita da Gianni Izzo    31 Luglio, 2020
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Siamo giunti all’ottava fatica nella carriera quindicennale degli Ensiferum. Dopo un non memorabile album come “Two Paths”, e l’uscita di Netta Skog dal gruppo, i finlandesi hanno arricchito la propria line up con il tastierista e, soprattutto prodigioso vocalist, Pekka Montin, già in forza ai Judas Avenger. Ovviamente, e per fortuna, le harsh vocals del grande Petri Lindroos non scompaiono, ma certo è che gli Ensiferum vogliano continuare la strada intrapresa già negli ultimi due album, cioè aumentare le clean vocals, e spostarsi sempre di più dal pagan metal delle origini, verso un misto tra melodic death e power metal dalla forte caratterizzazione folk. “Thalassic” è il primo concept del gruppo finlandese, un concept su miti e leggende legate al mondo marino.
Le canzoni ci sono, e la qualità che porta alle clean vocals il nuovo Pekka Montin, non è da sottovalutare. La sua è una voce cristallina, ma con l’aggiunta di ottimi acuti graffiati a la Eric Adams, che aggiungono quel quid in più che serve ai brani. Brani ormai stemperati dall'irruenza battagliera che avevano fino a qualche tempo fa, e che forse sarebbero stati fin troppo “eleganti” per i nostri, se non fosse stato per l'interpretazione di Pekka Montin.
Ma va bene, l’importante è aver ovviato alle grosse difficoltà delle linee vocali in clean, palesemente riscontrate soprattutto nel precedente “Two Paths”. Non siamo più nel periodo d’oro della band, e neanche in quello argentato di “One Man Army”, ma ci possiamo ritenere soddisfatti di questo nuovo disco. Dopo un'opener sinfonica molto evocativa, gli Ensiferum ci sbattono in faccia subito il singolo “Rum, Women, VIctory”, ottimi riff, bel refrain, ritmiche serrate e belle cavalcate a fare da intermezzo, un classico preannunciato.
“Andromeda” è più cadenzata, buona heavy song dall'atteggiamento epico, il sostanziale appoggio di Montin, si fa più presente in questa canzone, e continuerà a crescere nelle altre. Gli Ensiferum gli confezionano praticamente un paio di pezzi tutti per lui, i toni metal-western di “The Defence Of The Sampo” e l’epic metal di una “One With The Sea” che rischia di essere prolissa e fin troppo romantica, ma alla fine gli Ensiferum riescono a darle giustizia con un po’ di mestiere.
Su “Run From…” si torna a fare sul serio, non sarà indimenticabile, ma il combo delle vocals si da il cambio continuamente con estrema precisione su un bel up tempo molto furbo, che riesce a rimanerti in testa fin dal primo ascolto. “For Sirens” sembra uscita dalla penna degli ultimi Amorphis, mentre gli Ensiferum si danno al classico brano da pub con la folkettissima “Midsummer Magic”. Il finale è ben congegnato con “Cold Northland”, inizio drammatico e rabbioso, che sfocia in un blast beat con riff viking, sul quale esplode il resto del brano.
No, non sono gli Ensiferum dei primi 4 album, ma con un po’ di mestiere, un po’ di ispirazione, i nostri hanno saputo mettere su un disco dignitoso sotto ogni aspetto, ed hanno dimostrato di aver ritrovato la loro via, che sembrava un po' persa solo un paio di anni fa.

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Opinione inserita da Gianni Izzo    15 Luglio, 2020
Ultimo aggiornamento: 15 Luglio, 2020
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Formatisi nel 2010 e capitanati dal chitarrista e cantante Jonathan Vaberbildt, i Celitc Hills sono un trio friulano, fondamentalmente legato al primo speed e power metal teutonico per ritmiche serrate e melodie, in stile Grave Digger, Running Wild, ed Helloween pre Michael Kiske, con qualche influenza epica a la Manowar, e tanti sconfinamenti nell'Hard Rock. Ci dicono di essere influenzati anche dal viking, e sicuramente l'iconografia e il concept dei testi supporta questa tesi.

Risultano due dischi all'attivo prima di questo “Blood Over Intents”, il contratto dei friulani con la Elevate Records avviene quest'anno invece, ed il risultato di tale sodalizio è rappresentato da questa mezz'oretta di musica molto diretta e senza tanti fronzoli, che racconta la battaglia tra i nativi di Cividale Del Friuli contro i Romani.

La voce sporca di Vaberbildt si sposa perfettamente con l’attitudine principale della band, che credo che nella versione live possa dare il meglio di se, grazie al sound selvaggio e da strada che propongono per la maggiore. Tanta potenza ritmica, che vede i suoi momenti migliori nelle azzeccate “Blood Flows Down” e “A Happy Abdicant King” che ha anche un ottimo refrain.

L’altro lato della medaglia ci mostra una band che non mischia sempre bene le proprie influenze, talvolta l’epicità sembra essere ricercata e poi strozzata da un riffing molto graffiante, ma decisamente poco evocativo e più legato ad attitudini appunto hard rock e di scuola NWOBHM.
Abbiamo poi un'opener in pieno stile viking/melodic death scandinavo, ma che non ritrova in se ne dei riff indimenticabili, ne una prova vocale degna del momento, si sente che il cantato estremo non è nelle corde di Vaberbildt, che si trova molto più a suo agio con un cantato di vecchia scuola, legato agli stilemi del metal più classico e acido degli anni ’80.
Il fatto che “Forum Julii” sia a se stante, apra un disco che nelle altre 6 canzoni cambia completamente registro adagiandosi appunto su uno speed/power d’annata, non è stata secondo me la scelta migliore per i Celtic Hills.
Anche la produzione non dà purtroppo il giusto contributo a far emergere i brani, i suoni risultano un po’ slegati, e sembra davvero di tornare indietro nel tempo, a lavori come “Walls Of Jericho” degli Helloween, o i primi quattro album dei Manowar. Non so se sia una scelta per esaltare quel periodo musicale, ma non la trovo proprio una decisione vincente nel 2020. Non dico che il sound debba risultare super patinato e plasticoso come molte nuove produzioni, ma una buona via di mezzo è giusto trovarla.
Aspetto di vederli live, perché secondo me i Celitc Hills hanno delle buone carte da giocare, ma che non sono riusciti a sfruttare al meglio su “Blood Over Intents". Si sente la bravura dei musicisti che arrivano a proporre comunque momenti abbastanza interessanti, ma i Celtic Hills devono ancora smussare qualche sbavatura di troppo. Il lavoro non è pienamente sufficiente, ma credo che gli amanti del metal vecchio stampo possano apprezzarlo. Noi, dopo averci pensato tanto, abbiamo deciso di premiare "Blood Over Intents" in ogni caso, perché si sente la passione ed il cuore del trio nelle composizioni, i buoni momenti escono fuori, pur con tutti i difetti del caso.

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2.5
Opinione inserita da Gianni Izzo    29 Giugno, 2020
Ultimo aggiornamento: 29 Giugno, 2020
Top 10 opinionisti  -  

I Devil Crusade sono un trio bolognese, dedito ad un thrash metal che si lega molto agli esordi del genere, ma con qualche sperimentazione sonora più moderna che andrebbe approfondita, perché rappresenta il tratto più distintivo della band.

Nati nel 2014, i tre musicisti, arrivano prima ad un omonimo Ep uscito nel 2017, per poi approdare a quest’ultimo lavoro intitolato “Mental Breach”, disco di 8 tracce, non troppo lungo, quindi facilmente fruibile dall'inizio alla fine.
Pur regalandoci alcune fughe musicali molto accattivanti, sia dai tratti più melodici, come la parte strumentale di “Raperiest”, sia più dure e graffianti, andando dietro a band quali Slayer o Exodus (ci riferiamo sempre alle primissime sonorità di entrambi), come nella title-track, i Devil Crusade sembrano dover fare ancora un po’ di strada per riuscire ad esprimere al meglio le proprie idee. In “Mental Breach” si respira l’aria di un gruppo ancora un po’ acerbo, e derivativo. Certi cori, certe linearità, andavano bene a metà degli anni ’80. Pur essendo sicuro che le ritmiche veloci e i killer riffs più riusciti, facciano il loro bell'effetto in sede live, un disco con queste sonorità, sembra stonare nel 2020.

Da un punto di vista strettamente tecnico, tralasciando una produzione che non aiuta i brani ad emergere, il più grande problema dei Devil Crusade al momento sta nella voce del chitarrista Rock’n’Blond, che purtroppo non risulta essere né abbastanza dura da amalgamarsi alle parti più estreme del sound dei Devil, né sufficientemente tecnica, e questo penalizza non poco i brani.
Molto meglio, come dicevo ad inizio recensione, suonano alcune acide sperimentazioni che hanno un po’ il sapore dei System Of A Down più schizzati, e dove lo stesso vocalist si esprime molto meglio, “Bonobo’s Nightmares” da questo punto di vista, risulta essere una dei brani più rappresentativi, anche se le mie atmosfere preferite sono sicuramente quelle sinistre e dal sapore mediorientale di “Executioner”.
Ancora un po’ di allenamento e sono sicuro che i Devil Crusade sapranno dire molto meglio la loro, per ora, pur sottolineando alcuni episodi riusciti, non siamo ancora sulla sufficienza piena per quel che mi riguarda.

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