Opinione scritta da Celestial Dream
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Top 10 opinionisti -
Terzo capitolo per gli svedesi Seventh Crystal, band elettrizzante che si distingue dal solito sound melodic hard rock grazie alle influenze nordiche che riesce ad inserire nel proprio sound. E parliamo di musica estrema con chitarroni distorti – e dalla produzione moderna – che sfociano su territori decisamente più metallici. “Entity” è quindi un disco interessante che dovrebbe attirare le attenzioni di molti appassionati anche se i puristi potrebbero storcere il naso.
Fin dall'apertura con “Oathbreaker” è evidente quanto detto sopra; i suoni sono bombastici, la voce di Kristian Fyhr alterna passaggi più moderni ad altri – rari - aggressivi che possono ricordare quasi il growl. La band di Goteborg mostra influenze prog (“Thirteen to One”) ed un impatto melodico sempre importante come dimostra l'iper-catchy “Architects of Light”. La voce di Kristian è davvero superlativa e capace di interpretare sempre bene melodie vocali dal facile ascolto. La robusta “Blinded by the Light” punta su riff corposi e non manca qualche momento che si avvicina maggiormente alla scena alternative, come “Push Comes to Shove” che anche per via del cantato, ci ricorda qualcosa degli AlterBridge.
I brani diretti dei Seventh Crystal, dalla durata che si aggira spesso attorno ai quattro minuti, colpiscono con melodie accattivanti ed una certa varietà nel loro melodic metal-hard rock. Ma rimane una leggera sensazione di avere tra le mani un disco che non è ne carne ne pesce, al quale manca un pizzico di identità e dove la formula, per quanto originale, si ripete un po' troppo in particolare nelle linee vocali.
Ultimo aggiornamento: 06 Novembre, 2024
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Quaranta minuti di epic-heavy metal fumante e possente per il ritorno dei Triumpher, spinti dall'estro e dalla passione del loro leader Mars Triumph: cantante, songwriter e anche disegnatore dell'artwork.
A solo un anno di distanza dal debutto, "Storming the Walls", un disco che aveva colpito per potenza e complessità, "Spirit Invictus" sembra continuare sulla stessa via, ma con brani meno articolati e più compatti e diretti, nella durata ma non solo.
Influenze chiare verso i Manowar certo, e lo si sente anche dal cantato del bravissimo Mars, capace di variare su vari stili canori, ma molto vicino all'impatto di Eric Adams. Ma come non riconoscere anche qualcosa di Morby e dei nostri Domine nell'opener “Arrival Of The Avenger”, che arriva subito dopo l'intro epicheggiante “Overture to Elysian”. Ancora territori battaglieri nel lento incedere di “Athena (1st Chapter)”, una marcia che conquista con un gran coro avvolgente ed epico. Rispetto all'esordio, gli istinti estremi sono ancora presenti, ma in tono minore, anche se il riffing qua e là prende certamente spunto dalla scena black metal. Ed il brano seguente, la title-track, mostra un lato più cupo, ma sempre corposo e bellicoso, dei Triumpher. I ritmi sono sostenuti, la voce aggressiva non si fa mancare qualche grido di battaglia ed in generale l'incedere è scosciante.
Le chitarre cupe delineano le atmosfere tetre di “Alexander” - e qui si fanno più marcate quelle influenze estreme e nordiche – per poi lasciar spazio alla powereggiante ed energica “Shores Of Marathon”. E “Triumpher” è un inno all'epicità, un pezzo furioso che colpisce come un'ascia insanguinata senza concedere il tempo per difendersi. Le chitarre viaggiano scroscianti durante l'assolo ed i cori sono pieni e corposi. L'eroica “Hall Of A Thousand Storms” è il sigillo finale di un viaggio epico e metallico.
Un disco più coinciso che tira dritto ed appassiona ascolto dopo ascolto. Non vediamo l'ora di respirare l'adrenalina che questi brani sapranno sprigionare in sede live. Si respira epicità pura con “Spirit Invictus” dei greci Triumpher, un top album all'interno della scena heavy metal!
Ultimo aggiornamento: 06 Novembre, 2024
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Per chi si ciba di heavy metal classico, i Mindless Sinner non sono certo una sorpresa bensì una sicurezza in questo campo. Attivi fin dagli anni Ottanta, con il primo full-length dato alle stampe 1986 a nome “Turn On The Power” e poi con le ultime releases – dopo essersi riformati dal 2015 - sotto l'attenta Pure Steel Records, che hanno confermato il gruppo svedese tra i più fedeli a quel metallo classico che strizza l'occhio alla NWOBHM, tra Maiden e Priest.
Questo nuovo “Metal Merchants” è ancora una volta un lavoro ispiratissimo, dove non troveremo niente di nuovo, ma che conquista con belle cavalcate ed inni metallici.
Lo dimostrano la rapida “Speed Queen” che apre le danze, l'anthemica title-track ed il tocco più rilassato e canticchiabile di “Third Time's A Charm”. Sì, i Mindless Sinner puntano su brani molto melodici, ben supportati da riff possenti certo, ma con linee vocali sempre avvolgenti, dove gioca un ruolo importante l'ugola limpida e pulita del bravo Christer Göransson. Lo conferma, ad esempio, “Hedonia”, con il suo incedere dal forte impatto, per certi versi banale, ma che si stampa in testa, spinta dal basso deciso e secco di Christer Carlson. Le più massicce “Mountain of Om” e “Let's Go Crazy” sono trasportate da riff decisi, grazie al lavoro alle chitarre di Magnus Danneblad e Jerker Edman, ed il motore dell'act svedese rimane caldissimo con la spedita “Monsters”. Uno dei pezzi migliori della tracklist è senza dubbio “Believe In Me”, con il suo fascino ottantiano ed ottime melodie vocali, infine le influenze verso Rob Halford e soci escono chiare ed evidenti durante la tagliente “Storm Of Steel”.
Un disco solido dalla prima all'ultima nota, che consolida la reputazione di una band da sempre (troppo!) nell'ombra come i Mindless Sinner!
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Battere il ferro finchè è caldo! E fanno bene a farlo gli italiani Frozen Crown, spinti dal forte successo crescente che, disco dopo disco, li ha portati ora a firmare per Napalm Records e a girare il mondo con tanti show, non ultimi quelli recenti a supporto di Powerwolf e Hammerfall.
Il power metal scrosciante dei nostri, spinto dall'ugola squillante della brava Giulia, corre rapido e spedito attraverso nove brani – ai quali si aggiunge un intermezzo - dove le chitarre corrono spedite in stile neoclassico e strizzando l'occhio sempre più sembra, ai cugini Dragonforce in termini di velocità. E così dopo l'ariosa e vertiginosa opener “War Hearts”, forse un po' scontata, ci pensa l'ottima “Steel And Gold” a colpire con una dose massiccia di power metal nordico ed un gran bel refrain. L'ingresso in formazione, da qualche tempo, della giovane e talentuosa Fabiola Bellomo ha donato maggior verve nella fase strumentale con il suo shredding infuocato che si fa notare pesantemente in brani che corrono ai 100 all'ora come le rapidissime “To Live To Die”, “Night Of The Wolf” e nella possente “On Silver Wings”, quest'ultima tra le più riuscite del lotto. La formula però tende a ripetersi troppo; non solo l'inserimento di qualche momento di stacco all'interno dei brani stessi potrebbe creare un po' di dinamicità, ma anche la presenza di alcune composizioni più rilassate qua e là. Ci prova il midtempo “I Am The Wind”, ma forse non è abbastanza anche perchè quando il microfono finisce nelle mani di Federico Mondelli, non è che la sua voce ci convinca molto. “Ice Dragon” è il brano che chiude il disco e si dilunga per quasi otto minuti tra passaggi più soft, influenze folk e qualche inserto di musica più estrema, che nel sound della band compare ogni tanto qua e là.
Quinto disco in sette anni per la band torinese che dimostra la sua professionalità mantenendo una carica sonora elevata ma oggettivamente viene un po' risucchiata da una certa e inevitabile – vista la frequenza della produzioni – ripetitività. Nel suo genere però, “War Hearts” è senza dubbio un disco sopra la media!
Ultimo aggiornamento: 27 Ottobre, 2024
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Tra le band storiche del panorama tricolore ci si dimentica troppo spesso dei Danger Zone, gruppo emiliano che è attivo fin dagli anni Ottanta (con l'EP "Victim Of Time" nel 1984) e che si è rifatto sotto negli ultimi tempi con nuovi dischi in studio ed una presenza live importante.
Il quinto album della loro carriera – a cinque anni dal precedente “Don’t Count On Heroes” - prende il nome di “Shut Up!” ed è un ottimo mix tra la potenza dell'hard rock classico (Whitesnake) con melodie ed un tocco Aor (Strangeways).
L'opener “I Like It” mostra il lato più grintoso del sound del gruppo italiano e la stessa “Evil”, posta subito dopo, nonostante un coretto super catchy, non disdegna riff decisi ed un assolo ben congegnato. Le influenze sono ovviamente rivolte al sound USA ed, in generale, il disco punta molto su chitarre fumanti, come dimostra il riff della ruvida “I Don’t Care”, inno hard rock che dal vivo promette fuoco e fiamme. L'ugola di Giacomo Gigantelli, un mix tra Coverdale e Klaus Meine, si esalta prima durante la power ballad “Too Late”, poi con la più spedita “Run (From The Madness)”. E se un paio di brani sembrano meno incisivi, ci pensa “When You Broke My Soul” a rimettere le cose apposto con melodie avvincenti ed un bell'incedere, prima della sognante ballatona strappalacrime “Faithless Ways”.
Si va sul sicuro con l'esperienza e la passione dei Danger Zone che, con questo “Shut Up!”, trovano maggior energia che in passato e confermano ciò che di buono hanno sempre fatto. Più rock, meno AOR, stessa qualità.
Ultimo aggiornamento: 27 Ottobre, 2024
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L'Escape Music è una sicurezza quando si tratta di ricercare ed affidarsi alle sonorità di stampo hard rock melodico. A seguito della Brexit, la storica etichetta inglese è un po' scomparsa dai radar e andare alla ricerca delle loro produzioni è divenuto certamente più complicato (e costoso!). Ma ci sono dischi che meritano le nostre attenzioni ed è questo il caso dei Daytona!
Nascono dalla voglia di comporre musica intensa e raffinata da parte del talentuoso cantante Fredrik Werner (Osukaru e Air Raid), del chitarrista Erik Heikne (Miss Behaviour), del tastierista Johan Berlin (passato anche negli Eclipse) e poi del bassista Niclas Lindblom e del batterista Calle Larsson.
Un tuffo nell'AOR di stampo west-coast con una produzione cristallina e tanti riferimenti agli eighties. E la tracklist è un susseguirsi di brani che trasudano passione: dalla partenza con “Welcome To The Real World”, uno dei pezzi più grintosi del disco, all'armoniosa e patinata “Kelly”, dove le tastiere si fanno ariose prendendo il proscenio. E' un attimo chiudere gli occhi e ritrovarsi all'interno di qualche pellicola uscita negli anni Ottanta durante l'incedere di “Through the Storm”. La voce di Fredrik è piena ed espressiva e viaggia con autorità durante il tocco hi-tech di “Downtown” e tra le note sognanti e intense della ballata cristallina e malinconica “Time Will Wait”. Un plauso al bravo Erik Heikne, che interpreta al meglio il suo ruolo alla chitarra, dando vita ad assoli davvero ben riusciti che si inseriscono alla perfezione all'interno di queste sonorità e lo conferma con la conclusiva “Where Did We Lose the Love”, dove con le sue sei corde disegna ottime melodie. Da segnalare anche “Slave to the Rhythm”, pezzo che conquista con cori affascinanti e l'uso del sax.
Fans di Benny Mardones, Dakota, Strangeways, Jim Capaldi troveranno pane per i loro denti con un disco raffinato e di classe che ci riporta proprio all'epoca d'oro di questa musica. Grazie Daytona!
Ultimo aggiornamento: 24 Ottobre, 2024
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Davvero degno di nota questo ritorno discografico dei sudamericani Sinner's Blood che tornano con un lavoro di stampo power-heavy dai tratti moderni, ma con le idee forse ancora più chiare che nel buon disco di debutto, “The Mirror Star”, del 2020.
L'ugola ruvida e corposa di James Robledo, un mix di Jorn Lande, Ronnie Romero e Russen Allen, fa la differenza assieme ad un songwriting frizzante che unisce atmosfere malinconiche alla Evergrey a brani possenti e corposi con chitarroni pesanti, come dimostra subito l'opener “Bound”, dove compare anche qualche coro profondo, l'esaltante titletrack o la più tetra “The Man, The Burden And The Sea” pezzo magnifico che, sarà anche per la voce, ci riporta a qualcosa dei grandi progster ARK. Le tastiere creano orchestrazioni imponenti e i cambi di atmosfere sono repentini, mostrando la grande varietà nelle composizioni scritte dal mastermind cileno, nonché produttore e chitarrista Nasson. Gli arrangiamenti più elettronici e moderni escono decisi durante la partenza di “Enemy”, brano più tipicamente power nordico alla Thunderstone, per chi si ricorda di questa buonissima band di inizio millennio. E se “Not Enough” unisce riff terremotanti a melodie pop, ottenendo un buon impatto, i riff massicci di “Poison” sono un bel colpo in faccia e vanno sparati a tutto volume dallo stereo. Il brano si sviluppa poi su sonorità progressive che possono ricordare i primi Masterplan. La lenta “The Voice Within”, il power metal più catchy di “The Firestorm” ed il prog/power di “Redemption Or Fire”, tra Symphony X ed Evergrey, sono altre canzoni ricche di pathos che mantengono alto il livello anche avvicinandosi alle ultime note.
Che lavoro per i Sinner's Blood; “Dark Horizons” è un grande esempio di come suonare questo stile musicale in maniera fresca ed innovativa nel 2024!
Ultimo aggiornamento: 23 Ottobre, 2024
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I Find Me sono l'unione di Robbie LaBlanc, enorme cantante americano che ricordiamo anche nel progetto Blanc Faces con il fratello scomparso qualche anno fa, e Daniel Flores (Issa, The Murder of My Sweet, Seventh Wonder). I due arrivano al quinto appuntamento sotto questo monicker e, se forse le attese non erano altissime, visto che con i lavori precedenti avevamo attraversato alti e bassi, dobbiamo invece ammettere che “Nightbound” è un disco che fila via con facilità, appassionando. Sarà merito ancora dell'ugola piena ed espressiva di Robbie, ma anche delle composizioni calde e ricche di melodie raffinate. Lo dimostra la partenza con l'intensa “Never Be Alone”, ma è tutta la tracklist ad avvolgere l'ascoltatore tra le raffinate sonorità dell'AOR più classico a stelle e strisce. E non è un caso che compaia, tra i songwriters, l'impronta indelebile di un genio assoluto come lo zio Jim Peterik, autore di tre brani. Uno lo conosciamo benissimo, è “I See You In Everyone”, una vecchia canzone dei Survivor che viene ben interpretata da Robbie e ri-arrangiata a dovere con un tocco più caldo. La robusta “Distant Lovers” possiede un bell'incipit con un impatto vocale solido, e la titletrack sembra avere proprio la carica di un classico brano in stile Pride Of Lions. “Love Always Finds A Way” vola tra le note scintillanti della chitarra di Andi Kravljaca e su melodie vocali che conquistano, e forma una grande accoppiata con “Speechless”, pezzo più rotondo e patinato. L'intensa ballata “Savage Blue” è un po' canonica, ma vola sull'interpretazione di Robbie, per poi chiudere sulla più adrenalinica e ariosa “The Time Has Come”.
“Nightbound” è un bel disco che mette in campo 5-6 brani di ottima fattura, ed i restanti tengono comunque a galla un lavoro che si esalta sull'ugola sempre eccelsa di mister LaBlanc!
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Si sentiva il bisogno di cambiare rotta per i DGM. La band romana dopo aver dato luce a grandissimi dischi, ancor più forse nella sua nuova incarnazione con Mularoni alla chitarra (perchè spesso, diciamolo, ci si dimentica della prima Era della band con il grande Diego Reali), possiamo affermare che con l'ultimo “Life” si è arrivati ad un punto di non ritorno. Non che fosse un brutto disco ci mancherebbe, ma certamente troppo ripetitivo rispetto al passato del gruppo laziale.
E cosa hanno fatto questi cinque musicisti? Hanno re-inventato il sound dei DGM senza stravolgerlo ma plasmandolo. Ne esce un disco intitolato “Endless” (dodicesimo per la band) di (più) prog (meno) power metal che prende forte influenze dalle sonorità settantiane che ben si amalgama con il più classico DGM sound. A fare la differenza in particolare sono le tastiere ed il gran lavoro di Emanuele Casali, che prendono quindi spunto da band come Yes o PFM e la presenza di strumenti come violino, flauto e sassofono e che si ricollegano ai grandi Jethro Tull.
Ci sono molte parentesi acustiche come dimostra subito in partenza la soffice “Promises” che apre la via subito mettendo in mostra questo nuovo volto del gruppo. Quando entrano in campo le chitarre elettriche lo fanno accompagnate da hammond e flauto. Il pezzo funge da introduzione e si dilunga strumentalmente strizzando l'occhio ai sempre influenti Dream Theater, soprattutto nelle parti di chitarra di Mularoni, molto alla Petrucci, oltre che nei giri di batteria. Nei sette minuti di “The Great Unknown” - pezzo scelto anche come singolo apripista - escono maggiormente i connotati classici della band in particolare spinta dalla voce subito riconoscibile di un super Marco Basile. In generale le composizioni sono più articolate e lunghe nella loro durata (ma ci sono solamente otto pezzi in questo disco!). Canzoni più complesse ed intricate che necessitano più ascolti rispetto al passato. L'incedere di “The Wake” è attorniato da atmosfere più oscure e malinconiche, la più rapida e tumultuosa “From Ashes” si avvicina a ciò che il gruppo ha fatto in passato – e gli intrecci chitarra-tastiera nella fase centrale è da manuale - ma sono le note calde ed intime di “Solitude” ad appassionare più di ogni altro momento durante l'ascolto. Un pezzo che con la chitarra acustica iniziale ci ha riportato alla mente i grandi Shadow Gallery. L'elegante incedere della ballata del disco conquista sulle note di “Blank Pages”, dove Marco può ancora una volta esprimersi con la sua splendida voce, infine ci pensa la lunga “...Of Endless Echoes” a chiudere uno dei dischi migliori dell'annata in corso. Un brano che per quattordici minuti tiene incollati allo stereo tra passaggi soft, atmosfere malinconiche, riff esplosivi ed orchestrazioni cinematiche.
Il progressive rock settantiano incontra il power-prog dei maestri DGM fondendosi e dando nuova linfa ad un sound che necessitava una ventata di freschezza. Ed “Endless” è un grandissimo disco!
Ultimo aggiornamento: 21 Ottobre, 2024
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Se pensiamo che per una band come gli Stryper sono passati oltre quattro decenni dal loro primo disco e che ancora oggi sono protagonisti con lavori di enorme fattura, beh c'è da sorprendersi. Ma Michael Sweet e i suoi compagni di avventura, sono artisti talentuosi nei quali brucia ancora una forte passione per ciò che fanno. E la band americana torna con un ulteriore lavoro di livello, il dodicesimo della propria carriera, intitolato “When We Were Kings” ed undici brani di heavy metal celestiale dove la potenza non manca, ma nei quali sono in fin dei conti le ottime melodie vocali e strumentali – anche di stampo AOR – a fare la differenza.
L'opener “End Of Days” colpisce con un sound possente ed un refrain subito diretto, la title-track è un mid-tempo sornione che si impone con eleganza, in particolare durante il ritornello con l'uso di qualche coretto a dar man forte all'ugola angelica di Michael, mentre “Betrayed By Love” fa subito presa con melodie malinconiche e la seguente “Loves Symphony” si muove su ritmi cadenzati ed appassiona con un coro pieno e ricco di pathos.
La canzone d'amore "Rhyme Of Time" è una power ballad alla quale si fa fatica a resistere, mentre il riff robusto di “Trinity” confeziona il brano più roccioso della tracklist. Oz Fox alle sei corde è protagonista di assoli compatti e di un lavoro in generale essenziale per certi versi, molto mirato alla funzione del brano. Le sonorità rockeggianti di “Rapture” lasciano spazio al melodic hard rock della sognante “Grateful”, tra i momenti più appassionanti ed intensi dell'ascolto, ma il livello si mantiene alto anche una volta raggiunto il finale grazie al mid-tempo roccioso “Unforgivable”.
Nessun punto debole in questo lavoro, che va divorato brano dopo brano. Anche se, soprattutto in Europa, non entreranno mai nel vero mainstream, “When We Were Kings” conferma gli Stryper nel firmamento dell'heavy metal.
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