Opinione scritta da Ninni Cangiano
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Top 10 opinionisti -
A distanza di un anno dall’ottimo precedente album “Alföld”, torna a farsi sentire Tamás Kátai con il suo progetto Thy Catafalque per il dodicesimo full-length, intitolato “XII: A gyönyörű álmok ezután jönnek” (tradotto in italiano: “I bellissimi sogni vengono dopo”). Assieme a Kátai ci sono poi tanti ospiti, più di 20, che cantano o suonano vari strumenti assieme al leader, sull’album che è composto da 11 brani (di cui due cover rispettivamente del musicista folk ungherese Sebo Ferenc e degli Omega, rock band ungherese), per una durata totale di quasi 53 minuti. Abbiamo imparato a conoscere nel corso degli anni i Thy Catafalque e sappiamo quindi che non dobbiamo aspettarci qualcosa di canonico, ma sempre musica fuori dagli schemi ed, in alcuni casi, finanche fuori dal mondo metal; qui c’è come sempre di tutto, dal black metal delle origini (soprattutto nelle vocals di alcuni brani, che sinceramente non ho apprezzato molto), al folk, passando per la musica elettronica, l’avant-garde, il noise, persino qualcosa di fusion… la mente bizzarra di Tamás Kátai è sempre florida di idee spiazzanti e di musica che può anche essere alienante e destabilizzante. Bisogna essere della giusta predisposizione di spirito per apprezzare tali sonorità così diverse ed originali, altrimenti si rischia di non comprendere e di annoiarsi dopo qualche brano. Tra l’altro, bisogna segnalare che anche questa volta, come ormai tradizione, tutti i brani sono cantati in ungherese, idioma estremamente particolare ed ostico per chi non lo conosce. Questa però non è musica da canticchiare sotto la doccia, qui bisogna mettersi in religioso silenzio, chiudere il mondo fuori da noi ed immergersi facendosi travolgere da queste sonorità così particolari e persino lisergiche. Come sempre la musica dei Thy Catafalque è estremamente singolare e non adatta a tutti i padiglioni auricolari; se avete apprezzato i precedenti lavori di questo musicista così fuori dagli schemi, allora anche questo “XII: A gyönyörű álmok ezután jönnek” farà al caso vostro; in caso contrario, meglio lasciar perdere, lo shock potrebbe essere forte!
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Si sa poco dei rumeni Katharein, gruppo fondato nel 2022 dal chitarrista e cantante Silviu S., assieme all’altro chitarrista Skozy; dopo diversi cambi di formazione, sono arrivati il batterista Matthias Klaus ed il bassista Joey Rock (immagino nome di fantasia) che hanno completato la line-up che ha registrato questo debut album, intitolato “Lucky shots”. A parte queste informazioni, purtroppo non abbiamo trovato null’altro, dato che la band non ha un sito internet, non è presente su metal-archives.com (la Bibbia del metal!) e sulla pagina Facebook del gruppo c’è scritto poco o niente. Ma veniamo all’album, dotato di artwork abbastanza semplice (si poteva fare di meglio!) e composto da ben 13 canzoni per circa ¾ d’ora di durata totale. Il genere proposto dai rumeni è un piacevole heavy metal che si rifà alla tradizione della scuola inglese, Iron Maiden su tutti; nonostante un’originalità pressoché nulla (evitiamo di addentrarci su discorsi simili!), il disco si lascia ascoltare molto gradevolmente, grazie all’ottimo lavoro dei musicisti, ma anche per la voce del leader Silviu S. che non è proprio canonicamente metal, ma che potrebbe ricordare qualcosa di gente come (fatti i dovuti paragoni) David Bowie ed altri artisti un po’ lontani dal concetto di cantante aggressivo di heavy metal; molto intrigante, inoltre, quando Silviu abbassa le tonalità, usando un’espressività fuori dal comune. Interessanti poi le purtroppo rare digressioni delle tastiere (di cui non è stato reso noto l’autore) che rendono in alcuni casi un po’ “spaziale” il sound (“Ain’t nobody”, ad esempio), alleggerendolo alquanto e rendendolo sicuramente più easy e ruffiano ed, a suo modo, non così scontato. Molto piacevole il ritmo sempre frizzante (“Fried your brains” è emblematica in tal senso) imposto dalla batteria e le parti soliste delle due chitarre, non particolarmente complesse, ma sempre gradevoli, ottimamente sostenute dal basso mai in secondo piano e spesso protagonista. Traccia dopo traccia, l’album scorre via piacevolmente e si lascia ascoltare facilmente (anche se “Adler’s alley” ricorda un po’ troppo nel suo attacco “Rock you like an hurricane” degli Scorpions), grazie ad un songwriting efficace e mai prolisso, con i vari pezzi che non hanno minutaggio eccessivo e badano sempre al sodo, senza aggiungere inutili ammennicoli o passaggi contorti che andrebbero solo ad appesantire l’ascolto. Questo “Lucky shots” è solo il debut album per i Katharein ma, se le premesse sono queste, dobbiamo tenere d’occhio questa band perché potrebbe regalarci altri ottimi dischi in futuro! Sicuramente tra le opere prime più interessanti dell’appena trascorso 2024.
Ultimo aggiornamento: 01 Gennaio, 2025
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I Gloria Perpetua nascono nel 2023 per iniziativa del bassista e compositore brasiliano Daniel Fuchshuber; da allora hanno realizzato una serie di singoli prima di questo debut album, intitolato “The darkside we wanna hide”, uscito inizialmente ad aprile nel solo Giappone per Shinigami Records e poi a fine agosto nel resto del mondo grazie alla nostrana Rockshots Records. Il disco è composto da 10 tracce per la durata totale di 47 minuti esatti ed ha un artwork alquanto inquietante, che ben si sposa con il titolo. Ma cosa suonano i Gloria Perpetua? Il loro è un classico power metal influenzato dalla scena europea (scandinava e tedesca in particolare) ed alquanto lontano dallo stile in voga nel loro paese, tra Angra, Almah, Falaschi, Aquaria, ecc.; accanto alla formazione stabile che, oltre al fondatore, contempla i chitarristi Bruno Luiz e Rogério Byron ed il batterista/cantante Raphael Dantas (attivo in molte altre bands nel suo paese); assieme a loro ci sono una lunga serie di ospiti (soprattutto cantanti brasiliani), fra cui i più noti sono Vitor Veiga dei predetti Aquaria, Timo Tolkki e Luís Mariutti, che credo non abbiano bisogno di presentazioni. La presenza di così tanti cantanti differenti rischia di essere un po’ spiazzante, perché poi si finisce irrimediabilmente per preferirne alcuni (ad esempio, personalmente preferisco di gran lunga Vitor Veiga!), anche per via di stili ed interpretazioni alquanto differenti tra loro. Ciò nonostante, ho ascoltato e riascoltato sempre con grande piacere questo disco, sia perché le melodie sono sempre gradevoli ed orecchiabili, ma anche perché il ritmo è sempre frizzante ed allegro. Il minutaggio in alcuni casi è leggermente elevato, segno che il songwriting poteva essere più conciso ed efficace ma, tutto sommato, non è un aggravio particolare nell’ascolto che è sempre comunque fluido e catchy. Le varie canzoni sono tutte di buon livello qualitativo, forse manca quella hit che ti faccia saltare dalla sedia (anche se "The way of a warrior" ci va vicina!), ma siamo comunque su standard estremamente elevati e non comuni; qualcuno potrà obiettare che i Gloria Perpetua non hanno inventato nulla, non sono innovativi e nemmeno particolarmente originali ma, come ho sostenuto tante volte nelle varie recensioni, non ce ne può fregare di meno di certi concetti quando ascoltiamo musica piacevole e che ci regala sensazioni positive! Ed è esattamente questo il caso di “The darkside we wanna hide”, disco adatto a tutti i fans del power metal di qualità.
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Ousiodes è il progetto solista del polistrumentista americano Ollie Bernstein, ormai da qualche anno trasferitosi a vivere in Giappone; sono ormai circa 10 anni che questo progetto va avanti e questo “The forest” è il suo quarto full-length, uscito in ottobre per l’olandese Shaded Moon Entertainment, ma anticipato a fine agosto nel solo Giappone dalla Ward Records. L’album, dotato di artwork che raffigura un orso bianco, è composto da 13 brani per la durata totale di circa 55 minuti, segno che i brani non hanno lunga durata, ma sono abbastanza concisi. Lo stile del progetto di Bernstein è una specie di power metal melodico, contaminato da generi musicali differenti come il jazz ed il neoclassico e queste contaminazioni sono nel contempo sia il punto di forza che il punto debole del disco, nel senso che il neoclassico (Malmsteen docet!) può sicuramente piacere, mentre la presenza del jazz può risultare alla lunga spiazzante e destabilizzante (prendete la title-track o la quarta traccia “These images”, ma anche “Curtain call”, che sembrano canzonette natalizie e comunque sono alquanto fuori contesto). Ho ascoltato e riascoltato diverse volte questo disco (e questa è la causa del ritardo di questa recensione), ma proprio non riuscivo a buttar giù quelle parti jazzate (dovute soprattutto alle tastiere) che, seppur rendono certamente questo lavoro diverso dagli altri ed a modo suo originale, sinceramente non sono riuscito a comprendere, né a farmi ficcare in testa per accettarle. Se la compattezza estrema a volte può essere un difetto, anche l’estrema eterogeneità finisce per esserlo, perché l’ascoltatore medio rimane disorientato e bisogna essere della giusta predisposizione d’animo e di mente per poterla accettare del tutto. Bisogna inoltre aggiungere che sul Bernstein musicista non si può dire assolutamente niente, dato che è evidentemente molto preparato tecnicamente, ma sul Bernstein cantante qualche dubbio potremmo anche sollevarlo, dato che madre natura non l’ha dotato di un’ugola particolarmente potente (caratteristica che per il power metal è fondamentale), seppur bisogna riconoscere una certa espressività di fondo (la ballad “Waves” è rappresentativa in tal senso). La registrazione potrebbe essere migliorata, ma in fin dei conti va comunque bene. Come detto, ho ascoltato e riascoltato diverse volte questo disco e forse quello che manca realmente è una o più hits che valgano da sole l’acquisto del cd; non c’è, infatti, quella canzone che spacca di brutto, ma si attestano tutte su un buon livello qualitativo, che però è cosa diversa dall’eccellenza. I migliori sono forse il primo pezzo in giapponese (cantato da un ospite, alla sesta traccia) e quelli più genericamente neoclassical power (come il predetto brano in giapponese, “Fire”, anche questo cantato da un ospite, ed in genere quelli della parte centrale della tracklist), che più si avvicinano alla tradizione di questo settore. Tirando le somme, gli Ousiodes di Ollie Bernstein hanno realizzato con questo “The forest” un disco piacevole e ben fatto, ma forse per il futuro sarà necessaria una maggiore compattezza nel songwriting ed un po’ meno contaminazioni, in modo da rendere l’ascolto più semplice e lineare; sufficienza ampiamente meritata!
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Gli Among These Ashes arrivano da Detroit negli USA dove si sono formati nel 2021; da allora hanno realizzato, oltre ad una certa quantità di singoli, un primo album nel 2022 (“Dominion enthroned”) e questo “Embers of Elysium”, uscito ad inizio dicembre 2024 per la greca Alone Records. L’album è composto da 13 tracce, di cui l’ultima è una bonus-track in cui si registra la presenza della cantante americana Brooke Rousseau, in veste di ospite, per la durata totale di oltre 65 minuti. Tenendo presente che vi sono un paio di brani di breve durata (la prima e l’undicesima traccia), la restante parte ha minutaggio elevato, in alcuni casi attorno ai 7 minuti ed oltre (soprattutto nella parte finale della tracklist). Per un genere come il power/thrash suonato dal gruppo del Michigan, il minutaggio diventa importante, per non compromettere l’efficacia dei singoli componimenti, particolare in cui il chitarrista Richard Clark (pare faccia tutto lui) deve evidentemente ancora migliorare. Se volete cercare un paragone, direi che il sound degli Among These Ashes potrebbe essere considerato abbastanza simile a quello degli Iced Earth, ma con maggiore groove sulle chitarre ed un basso più in evidenza, ma con meno atmosfere. Se quindi amate queste sonorità aggressive, ricche di energia e velocità, sicuramente apprezzerete la proposta musicale della band americana, anche grazie al fatto che il cantante Jean-Pierre Abboud (anche nei Traveler) sa il fatto suo e si destreggia molto bene, tra parti aggressive ed altre più melodiche, senza dimenticare mai una certa espressività. Se dovessi indicarvi i pezzi migliori, sicuramente andrei su “The enemy in I”, il pezzo più sulfureo e cattivo del lotto, senza dimenticare “Serpents among rats”, altra traccia efficace e brillante. La media è comunque valida, anche se qualche sforbiciata qua e là nei pezzi più lunghi avrebbe giovato (a titolo esemplificativo, “Through ethereal voids” poteva essere ampiamente ridimensionata). Non condivido poi questa smania di avere tracklist così corpose, quando 8-9 pezzi al massimo avrebbero forse reso l’ascolto anche più agevole e piacevole. Tutto sommato, comunque, gli Among These Ashes con questo “Embers of Elysium” hanno realizzato un buon disco, adatto ai fans del power/thrash made in USA.
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I Mirrorshield arrivano dall’Australia e sono attivi da qualche anno, periodo in cui hanno realizzato una serie di singoli ed un EP, prima di autoprodursi questo debut album intitolato “Visions from a crystal light”. Il disco, dotato di artwork fantasy, è composto da 11 tracce per poco meno di 42 minuti di durata totale; si tratta di una sorta di concept album dato che le canzoni parlano del regno fantastico di Eremoss, un mondo di tradizioni in continua espansione. Il sound della band del Nuovo Galles del Sud è un folk/power metal che vorrebbe essere orecchiabile e ruffiano, ma riesce ad esserlo fino ad un certo punto. Come detto si tratta di un’autoproduzione e la prima cosa che si nota è la qualità non eccelsa della registrazione, con gli strumenti che sono un po’ più in secondo piano rispetto alla voce (tra l’altro, non esaltante) ed, in genere, il volume è basso, soprattutto sulle chitarre; non so se dipenda dalla scarsa qualità degli mp3 avuti a disposizione per questa recensione, fatto sta che ho sentito dischi autoprodotti registrati molto, ma molto meglio di questo. Il secondo problema, oserei dire il principale, come detto, è la voce di Tim Read, alquanto monocorde e poco espressiva, oltre che alquanto in difficoltà nelle note più alte, dove poco furbamente ogni tanto va a cacciarsi, rischiando di risultare goffo e comunque poco credibile. Il fatto che poi la sua prestazione canora mediocre sia messa in risalto rispetto agli strumenti aumenta il tasso di difficoltà nell’ascolto di questo full-length. La band, infine, ogni tanto sembra perdere un po’ di vista l’efficacia dei singoli componimenti che si vanno a complicare da soli, risultando poco scorrevoli e poco convincenti; anche il songwriting, quindi, andrebbe rivisitato, al fine di rendere le varie canzoni più attraenti e maggiormente orecchiabili, magari dando un po’ più di elettricità e protagonismo alle chitarre. Dispiace dirlo, ma trovo poco da salvare in questo disco, se non alcune parti strumentali tipicamente folkeggianti che non dispiacciono, ma che vengono affossate da una registrazione non perfetta e sovrastate da un cantato di mediocre qualità. Ho provato ad ascoltare e riascoltare più volte questo “Visions from a crystal light”, nella speranza di riuscire a cogliere qualche lato positivo che potesse avvicinarlo anche solo alla sufficienza, ma purtroppo ho sempre fatto una certa fatica ad arrivare alla fine della tracklist. Mi dispiace per i Mirrorshield, ma devono migliorare parecchio per poter sperare di farsi notare in positivo, magari partendo dalla ricerca di un cantante migliore.
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Ad ormai tre anni ed un LP dal cambiamento del frontman, tornano i Gloryhammer con un EP di soli tre brani, della durata totale di meno di tredici minuti. Sozos Michael (alias Angus McFife II) ha ormai sostituito definitivamente Thomas Winkler anche nel cuore dei fans e non a caso in questo EP intitolato “He has returned” vengono ri-registrati con la formazione attuale due classici dell’era di Angus McFife XIII (lo pseudonimo che usava Winkler): “The unicorn invasion of Dundee”, forse il pezzo più rappresentativo dei Gloryhammer, e quella “Hootsforce” che era nella tracklist del terzo album, l’ultimo di Winkler. Anche il fondatore Christopher Bowes pian pianino si sta svincolando: le tastiere adesso sono suonate da Michael Barber e l’originario Zargothrax, Dark Emperor of Dundee, si limita alla narrazione. Ma veniamo alla musica. La title-track parla del Robot Prince of Auchtertool ed ha le synth come protagoniste del sound, assieme alla chitarra che regala belle parti soliste. Il cantante cipriota lo conosciamo già e sappiamo sin dai tempi degli Helion Prime quali doti abbia che, in questa canzone, come nelle altre due rivisitazioni, non vengono certo risparmiate. L’ascolto è quindi estremamente piacevole, anche grazie ad un ritmo bello sostenuto con Ben Turk che non si risparmia dietro le pelli. Certo, quando poi arriva un capolavoro come “The unicorn invasion of Dundee” tutto diventa più semplice e, dopo l’ultima ottima rivisitazione, la voglia di pigiare ancora il “play” e ricominciare l’ascolto è sempre forte! Cosa volete di più allora? Non resta che sperare in un nuovo album all’altezza della tradizione dei Gloryhammer, esattamente come lo è questo EP “He has returned”…
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Devo dire la verità, mi aspettavo molto, davvero molto dal nuovo disco dei Dominum “The dead don’t die”, avevo insomma troppe aspettative nei confronti del gruppo tedesco. Ed in parte (per fortuna, solo in parte) mi sbagliavo. Ripetere a solo un anno di distanza il successo del fantastico debut album “Hey living people” era difficile e la band di Dr. Dead ci è riuscita fino ad un certo punto. Il singolo che ha preceduto l’album, title-track dello stesso, in cui è ospite Ben Metzer dei Feuerschwanz, ha tratto in inganno un po’ tutti quanti, dato che si tratta forse del brano migliore, o comunque tra i migliori della tracklist e non tutti gli altri pezzi sono allo stesso livello. Se l’inizio con il trittico “We are forlorn”, “One of us” (dal testo simpatico!) ed appunto la title-track è davvero infuocato, la successiva “Killed by life” è più moderata, pur rimanendo un gran bel pezzo. E’ con “Die for the devil” che si scende a livello qualitativo, con un brano quasi hard-rockeggiante, alquanto banale, salvato solo in parte dal coro; ancora più sotto “Don't get bitten by the wrong ones” che, ascolto dopo ascolto, finisce per annoiare, non avendo nemmeno un minimo di energia e brillantezza. Appena meglio “Happy deadly ending”, quanto meno per le atmosfere leggermente orrorifiche, anche se il pezzo si rivela alquanto ripetitivo, soprattutto per il coro reiterato un po’ troppo. Terminata questa parte centrale alquanto negativa e noiosa, il disco si rianima grazie all’energia ed al ritmo di “Can’t kill a dead man”, canzone decisamente orecchiabile e frizzante, tanto che viene da chiedersi perché i Dominum non facciano songs sempre di questo livello. Anche la successiva accoppiata “This is not a game”/“The guardians of the night” è di buona qualità (più la seconda, che è sicuramente tra i pezzi migliori del disco) e chiude il disco in maniera eccelsa, prima della cover degli Scorpions di “Rock you like a hurricane”, abbastanza fedele all’originale, ma decisamente avulsa dalle atmosfere e dalle tematiche del disco e quindi alquanto fuori posto; una scelta, questa della cover, insomma abbastanza infelice! Se proprio si voleva inserire un pezzo altrui, sarebbe stato più opportuno inserirne uno dei Lordi o addirittura andare a scomodare i maestri Goblin, le cui atmosfere sarebbero state sicuramente più indicate in un album come questo, visto anche l’abbondante uso delle tastiere che viene fatto dal gruppo tedesco. Tirando le somme, se avessimo avuto un disco con canzoni dello stesso livello di “The guardians of the night”, “Can’t kill a dead man”, “We are forlorn” o della title-track, staremmo a parlare di una vera e propria bomba, probabilmente da inserire tra i dischi migliori di questo 2024; di fatto non è così e questo “The dead don’t die” dei Dominum è solo un buon album, con pezzi fantastici ed altri che funzionano meno.
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I Rauhbein sono un gruppo tedesco fondato dal cantante Henry M. Rauhbein nel 2019, con all’attivo una lunga serie di singoli e tre full-lengths, di cui questo “Adrenalin” è l’ultimo, uscito dopo Natale, il primo per l’importante Reigning Phoenix Music. Musicalmente, potremmo piazzare la band a metà strada tra i Feuerschwanz ed i Saltatio Mortis, pur senza gli strumenti tradizionali di queste band (c’è solo il violino e niente cornamuse o altro), anche per la somiglianza del vocione roco del leader con quello dei mitici Ben Metzner e Alea der Bescheidene, ma anche per le ritmiche sempre frizzanti e veloci, imposte dall’ottimo batterista. Il songwriting, come questo genere impone, non è arzigogolato, ma conciso e breve, tanto che l’album non dura nemmeno 40 minuti, suddivisi per 10 tracce, compresa una bonus-track che sembra sia una sorta di inno ai Kassel Huskies, squadra di hockey su ghiaccio tedesca della zona da cui arriva la band stessa (e per la quale immagino facciano il tifo). Come tradizione di questo genere musicale, le varie canzoni mettono allegria e voglia di zompettare, magari con in mano un bel corno pieno di birra ghiacciata; potremmo infatti definire la musica dei Rauhbein come l’ideale colonna sonora per una serata tra amici per fare casino tutti assieme, innaffiati da fiumi di birra. La band tedesca, insomma, non si discosta di una virgola dai cliché tipici di questo genere di folk metal di scuola tedesca ma, pur non essendo obiettivamente particolarmente originale o innovativa, quel copia/incolla lo fa dannatamente bene, tanto che ogni ascolto dato a questo disco si concludeva con notevole soddisfazione e piacere. Ed anche quando il ritmo rallenta (vedasi, ad esempio, “Bruder”), l’ascolto è sempre gradevole e la traccia convincente ed efficace. Se, insomma, siete fans del medieval folk cantato in tedesco (idioma ostico che, però, per questo genere musicale ci sta dannatamente bene), questo “Adrenalin” dei Rauhbein potrà fare sicuramente al caso vostro!
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I Sorceress Of Sin sono una band inglese formatasi nel 2020, con all’attivo già due full-lengths (entrambi recensiti sulle nostre pagine, tra le autoproduzioni), “Mirrored revenge” nel 2020 e “Constantine” nel 2021. Ottenuti buoni riscontri con questi due dischi, il gruppo inglese strappa un contratto alla nostrana Wormholedeath Records (che finalmente torna a rilasciare del power metal!) e pubblica in questi giorni di fine 2024 il terzo album intitolato “Ennea”, dotato di piacevole artwork ispirato all’antica Grecia che lascia capire il concept che lega i vari pezzi: appunto la mitologia greca. Come nel precedente disco, ci troviamo davanti ad un power metal molto melodico, ma anche ricco di energia, grazie anche all’approccio spesso aggressivo della singer Lisa Skinner (ma non sempre, come in “The quest”). Il problema principale, che c’era anche nei dischi precedenti, è il songwriting eccessivamente prolisso e lungo che appesantisce non poco l’ascolto, basti pensare che il disco dura quasi un’ora ed è composto da soli 9 pezzi, con un solo brano che dura meno di 5 minuti (“Nymphet”, non a caso la migliore della tracklist!) e con la lunghissima suite “Clarity of confusion” che raggiunge quasi 12 minuti, ma che sarebbe stata molto più efficace con robuste sforbiciate di almeno 3-4 minuti. Ecco, per il futuro, i Sorceress Of Sin dovranno fare molta più attenzione al songwriting, in modo da rendere i loro componimenti più efficaci e diretti; capisco la voglia di strafare, ma non siamo al debut album dove si potrebbe anche capire e chiudere un occhio; se si vuole uscire dall’underground bisogna cercare la perfezione. Dispiace dirlo, perché per il resto questo “Ennea” è davvero un bel disco, ben cantato, ben suonato dai vari musicisti e registrato altrettanto bene e, se solo fosse durato, almeno ¼ d’ora in meno sarebbe stato davvero una bomba. Disco riservato ai fans della band ed agli appassionati del power metal più melodico che non fanno caso alla lunghezza dei singoli pezzi.
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