Opinione scritta da Luigi Macera Mascitelli
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Ultimo aggiornamento: 06 Gennaio, 2024
Top 10 opinionisti -
Dopo cinque anni tornano i danesi Hatesphere, band ormai navigatissima e divenuta negli anni un vero e proprio punto di riferimento di un certo modo di intendere il Metal moderno: un mix spaccaossa di Death e Thrash che si incastra all'interno di sezioni Groove che trasudano Pantera, Lamb Of God e The Haunted da tutti i pori. Insomma, avete capito il filone a cui ci riferiamo. Detto ciò, cosa c'è da aspettarsi da questo nuovo capitolo dal titolo "Hatred Reborn"? La risposta ve la diamo secca e diretta, senza troppi giri: esattamente niente di nuovo se non la classica (e forse per alcuni noiosa) formula degli Hatesphere, quella con cui i nostri hanno costruito la propria carriera e che è anche un po' la loro condanna. E nemmeno il cambio (ennesimo) di line up ci ha dato quel guizzo in più che servirebbe: il nuovo vocalist, Mathias Uldall, è bravo, molto bravo, e molto più di stampo Metalcore, il che ovviamente si riflette nelle tracce. Tuttavia, se da un lato gli Hatesphere ci provano a fare il balzo, ad uscire da quegli stilemi che di fatto li relegano a band media, dall'altro questa formula sembra proprio non voler andare via. I brani sono massicci, carichi, potenti e sarebbe stupido dire brutti. Anzi, l'album è diretto e senza fronzoli, il che rende l'ascolto piacevole ma nulla di più: va giù senza che ve ne rendiate conto, complice - e lo ripetiamo ancora - questo modo di suonare che non è mai cambiato negli anni, salvo qualche lampo qua e là. Ma per il resto gli Hatesphere non hanno molto altro da dire. Un bilancio che pensiamo ormai si possa fare dopo due decadi e più di attività e che conferma quanto scritto nel titolo: nel posto giusto al momento giusto. I danesi sono bravi, sanno fare il loro estremamente bene, sanno scrivere pezzi monumentali, ma sempre all'interno del loro orticello, senza cercare di uscire o peggio, provandoci ma fallendo quasi sempre nell'intento.
Ultimo aggiornamento: 06 Gennaio, 2024
Top 10 opinionisti -
Esattamente come nella recensione della versione riregistrata di "Morbid Vision" ad opera dei fratelli Cavalera, anche per questo "Bestial Devastation", la domanda è sempre la stessa: ce n'era davvero bisogno? Ora, lungi dall'aver posto il quesito in maniera scortese, è chiaro come l'acqua che in qualsiasi modo ci propongano versioni rimasterizzate, riregistrate e così via di grandi classici la risposta è sempre quella: "va bene lo stesso!" (cit.). Detto ciò, soffermiamoci un secondo sul lato prettamente tecnico: la qualità delle tracce in versione 2023 è pressoché perfetta, con suoni oscuri, feroci, cattivi, la voce di Max è azzeccatissima e fa sempre la sua gran figura con quello che è a tutti gli effetti il suo territorio; non da meno il fratello dietro le pelli, sempre una macchina assassina. Insomma, tutto è dove dovrebbe essere; e grazie al c***o direte giustamente. Dunque la domanda torna sempre: ce n'era bisogno? Certo che no, e i motivi sono due: dare una svecchiata a del materiale che era (ed è) perfettamente in linea con il suo tempo non è sciocco ovviamente, ma comunque ci sembra un po' una forzatura - tradotto: ma chi ve l'ha chiesto? -; il secondo motivo è di marketing e si lega al primo, perché è chiaro che con dei capolavori dei Sepultura si vende facile. Morale della favola: il voto che diamo è meramente in onore del materiale in sé e non certo per il guizzo di genio dei fratelli Cavalera nell'averlo rispolverato.
Ultimo aggiornamento: 26 Dicembre, 2023
Top 10 opinionisti -
Scavando nei meandri boscosi più oscuri e impervi della scena Black inglese, ecco che spuntano i Superterrestrial, band con all'attivo tre album, di cui l'ultimo è questo "The Fathomless Decay". Un disco di nicchia che si rivolge a chi nel Black cerca gli anfratti più tetri e spettrali, ma che tuttavia hanno quel tocco elegante ed atmosferico. Immaginate un misto di Drudkh, Samael e Wolves In The Throne Room, abbassate la qualità sonora (quindi suoni secchi, crudi ma non per questo brutti) ed il gioco è fatto. Sette brani spettrali che fondono la ferocia del Raw Black alla "delicatezza" della melodia, quasi fossero delle litanie che accompagnano l'ascoltatore in questo mortifero viaggio. Si parla quindi di un Black Metal che da un lato è ricercato, ma dall'altro è secco e diretto, senza fronzoli, cadaverico e scheletrico. E probabilmente è proprio questo chiaroscuro a rendere la musica degli inglesi estremamente interessante, pur con qualche difetto di prolissità. In generale quindi ci sentiamo di raccomandare il disco a chi è già ampiamente navigato nel settore ed è alla ricerca del piccolo anfratto nascosto, altrimenti potreste non essere ancora pronti per questa frangia.
Ultimo aggiornamento: 26 Novembre, 2023
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I Berzerker Legion sono - o dovrebbero essere - una realtà che ogni fan del Melodic Death nordico dovrebbe avere nel proprio novero di ascolti. Il supergruppo che prende gente dalla Svezia, dall'Olanda e dal Regno Unito, vede tra le sue fila personalità ampiamente di spicco nel panorama metal: Tomas Elofsson (Hypocrisy, ex-Those Who Bring the Torture), Alwin Zuur (Asphyx), Jonny Pettersson (Wombbath, Nattravnen, Ursinne, Gods Forsaken), Fredrik Isaksson (Dark Funeral, ex-Grave, ex-Therion) e James Stewart (Vader). Parliamo dunque di una formazione certamente non alle prime armi e con un bagaglio culturale alle spalle più che decoroso. Ne segue che la musica dei Berzerker Legion sia di qualità, fatta per un orecchio esigente, e questo "Chaos Will Reign", secondo capitolo per i Nostri, è esattamente un album che rispetta questi standard; a detta nostra perfino superiore al disco di debutto del 2020. Se il primo aveva un'anima certamente forte ma ancora non del tutto chiara, qui siamo di fronte ad una band che ha trovato la propria strada, non tanto da un punto di vista compositivo, quanto di alchimia tra i vari componenti. Alle orecchie il sound dei Berserker Legion non è certamente nuovo: una forte impostazione Hypocrisy - strano eh?! - sulla quale elementi provenienti da Kataklysm e sferzate Dismember si stagliano fieri e potenti. Insomma, coordinate conosciute ma non per questo monotone o dal sapore di "già sentito": piuttosto lo vediamo come un esperimento ben riuscito nel quale varie esperienze si fondono in un unica amalgama. Come dicevamo, il tutto molto più convincente rispetto al primo disco, dove forse la band risultava più scolastica - per quanto parlare di scolastico con membri del genere possa avere senso, ma ci siamo capiti -. A dare man forte a quanto detto, c'è da dire che nonostante la durata del disco sia importante (quasi un'ora), l'ascolto risulta gradevole e affatto noioso, con pezzi veloci e tirati ed altri più cadenzati (vedasi "Nihilism Over Empathy" e "This Is The End) che vanno a creare un effetto ondulato davvero notevole che spezza il ritmo e non fa cadere l'attenzione. Perciò, se ancora non li conoscevate, andate immediatamente a recuperare questa piccola perla.
Ultimo aggiornamento: 26 Novembre, 2023
Top 10 opinionisti -
I Sodom non hanno bisogno di presentazioni, perciò riteniamo si possano sorvolare i classici orpelli introduttivi per andare dritto al punto: loro sono una garanzia, sempre e comunque; ed il nuovo Ep in casa Angelripper, questo "1982", non è da meno. Nulla di nuovo, trattandosi di brani ri-registrati dello storico Ep, rilasciato per l'appunto in quel lontanissimo 1982, anno in cui i Nostri iniziavano a muovere i primi passi verso quella formula sporca, grezza, arrugginita e cadaverica che noi tutti conosciamo. Pezzi, dunque, che strizzano l'occhio a quel passato glorioso e quasi leggendario, ma che di fatto offrono un riempitivo in attesa del nuovo disco, dato che son passati ormai quattro anni da "Genesis XIX". In generale non c'è altro da aggiungere, se non una doppia visione di questo "1982": per gli amanti die hard sarà sicuramente un bel tuffo nel passato, per tutti gli altri un qualcosa da ascolto singolo prima del nuovo album, che si spera possa arrivare presto. In entrambi i casi l'EP dimostra quanto detto all'inizio e nel titolo: i Sodom sono una garanzia ed una band che con oltre quarant'anni di carriera è ancora in forma smagliante.
Ultimo aggiornamento: 23 Ottobre, 2023
Top 10 opinionisti -
L'eleganza o ce l'hai o non ce l'hai, non è qualcosa che si acquisisce o si impara: o ci nasci oppure puoi soltanto sperare di avvicinarti a questa qualità. Probabilmente è con questa introduzione un po' filosofica che si potrebbe descrivere questo fenomenale "A Dialogue with the Eeriest Sublime", secondo album del trio italiano Vertebra Atlantis, band capitanata dal milanese Gabriele Gramaglia, il cui nome è già figurato più volte sui nostri portali soprattutto in merito alla sua one-man-band Cosmic Putrefaction, a detta di chi vi scrive tra le più grandi rivelazioni della scena Death Metal mondiale. Ebbene, i Vertebra Atlantis, che esaminammo già nel 2021 con l'uscita del disco d'esordio non sono da meno: come si diceva all'inizio, l'eleganza fatta musica, frutto di un maniacale lavoro compositivo al limite dell'umano in cui nessun minuscolo dettaglio è lasciato al caso. Il risultato è dunque qualcosa che potremmo definire la quintessenza della perfezione, se con questo termine intendiamo un lavoro artistico nel quale l'estro visionario e pionieristico ed il talento si fondono insieme. È estremamente difficile dirvi cosa andrete ad ascoltare una volta premuto il tasto "play", semplicemente perché le coordinate stilistiche si muovono in un filone così contorto ed eterogeneo che a prima vista potrebbe sembrare quasi dispersivo; ma minuto dopo minuto ci si rende conto come G.G. e soci abbiano perfettamente bene in mente dove vogliono andare a parare. La base, come nel precedente disco, fa capo a gente del calibro di Immolation, Dead Congregation, Portal, Demilich e Blood Incantation, ma questa volta i Vertebra Atlantis hanno osato ancora di più, richiamando nel calderone una più spiccata nota melodica ed orchestrale - molto vicina ai Cosmic Putrefaction, nemmeno a dirlo - che rende l'album molto più oscuro, sognate ed etereo. In una parola: elegante. Ed è proprio questo il termine che ci sentiamo maggiormente di utilizzare nel descrivervi tale opera, perché se da un lato la ferocia della voce di Mr. Gramaglia si fonde con un riffing contorto e e crudo, dall'altro tutta la melodia e la composizione si distende come l'acqua che si perde all'orizzonte, permettendovi di entrare in un vero e proprio viaggio dantesco; ed ogni volta che vi capiterà di pensare "ne voglio di più", ecco che le tracce vi accontentano contorcendosi costantemente in un gioco di chiaroscuri infinito. La bellezza di "A Dialogue with the Eeriest Sublime" è esattamente la capacità di saper rinascere ascolto dopo ascolto e di invogliare ad un nuovo viaggio per poterne cogliere ogni singola sfaccettatura. Arpeggi sognanti, parti di assolo che strizzano l'occhio al Prog anni '70, passaggi futuristici ma mai fini a se stessi o autoreferenziali: lo studio viscerale della musica offerto in chiave Metal ma non per questo sterile od una semplice dimostrazione di capacità compositiva da parte del trio. Se davvero il mondo funzionasse per meriti, signori, qui saremmo di fronte alla totale consacrazione di uno degli artisti migliori del nostro tempo. Scontato dire che i Vertebra Atlantis andranno diretti a giocarsi il titolo di "album dell'anno". Complimenti!
Ultimo aggiornamento: 22 Ottobre, 2023
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Tornano dopo cinque anni di assenza i modenesi The Modern Age Slavery, nome importante italiano nella scena Metal europea, soprattutto per la proposta estremamente moderna che unisce il Deathcore con una ferocissima componente Death Metal, il tutto condito da orchestrazioni elettroniche che molto si avvicinano alle colonne sonore dei moderni sparatutto, Doom in primis. Ebbene, i Nostri hanno deciso ancora una volta di rinnovarsi, questa volta prendendo maggiormente in considerazione la componente Death - in primis Fleshgod Apocalypse - e quella Blackened che potrebbe ricordare i Behemoth: il risultato è "1901: The First Mother", l'album che forse più di tutti ci presenta la band nella sua forma più smagliante, con un costante saliscendi di elementi che danno vita ad un disco di pregevolissima fattura. Adrenalina e velocità sono probabilmente i due elementi che maggiormente danno vita ai quasi 40 minuti dell'intero lotto di tracce, con un'attenzione sempre presente alle orchestrazioni che si stagliano e di botto si interrompono lasciando spazio a parti super cadenzate da spaccare il collo. Una modernità di sound che non disprezziamo affatto, soprattutto perché non risulta finta e confezionata in larga scala; tradotto: il quintetto ci mette sempre del suo non sfociando mai nel citazionismo fine a se stesso o comunque in stilemi troppo noti. Al contrario la band sa muoversi con degli elementi certamente conosciuti ma non per questo abusati. Insomma, siamo di fronte ad un'opera granitica senza cadute di stile e che ci presenta un gruppo fresco ed in salute. Ottima infine la scelta di non sforare troppo con la durata delle tracce, che probabilmente in un contesto simile sarebbe potuto risultare di difficile digestione.
Ultimo aggiornamento: 22 Ottobre, 2023
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Quella che andiamo a presentare oggi in sede d'esame è una band che ci ha besso ben 29 anni per tirare fuori il primo album: stiamo parlando degli statunitensi Gaffed, che dopo due demo ed un quasi trentennio di silenzio, riesumano la loro creatura con il qui presente "Die Already". Un disco che si rivolge senza fronzoli agli amanti delle frange più feroci del Death, quelle che trasudano Dying Fetus e Suffocation da tutti i pori; e tanto basta a Bob Luft e soci per ritornare in superficie dopo tutto questo tempo. In realtà ciò che andremo ad ascoltare è esattamente ciò che ci si aspetterebbe da un album con un curriculum di cui sopra: puro e semplice Brutal Death che si anima di tantissime parti groove - a tratti potrebbe quasi sfociare nello Slam - per poi esplodere in cavalcate blastate e tiratissime. Tuttavia, se da una parte l'album sembra scorrere anche bene, senza chissà quali guizzi di genio, dall'altra ci tocca far notare una certa carenza di energia, come se ogni brano cercasse di esplodere senza mai effettivamente arrivare all'apice, fermandosi un passo prima. Sarà la produzione che ci è sembrata un po' secca o comunque poco in linea con i tempi di oggi, sarà anche questa sovrabbondanza di decelerate; sta di fatto che i Nostri si comportano sicuramente bene a livello compositivo - son comunque trent'anni che i Gaffed esistono - ma il tutto ci sembra fermo al livello scolastico del genere, con poche frecce nella faretra degne di nota, come l'ottima "Perverse Exhumation", a detta nostra la migliore del lotto.
Ultimo aggiornamento: 03 Settembre, 2023
Top 10 opinionisti -
È una recensione non facile quella che andremo a stilare in questa puntata: da un lato infatti saremmo tentati di lasciarci andare ai sentori nostalgici e di fan incalliti dei Sepultura dicendo quanto questa versione di "Morbid Vision" del 1986 riregistrata dai fratelli Cavalera sia una figata colossale; dall'altro invece, tornando con i piedi per terra, ci viene da chiederci se ci fosse davvero bisogno di un restyling di uno dei dischi più iconici che ha dato gli albori al genere Thrash/Death. Andiamo con ordine. Sarebbe sciocco se dicessimo che questo nuovo parto in casa Cavalera non sia stato di gradimento. Poter (ri)sentire pezzi iconici come "Troops of Doom", "Morbid Visions" e compagnia bella in chiave moderna, con un sound molto più corposo ed una maturazione stilistica superiore di trent'anni è tanta, tantissima roba. Complice anche la voce del mitico Max, che con il suo piglio molto più hardcore - vedasi anche i live dei Cavalera Conspiracy e Soulfly - rende i brani davvero macabri e ferocissimi. Idem per la sezione ritmica ad opera del fratello Iggor, una garanzia totale da sempre. Aggiungiamo, come dicevamo, una produzione al passo con i tempi ed il gioco è fatto. Potremmo dire un centro pieno ad una distanza pari a zero. Detto in altri termini: mettere in mano ai fratelli Cavalera una loro stessa produzione di trent'anni fa è come bere un bicchiere d'acqua, risultato perfetto garantito. Ma dall'altro lato ci chiediamo se davvero ci fosse bisogno di una mossa simile: perché dare una seconda vita, per così dire, ad un disco che di seconde vite non ne aveva per niente bisogno? Mi direte la produzione forse, ma ricordiamo che negli anni '80 tutti i dischi suonavano così "caserecci", ed era anche quello il bello che dava il tocco macabro e stagnante alle produzioni dell'epoca. Questo nuovo "Morbid Visions" dunque va preso per quello che è e visto all'interno di un contesto più ampio: un gran prodotto - e grazie al c***o - di cui non c'era bisogno ma che di contro ci offre uno spaccato di passato in chiave moderna deliziandoci di perle rare ripulite e smaltate a dovere.
Ultimo aggiornamento: 03 Settembre, 2023
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Quella dei tedeschi Mental Cruelty è una storia che negli ultimi anni è stata travagliata, vedasi le vicende giudiziarie che hanno interessato l'ex vocalist a seguito delle quali la band ha dovuto riformare la line-up con una nuova voce. Ma detto ciò, la cosa che comunque ha sempre contraddistinto i Nostri, specie dopo quel gran disco di "Inferis" del 2019, è l'indiscutibile bravura musicale. In poco tempo il gruppo è diventato il nome di punta della nuova ondata Deathcore, quella che fa capo a gente come i Lorna Shore e che porta sul piatto una nuova versione del genere, pesantemente influenzata da elementi sinfonici e Black, il tutto condito da riff e ritornelli estremamente articolati e melodici; insomma possiamo dire che quella del Deathcore è una vera e propria seconda vita. Con questa premessa vi presentiamo questo quarto album intitolato "Zwielicht", uscito per Century Media e che si rivela un punto di rottura dei Mental Cruelty con il passato: in primis perché è la prima prova per il nuovo vocalist Lukas Nicolai, ben diverso dal suo predecessore ma comunque inserito fin da subito nel nuovo contesto; in secondo luogo perché il quintetto ha "addolcito" il proprio sound abbandonando quasi del tutto la componente Black in favore di un approccio più sinfonico e dedito a orchestrazioni - che personalmente sono ben gradite-. Insomma, se la firma dei tedeschi è sempre quella, dall'altro lato abbiamo degli elementi nuovi o comunque rinnovati che ci hanno lasciato l'impressione di una realtà in salute che ha deciso - forse complici le vicende giudiziarie? - di scrollarsi di dosso alcuni elementi per così dire vecchi. Il risultato è un disco compattissimo dall'inizio alla fine, in cui le chitarre passano in secondo piano, tranne nei bellissimi assoli o parti gemellate, per lasciare spazio alla sinfonia. Tuttavia in questo rinnovo c'è da sottolineare come questo stile sembra quasi aver preso un'unica direzione, ossia quella consolidata dei Lorna Shore: in qualsiasi momento dunque sembra di sentire il gruppo di Will Ramos quando, al contrario, in passato lo stile dei Mental Cruelty era molto più personale. Sul piatto della bilancia insomma abbiamo sicuramente elementi nuovi, in particolare il nuovo vocalist che risulta molto più eterogeneo; ma dall'altro si è sacrificato parte della personalità in favore di linee stilistiche sempre più rimarcate. Un buon tiro che speriamo in futuro porterà il gruppo a sistemare ulteriormente.
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