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Opinione scritta da Anthony Weird

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Opinione inserita da Anthony Weird    20 Ottobre, 2019
Ultimo aggiornamento: 20 Ottobre, 2019
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Sono passati tre anni dall’uscita di “The Holographic Principle” e non si può certo dire che gli Epica ci abbiano lasciati a bocca asciutta in tutto questo periodo; hanno seguito l’album principale, infatti, ben altri due lavori in studio, un EP contenente i brani scartati da “The Holographic Principle”, cioè “The Solace System”, e persino un secondo mini-album chiamato “Epica vs. Attack on Titan Songs”, cioè una manciata di cover con tanto di versione strumentale annessa, delle musiche ufficiali del cartone animato giapponese “Attack on Titan”, una vera chicca sia per i fan della band che per chi ama l’anime. Ora, in occasione del decennale dell’uscita di “Design Your Universe”, uno dei punti fermi degli olandesi tanto da essere definito il vero capolavoro della band, amatissimo da critica e pubblico (personalmente amo la loro musica in toto, quindi non saprei scegliere un lavoro superiore agli altri), viene presentata questa “Design Your Universe - Gold Edition”, una nuova versione rimasterizzata dell’intero album, completo della traccia bonus “Incentive”, originariamente presente solo nella versione Digipack dell’album, e di un secondo disco contenente le versioni acustiche di “Burn to a Cinder”, “Our Destiny”, “Unleashed", "Martyr of the Free Word” e “Design Your Universe (A New Age Dawns) [Pt. VI]”. Il tutto poi è stato accompagnato da un lyric video e dal videoclip di "Martyr of the Free Word (Acustic Version)", in cui la divina Simone Simons è l’unica a comparire sullo schermo. Una band infaticabile quindi, che dopo l’uscita di un capolavoro come “The Holographic Principle”, sforna nuovo materiale come il fornaio sforna il pane al mattino, soffice, fragrante e buono da morire, perché quest’album, nonostante sia solo una nuova versione di un lavoro che tutti già conosciamo, è pregno di energia, di novità, è fresco come se fosse tutt’ora il 2009 (aspettate di sentire la nuova versione di “Deconstruct” poi mi direte!). Anche se personalmente non sono un fan delle versioni acustiche, soprattutto quelle tratte da pezzi così grandiosi, solenni e pomposi, questi pezzi riveduti e riadattati per il suono senza distorsioni, non perdono l’immensa magniloquenza che contraddistingue tutta la musica degli Epica. Mi trovo quindi a consigliarlo assolutamente per chi ama il genere e ancor più se amate la band, ma anche per chi non è un fan ma apprezza la buona musica, perché questo non è solo un bel pezzo da collezione, nella discografia di un gruppo sempre più vicino alla leggenda, ma anche e soprattutto un grande esempio di buona, ottima musica, anzi di più: Arte.

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Opinione inserita da Anthony Weird    25 Agosto, 2019
Ultimo aggiornamento: 26 Agosto, 2019
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EP d’esordio per i nostrani Eternal Suffering, band di Nuoro già attiva da diversi anni, ma che arriva solo nel 2017 a dare alla luce il primo lavoro in studio, intitolato “Beyond the Threshold of Twilight”, ristampato a fine luglio 2019 dalla Imperatrix Mundi Records, sottoetichetta della Third-I-Rex. Dalle prime note immediatamente saltano alla mente gli Evol di “Dreamquest”, con questi synth squillanti ed evocativi da film fantasy, molto irrequieti e che tendono a ferire i timpani con picchi di acuti che creano una grossa tensione, ma che sembrano un po’ uno sciame di fatine impazzite. “Invoking the Full Moon” è una vera sorpresa, accantonata l’oscurità, la potenza sonora dei sardi, si incanala in percorsi ritmici, che seguono le discontinue e schizofreniche scale delle tastiere, che eseguono un lavoro egregio e mai invadente, restando in secondo piano, pur essendo una parte assolutamente predominante nella composizione. La produzione è buona, così come il cantato in scream, molto oscuro, maligno e acido quanto serve, tuttavia, è il livello di distorsione scelto per le chitarre a non convincermi. Si tratta di un suono troppo squillante e troppo acuto che non trasmette oscurità, né cattiveria, ma solo un senso di fastidio che va ad offuscare tutto il resto. Un vero peccato, perché sia la composizione che l’esecuzione risultano essere originali, studiate e assolutamente degne, tranne (appunto) per il fatto che è proprio il tipo di distorsione scelto che non rende giustizia.
Tuttavia il disco è piacevole, un EP che non merita di passare in sordina, buone idee, chiare e con riferimenti degni e palesi (spruzzate di Emperor, un pizzico di Dimmu Borgir, Enslaved…) messe in pratica più che correttamente per un black metal sinfonico che non ripercorre perfettamente gli stilemi del genere, ma crea un mondo più vicino al fantasy oscuro di Robert Ervin Howard e dello stesso Lovecraft, fino alle sconfinate immensità create dalla matita di Alex Raymond. Niente di nuovo, per carità, ma essendo un esordio di una band italiana, giovane e piena di ottime idee e buona tecnica, va assolutamente supportato e diffuso tra gli amanti del genere. Un ascolto lo meritano sicuramente.

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Opinione inserita da Anthony Weird    04 Agosto, 2019
Ultimo aggiornamento: 04 Agosto, 2019
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Vreid, una band sottovalutata dai più solo perché nata da ciò che restava dei disciolti Windir e, quindi, considerati un po’ il fratellino sfigato, ma che poi porta a casa una ragazza molto più figa della tua senza neanche avere la macchina decappottabile. Perché è così che finisce sempre, in questo percorso fatto di altri sette album completi in studio ("Lifehunger" è l’ottavo), i Vreid ne hanno fatta di strada, crescendo a pane ed Enslaved ad esempio, ma anche Bathory, Kampfar e tutto il grande filone di Black Metal più atmosferico e progressivo, che va a braccetto con il Folk ed il Viking Metal, hanno sicuramente lasciato il segno nella formazione e nell’evoluzione dei norvegesi.
“Flowers & Blood” è un'intro acustica molto atmosferica che dura il necessario per cullare lo spettatore facendolo sprofondare in un abisso gelido, prima di sfociare nella rabbia dei brani successivi con le loro chitarre appuntite ed affilate, una punta metallica che sfregia una roccia; il sound che incontriamo immediatamente in brani come “One Hundred Years” e “Lifehunger” è stridente, veloce, dove - a parte qualche passaggio rapido in doppia cassa - di Black Metal resta poco, se non forse solo uno scream cattivo ma fin troppo secco, che tuttavia migliora man mano nei brani successivi. Bellissimo è l’insegnamento anche degli arpeggi distorti di Demonaz, nei paesaggi ghiacciati di “Blashyrk”. Storco non poco il naso, con “Hello Darkness”, una sorta di “Dope Hat” di Marilyn Manson con tanto di Hoompa Loompa sotto LSD. Un pezzo malato e distorto, dove l’unico appiglio sicuro è il costante colpo di cassa sotto una voce 'ballerina', che si muove fuori posto, ed in cui troviamo un ospite speciale veramente molto gradito, cioè Aðalbjörn "Addi" Tryggvason dei mitici Sólstafir, altra pietra miliare del metal legato alle gelide lande desolate del Nord Europa. Uno dei brani che mi trovo maggiormente ad apprezzare, è sicuramente “Black Rites in the Black Nights”, con la sua dinamicità, i cambi di tempo e di ritmo. Terzine e mid-tempo si alternano a parti più melodiche, lo scream diventa coinvolgente e non mancano fasi più strettamente Black Metal con il classico riffing vorticoso, per quello che è, a mio avviso, il brano migliore del disco. “Sokrates Must Die” e “Heimatt” sfiorano l’Hard Rock, pur mantenendo il tocco Black Metal che contraddistingue la band, tuttavia l’unica cosa veramente degna di nota, sono i virtuosismi delle chitarre e dei loro “obbligati” swipe e le scale dissonate con quel tocco di NWOBHM che tutti amiamo e che ci sta sempre come la ciliegina sulla torta.
Tirando le somme, "Lifehunger" non è un lavoro che mi ha fatto impazzire; si tratta di album fondamentalmente legato al Black Metal, ma che si discosta comunque moltissimo da esso, aggiungendo non solo componenti atmosferiche, ma anche influenze di generi più accessibili come l’Hard Rock e (addirittura) l’AOR, pur non presenti in quantità predominante, ma, come il prezzemolo, ne basta una fogliolina per dare odore. Più visibile è invece anche l’influenza dei Darkthrone - di sicuro non quelli di “Transilvanian Hunger” -, ma sappiamo benissimo quanto Fenriz e Nocturno Culto abbiano talvolta snaturato il proprio sound, così tanto da far fatica a credere che si trattasse della stessa band ascoltata nell’album precedente ("Dark Thrones and Black Flags" giusto per fare un nome).
Quindi questo “Lifehunger” dei Vreid è consigliato se amate il genere e non vi disturba il Black Metal pesantemente contaminato. Tenendo presente che non si tratta di un capolavoro, può essere comunque un ascolto piacevole.

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Opinione inserita da Anthony Weird    23 Giugno, 2019
Ultimo aggiornamento: 23 Giugno, 2019
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Eeeehh quanto, quanto ha influito quel mattacchione, lazzarone di Nattramn nell’ambiente di musica estrema? Quell’unico macigno, quel monolito imprescindibile che è stato “Death – Pierce me”, è una cicatrice da mettere in mostra sul volto del guerriero, un solco scavato nella carne viva che oggi, dopo anni dall’uscita, ancora pulsa e brilla vivida, come una vena ricolma di sangue caldo come lava! Ed è qui, in quell’inferno personale di rabbia, disperazione, sofferenza e pazzia più totale, che prendono forma gli olandesi Nusquama, che esordiscono con “Horizon Ontheemt”, un pugno nello stomaco a freddo che già dalle prime note di “De aarde dorst”, tinge e prende a piene mani dall’eredità dei Silencer, tanto che chiudendo gli occhi sembra davvero di stare ascoltando una “Sterile Nails and Thunderbowels”, in una nuova versione, forse arricchita, forse no, ma l’atmosfera qui è marcia tanto quanto quella di quei pazzeschi svedesi di vent’anni fa. Splendide le cavalcate in doppia cassa, che aggiungono tensione a delle chitarre taglienti come lame, un vortice che non trova pace e continua a dimenarsi senza tregua nell’oscurità più recondita e tremenda dell’animo umano, lì dove si annida la follia e il pensiero di un dolce ricordo (reso in musica dal dolcissimo arpeggio di “Vuurslag”), non fa che creare ulteriore dolore da cui è impossibile sfuggire. Questo album riesce veramente a mettere i brividi, non si tratta di una copia carbone dei Silencer, ma casomai di un omaggio meraviglioso, un ringraziamento per avere così bene descritto la follia e tutto il male che essa cela, creando un disco che ci trasporta in un’altra regione, un altro continente ancora inesplorato del pianeta nero creato nei vortici oscuri e dai vocalizzi spastici di Nattramn & friends.
Questo è un album fantastico, che riesce ad accomunare ed amalgamare perfettamente le sonorità del black metal più classico di stampo scandinavo, con una buona dose d’atmosfera, su una base massiccia e preponderante, di depressive-suicidal black metal, non generico, non con la pesantezza e i macigni sonori di Abyssic Hate e del Funeral Doom, ma che tanto, tantissimo deve al lavoro dei Silencer ed il tutto è palesemente racchiuso in tracce come “Eufrozyne” e “Ontheemd”; è con “Met gif doordrenkt”, che si raggiunge l’apice, ma, è tuttavia inutile fare una classifica dei pezzi peggiori (migliori), perché ci troviamo di fronte ad un album che non cala di mezzo tono dalla prima all’ultima nota del disco, che non ha un attimo di cedimento o di esitazione, ma corre spedito come un frecciarossa, mentre siete legati sul parabrezza della locomotiva! Se con i Silencer avete fatto un viaggio nell’abisso, verso un pianeta capovolto ed empio, con i Nusquama avete vinto il biglietto di ritorno.

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Opinione inserita da Anthony Weird    25 Mag, 2019
Ultimo aggiornamento: 26 Mag, 2019
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Finalmente! Sono tornati i Rammstein ben dieci anni dopo l’ultimo album in studio, quel “Liebe ist für alle da” e l’impossibile da ignorare “Pussy”, con tanto di videoclip 'porno'. Ora, tra rumors su uno scioglimento imminente e divergenze interne, eccoli invece con un album del tutto nuovo, che è riuscito a creare polemiche addirittura prima dell’uscita grazie a un brano come “Deutschland”, con il “solito”, videoclip scioccante!
L’album omonimo della band parte proprio con questo pezzo, che è inoltre il primo singolo estratto, intro stile EBM con synth irrequieti subito affiancati dalle ormai celebri chitarre granitiche della band, in un crescendo che esplode subito dopo, donando la carica adrenalinica che i fan da sempre amano e che per troppo tempo hanno aspettato. La strofa pare soffrire leggermente in favore di un ritornello e drop spettacolari; una delle pochissime band capaci di unire elettronica, pop e il meglio dell’industrial di stampo tedesco, derivante direttamente dal Darkwawe, con un metal potente e predominante, massiccio e perfettamente amalgamato con tutto il resto. Il secondo brano, “Radio”, rafforza ulteriormente questo concetto, arrivando quasi a scimmiottare ciò che la radio rappresenta, con le sue canzoncine spacciate per arte. Fornisce al tipico pubblico delle canzoni da radio, appunto, qualcosa che possono ben fruire ed apprezzare, pur senza rendersi conto di esser presi per il culo. E la cosa non mi sorprende. Di tutt’altro tenore è invece l’intro sinfonica di “Zeig dich”, con cori macabri e una certa cattiveria espressa non solo nel tono di voce, ma anche nel suono delle chitarre secco e tagliente come un lama che trita le nostre orecchie servite su un piatto d’argento. La melodia tuttavia non manca e, a mio avviso, è anche un grosso punto di forza, un fiume che riesce bene ad incanalare la giusta dose di cattiveria in un brano originale e che non scende mai in banalità, soprattutto quando i cori riprendono e sembra di ascoltare una band Symphonic.
“Ausländer”, ribalta totalmente questo concetto, proponendo un brano più in linea con quelli iniziali, ma con una enorme dose “ballabile”, di puro EBM oscuro e malsano, con voci infantili in lontananza, cariche di reverbero, che sembrano urlare in un tunnel di cemento e acciaio. Un brano più calmo e meccanico, pistoni che calano al ritmo (non a caso) sessuale di “Sex”, mi ricordano immediatamente i The Sisters of Mercy di “Lucretia my Reflection”. Un brano che scorre e che suona Rammstein in modo assoluto, ma che tuttavia non risulta memorabile e, personalmente, non apprezzo l’assolo di Synth acidissimo, lasciato banalmente ai ¾ del pezzo.
Mi rinfresco le idee con “Puppe” (si, lo so, se siete toscani starete morendo dalle risate e io con voi), un pezzo disperato e cattivo, una canzone che richiama Marilyn Manson di “Torniquet”, ma senza la stessa intensità emotiva, che però è tuttavia palesemente più “metal”, con la voce di Lindermann che quasi “gratta” sul microfono le corde vocali. Solito ritmo cadenzato e regolare, per “Was ich liebe”, con un basso monotonale che tarda ad arrivare, ma che quando entra in gioco, fagocita tutto il resto. Hard Rock atmosferico che va ad impastarsi con grossi groove, senza mai rallentare di un passo, ma inesorabile, come un treno, avanza senza sosta, sempre alla stessa velocità. L’intro più tenue e dolce di “Diamant”, accoglie la voce dura e grossa di Lindermann, in una ballad molto intensa e melodica, di una atmosfera che pare c’entrare poco con il resto dell’album, ma sappiamo che i tedeschi ci sguazzano nell’essere controversi. Quasi a voler confermare quanto appena detto, arriva il Synth di “Weit weg” e a dire la verità, è l’unica cosa del brano che si fa notare, perché il resto scivola via in modo abbastanza anonimo, a parte l’alzare la voce sull’ultima parte, ma niente di memorabile. Pezzo, assolutamente molto più serio e che riaccende le speranze è “Tattoo”, che riporta alla grande l’ispirazione ai Rammstein, che tornano a picchiare forte e a lasciare il segno, con riff affilati e batteria martellante, sorrette da un basso che potrebbe muovere un edificio! Questi sono i Rammstein che mi piace ascoltare, potenti, irriverenti, consapevoli e mai banali! Ultimo step con “Hallomann”, riff di basso e un’atmosfera sinistra, su un ritmo cadenzato che, come in precedenza, non sdegna la melodia, andandosi a collocare immediatamente nella media del disco.
Per concludere, questo “Rammstein”, non è un album memorabile, né il migliore della band, ma che sicuramente ha un grande potenziale e che non deluderà i fan. Da avere per i fan della band in questione, consigliato invece per chi ama il genere.

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Opinione inserita da Anthony Weird    28 Aprile, 2019
Ultimo aggiornamento: 29 Aprile, 2019
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Qualche settimana prima dell’uscita dell’album "Echi dall’Abisso", i Simulacro avevano dato alla luce questo EP in formato digitale intitolato "SuperEgo", ma, vuoi per il fatto di essere solo un EP, vuoi per il maggiore interesse suscitato dal Full, "SuperEgo" è passato quasi totalmente inosservato. E' un bene quindi, soprattutto per i collezionisti, che queste due canzoni inedite, affiancate dalla cover degli Aborym “Roma Divina Urbs”, abbiano trovato spazio su un supporto fisico.
I due brani ricalcano, ed in qualche modo accentuano, lo stile che ha caratterizzato il successivo “Echi dall’Abisso”, Black Metal atmosferico e ricco di tensione, cantato in italiano. Particolare l’intro lasciata alle percussioni di “SuperEgo” e nonostante sia solo un Demo (praticamente), la qualità audio è molto buona, una bellissima produzione che lascia in secondo piano le chitarre, per donare la prima fila uditiva alla parte ritmica. Unica “nota stonata”, è la voce che a mio avviso non scorre naturale, ma si trova in un mondo dove arranca e si trascina sul primo pezzo, ma che poi riuscirà ad evolversi per sopravvivere a questa natura ostile nei due brani seguenti, così come in “Echi dall’Abisso”.
Un EP che va a “tappare” un buco nella discografia completa della band e che ha la sua degna release su formato fisico. Dateci un’occhiata se amate il genere e per supportare la band, rivolto soprattutto agli appassionati di Black Metal.

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Opinione inserita da Anthony Weird    14 Aprile, 2019
Ultimo aggiornamento: 14 Aprile, 2019
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Spesso, troppo spesso, il metal italiano viene snobbato, dimenticato, se non fosse per i soliti nomi noti a livello internazionali, si crede che non esista altro e spesso sono proprio gli italiani ad assumere questo atteggiamento. Invece, la scena underground italica è florida e pregna di piccole/grandi perle da scovare, cercando nella melma più putrida e malsana di un ambiente trasudante metal estremo e passione sanguigna di chi non smette di suonare, pur non essendo altro che una goccia in un oceano nero e purulento.
E’ questo evidentemente il caso dei “Simulacro”, band sarda giunta al secondo album completo, chiamato “Echi dall’Abisso”.
Il Black metal cantato in italiano, si fonde con momenti molto più progressive e voci eteree femminili che tolgono un po’ di malsana sporcizia ai pezzi.
Non si tratta del solito album black pregno di malvagità e oscurità, ma siamo di fronte più che altro ad una ricerca interiore, un cammino travagliato nella mente umana, come un odierno Dante che attraversa il mare infernale della propria mente ed anima, per giungere alla comprensione superiore, cosa che viene sottolineata anche dai testi, ad esempio in “Eco II”: “Vivo senza senso”.
Inizialmente avevo storto un po’ il naso, vedendo i titoli delle canzoni, chiamate tutte “Eco” con accanto il numero che ne indica il posto il scaletta, pensando che si trattasse solo di una ennesima scelta stilistica senza senso, come ormai ce ne sono a decine ma, ascoltando l’album, immediatamente si comprende come la scelta dei titoli sia assolutamente una normale conseguenza e non sarebbe potuto essere diversamente. Tutto il lavoro scorre come un fiume, non so se la band avesse pensato ad un concept album, ma non ha senso ascoltare solo un brano, senza sentire tutto. Bisogna lasciarsi trasportare dalle rapide fino all’oceano, tenendosi forte durante le parti più concitate, come Eco IV ed Eco V, per non parlare di Eco VI, che è veramente il più in cui le rapide sono profonde e potentissime e sento la mia barchetta lottare, mentre la musica di questi ragazzi la sballotta ovunque, durante il momento più intenso della piena.
Vengono in mente le inondazioni musicali degli Emperor o il black francese, sotto una produzione molto migliore. A livello tecnico è notevole il lavoro alla batteria, sempre presente, costante, pronto a sostenere e sollevare tutto, con un basso prepotente, ogni nota è una esplosione in una caverna, che cozza con le chitarre spigolose, appuntite e che ossessivamente pungolano la carne fino a ridurla in una poltiglia, che poi viene accarezzata e spalmata dolcemente da momenti più lenti, melodici, aumentando l’atmosfera e lo spessore non solo del brano, ma di tutto l’album.
Non ci troviamo di fronte ad un capolavoro, sia chiaro, ma è una bella scoperta, qualcosa che non si fonde sparendo nell’underground, ma che è capace di farsi notare ed apprezzare. Sicuramente da ascoltare, date una possibilità ai Simulacro!

Anthony

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Opinione inserita da Anthony Weird    24 Marzo, 2019
Ultimo aggiornamento: 24 Marzo, 2019
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Ad appena un anno di distanza dal full-length di debutto, tornano i Non Est Deus con un secondo album dal titolo “There is no God”. Cinque pezzi con una bella produzione che immediatamente salta all'occhio, anzi all'orecchio, già dalle prime note di pianoforte di “Poisonous Words”. Black Metal di palese scuola norvegese che tutto risucchia e distrugge nel suo vortice di chitarre granitiche. Non mancano momenti meno canonici e più “moderni”, che si amalgamano benissimo al resto della composizione. Bellissimi i fraseggi di basso totalmente inaspettati e la melodia che subito dopo va ad accompagnare lo screaming ferale prima che il vortice riprenda la sua opera di devastazione. Un titolo come “Fuckfest of Blood” non poteva non solleticare una morbosa curiosità, ed è così che mi godo la spettacolare intro velocissima, di un Black Metal che convince sempre di più. Ci trovo persino tracce di NWOBHM oltre che sfumature Thrash qua e là e non mancano, inoltre, passaggi più moderati e melodici, come pianoforte ed arpeggi dolci che, di colpo, sono dilaniati, distrutti e violentati dalle chitarre e dal tappeto di doppia cassa! “Coffin of Shattered Dreams”, inizia dolcemente con una melodia decadente al limite del gothic o del doom, una cattedrale crollata nelle cui segrete si muove una entità disperata, che prende fuoco e corre, in preda al delirio. Un brano incredibilmente furioso e malinconico, anche grazie alla continua nota dissonante della chitarra solista, che dona il giusto tocco disturbante in un pezzo che non trova pace tra sfuriate cariche di odio e risentimento, a fasi di arte pura, dove non si teme di sperimentare, ma sempre nel modo giusto, pescando a piene mani dal mondo gothic-darkwawe più estremo, come il delirio di Sopor Aeternus e le ballad sotto acidi di Marilyn Manson. Stessa ambientazione ed atmosfera, ma abbandonate le sopracitate influenze, “Hobsons Choice” risulta molto più maligna e disturbata. Se prima ci trovavamo di fronte un brano che raccontava il cercare conforto, il tormento di una vita nel buio, ecco che qui questi sentimenti auto commiserativi vengono abbandonati, per crogiolarsi nella propria malvagità e perversione, ben trasmessa ed esposta in un Black Metal impeccabile. Chitarrone blues da pub nel deserto dell’Arizona per “Godless”, ultimo brano di questo album, che immediatamente riprende a martellare per il pezzo più furioso e veloce. Il Black Metal si fonde con suoni da film di fantascienza anni ’50, sperimentazioni derivate direttamente dal noise che vanno a contornare un brano che non avrebbe bisogno di queste stranezze per funzionare e devo ammettere che questo mi fa leggermente storcere il naso. Tuttavia, ci troviamo di fronte ad un album fantastico, fresco e tradizionale al tempo stesso che non può che soddisfare chiunque ami il genere. Assolutamente da ascoltare e possedere!

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Opinione inserita da Anthony Weird    03 Febbraio, 2019
Ultimo aggiornamento: 03 Febbraio, 2019
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Sono francesi, amano il Fantasy ed il Black Metal e rispondono al nome di Darkenhöld, questa band arrivata al quarto full length intitolato “Memoria Sylvarum”. Nove atti che partono con la chitarra acustica di “Sombre Val”; immediatamente salta all'occhio l'ottima produzione e la potenza sonora dei francesi, che si esprime in un Black Metal ferale e veloce, scandito da una batteria perfettamente incastonata in un tappeto di doppia cassa chirurgica. Splendido il lavoro delle chitarre che creano un'insormontabile barriera sonora, tangibile e concreta come roccia, per poi dar sfogo ad una cascata melodica che ci porta direttamente alla seconda canzone “La Chevauchée des Esprits de Jadis”: batteria in up e via, un brano più lento del precedente, di cui però conserva perfettamente il sound e la potenza, arricchita anche da inserti puramente folkloristici. Buona anche la voce che, seppur non risulta viscerale, porta uno scream che suona abbastanza malvagio da convincere. Il brano sfocia infine sul Black melodico che strizza l’occhio ai canti gregoriani con cavernosi cori in lontananza, prima di cedere il passo a “Ruines Scellées en la Vieille Forêt” ed al suo blast beat furioso. La velocità aumenta, la potenza esplode e il tutto si fa più grezzo e violento. Le raffinatezze che avevano contornato i brani precedenti qui sono del tutto accantonate ed è la rabbia a parlare, anche se la band non si risparmia assoli e scampanellate sui piatti. “A l'Orée de l'Escalier Sylvestre”, è un brano molto più cupo di quanto ascoltato fino ad ora: un black metal palesemente sinfonico, con tastiere che creano atmosfere lugubri e decadenti di anime perdute, che vanno a mescolarsi al marcio che esce dalla porta dell’Inferno, posta sotto una cattedrale sconsacrata! Veramente un pezzo notevole, che gode di un’ottima varietà compositiva e che non perde mai la carica e la piacevolezza d’ascolto, anche durante i vari rallentamenti e l’alternarsi di tastiere e cori, a momenti più violenti e grezzi. Uno step di grande valore per questo album. “La Grotte de la Chèvre d'Or” parte con dei suoni ovattati, come cristalli in una caverna congelata che risuonano al tocco di dita bagnate, tastiere in lontananza, cantano una melodia triste e solitaria e l’intermezzo si conclude, così come era iniziato, in attesa che il gelo blocchi anche il battito di quel cuore troppo stanco. Melodia, invece, è la parola chiave per “Sous la Voûte de Chênes”, che si lascia alle spalle il black metal più lercio per donarci qualcosa che racchiude l’essenza del metal legato al medioevo e alle atmosfere fantasy, senza per questo rinunciare alla potenza ed ai muri sonori tipici del metallo nero. Intermezzo in acustico, per poi tornare a martellare pesantemente con tanto di assolo. Brano numero sette è “Clameur des Falaises” con il suo black ferale, più simile a “Sombre Val” e all’apertura del disco, che riserva un minimo di tastiere solo sul finale. “Errances (Lueur des Sources Oubliées)” e “Présence des Orbes” rappresentano il giusto finale per un album molto variegato, che riesce a variare senza mai perdere il proprio stile ed il proprio sound. Una band ormai esperta che sa come mescolare bene tecnica, tradizione Black Metal e innovazioni legate alla propria personalità, per un album davvero molto piacevole e che non deluderà chi ama il metal più estremo, così come chi apprezza lavori più legati al Folk o alle atmosfere Fantasy. Consigliato!

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Opinione inserita da Anthony Weird    27 Gennaio, 2019
Ultimo aggiornamento: 27 Gennaio, 2019
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Erano più di dieci anni, dodici per l’esattezza, che aspettavo una nuova release con il logo di King Diamond; tra problemi personali (è stato operato al cuore), screzi con le etichette e quant’altro, l’attesa si era fatta davvero infinita ed erano molti i fans che credevano che ormai il celebre cantastorie dell’incubo si fosse ritirato, appendendo il microfono al chiodo; ed invece, finalmente, ecco il tanto sospirato doppio DVD Live “Song for the Dead Live”, che racchiude le performance della band tenutesi rispettivamente al The Fillmore in Philadelphia, il 25 Novembre 2015 e al Graspop Metal Meeting il 17 Giugno 2016. Grande è l’impatto visivo che immediatamente colpisce il pubblico, perché prima della musica è l’entrata in scena della performer nei panni della nonna con l’intro “Out from the Asylum” e la immediatamente successiva “Welcome Home”, dove viene subito messo in chiaro che non siamo di fronte ad un semplice concerto, ma ad uno show totale, che unisce immagini, scenografia, come la doppia scalinata che circonda la batteria, con tanto di soppalco immagini di demoni sghignazzanti e immense croci al neon - rigorosamente rovesciate -, ma soprattutto la grandissima musica, per uno spettacolo senza tempo. Al grido di “Grandmaaaa” il pubblico impazzisce, quando il faccione dipinto del Re di Quadri fa il suo ingresso in scena, con la telecamera che indugia sul suo camminare sornione e fiero. A donare ancora più epicità al tutto, la bellezza fragile ed eterea di Livia Zita, moglie del vocalist. “Sleepless Nights”, “Halloween” e “Eye of the Witch” in rapida successione, fino al punto forte della prima parte, ovvero il magistrale capolavoro “Melissa”, con tanto di performer ad interpretare la strega, arsa sul rogo in scena! Continua poi l’auto-omaggio ai Mercyful Fate, con "Come to Sabbath" e in questa fase un pentacolo nero con tanto di caprone viene innalzato al di sopra del soppalco che circonda lo stage. Particolare attenzione viene data all’esecuzione di Matt Thompson dietro le pelli, soprattutto durante l’esecuzione di brani come “The Family Ghost” e “Arrival”; infatti la telecamera, tra un graditissimo primo piano della bellissima Livia Zita e l’altro, indugia non poco sui colpi di batteria e la cosa fa notevolmente piacere, perché voce e chitarre, hanno sempre il 90% dell’attenzione. Continua la spettacolarità dell’esibizione con l’infanticidio della piccola “Abigail”, tirata fuori direttamente dalla sua bara bianca - portata in scena da due druidi incappucciati - per opera dello stesso King Diamond e, quando la cosa si ripete - questa volta con la piccola fasciata totalmente, tipo mummia - capisci che il cantante danese ce l’ha a morte con i bambolotti! Scherzi a parte, l’impatto visivo è veramente notevole e raramente si era vista un’immagine così forte e scioccante direttamente sul palco, figlia di quello Shock Rock targato Alice Cooper, così come quando “Miriam”, la madre di Abigail “partorisce” direttamente in scena, per poi scaraventare a terra la piccola sugli stacchi di batteria, con luci rosse che infiammano lo stage e le risate isteriche di King Diamond. Un DVD live che soddisfa la vista oltre che l’udito quindi, con i classici della lunga carriera di uno dei padri del metal mondiale, recitati da performer di tutto rispetto, di grande bravura ed espressività, come la bellissima “Jodi Cachia” o il faccione incupito di “Erling Sibbern” che, nei panni di un prete, scambia occhiatacce e anatemi con King Diamond e le sue risate isteriche. Già dai primi lavori dei Mercyful Fate, come “Nuns have no Fun” o il sopracitato “Melissa”, King Diamond è da considerare uno degli artisti maggiori della scena metal, supportato da musicisti straordinari, come il guitar hero Andy LaRocque, da sempre è stato amato o odiato, ma incredibilmente, rispettato e ammirato da chiunque, perché la genialità e l’arte reale e tangibile di questo poeta maledetto, cantastorie del macabro, è sotto gli occhi (o meglio le orecchie) di tutti, ed è innegabile. Quindi al termine della scaletta, mi lascio cullare dalle note della controversa “Insanity”, mentre la band, compresi i performer, salutano il pubblico lanciando plettri e bacchette, tra baci e corna alzate! Non ci resta che aspettare il prossimo Full-length, che, a detta di Andy LaRocque, è in fase di completamento e si prevede l’uscita entro il 2019. Nell’attesa, ci gustiamo questo doppio DVD live, che è il giusto ritorno sulle scene, di uno dei grandi maestri della musica che amiamo. Assolutamente da avere!

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