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Opinione scritta da Chiara

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Opinione inserita da Chiara    11 Giugno, 2015
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Poca spesa, tanta resa. Il sound dei londinesi Disfago sembra provenire da uno scantinato di Camden Town (cosa che probabilmente rispecchia la realtà), quindi partono già con il piede giusto. Per non parlare dell’atteggiamento, che più punk di così si muore. Come afferma il bassista Simon, “se ti manca l’originalità non ti stai ribellando e se non ti ribelli non hai assolutamente compreso il segreto del rock n roll…”

Ma il bello dei Disfago e della loro opera omonima è che allo spirito punk si mescola una vena thrash che rende il tutto ancora più aggressivo e diretto, ruvido e sporco, un vero dito medio al tanto odiato establishment. “Whisky Breath”, “400K” e “Midnight Marauder” sono tutto questo, un assalto violento e alcolico che prende alla gola e stringe sempre più forte. Se “Scrvmpyfyre” è l’apoteosi del growl, “Tyrant Skull (Poverty And Lust)” si fa più pensosa, rallentando i ritmi e sfiorando la denuncia politica.

I Disfago sono perfetti per tutti i fan di GG Allin, Tank e Sarcofago, e per chi ama l’attitudine tutta British del “no future”. Ora vediamo se i tre musicisti riusciranno a uscire da quello scantinato di Camden per conquistarsi uno spazio tutto loro.

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3.5
Opinione inserita da Chiara    10 Giugno, 2015
Top 50 Opinionisti  -  

Devo ammettere che ascoltare “The Nerdvrotic Sounds' Escape” è stato molto, ma molto divertente. Come penso sia stato altrettanto spassoso comporlo per Raffaello Indri (Elvenking) e Camillo Colleluori (Hollow Haze), le menti diaboliche alla base del progetto Frankenstein Rooster, alla seconda prova di studio dopo l’esordio del 2009, “The Mutant Tractor”, che all’epoca è stato accolto molto positivamente dalla critica.

L’idea alla base del side project del “galletto zombie” è che non ci siano limiti alla creatività, e che sia inutile e arrogante porne: infatti, il risultato finale di “The Nerdvrotic Sounds' Escape” è un amalgama abbastanza omogeneo di rock, jazz, metal e funk, arricchito da arrangiamenti elettronici ed elaborati, che i nostri amano definire Post-Agry-Rock. Il tutto, e proprio questa è la forza dell’idea dei due virtuosi musicisti, è impreziosito da citazioni cinematografiche che rendono questo lavoro un piccolo indovinello da districare divertendosi a riscoprire le proprie pellicole preferite.

Le dieci tracce che compongono “The Nerdvrotic Sounds' Escape” sono strumentali nei quali Raffaello e Camillo si lanciano in voli pindarici e dichiarano il loro amore sviscerato per alcune pellicole cult. A partire dalla title track, che esordisce con un estratto del celeberrimo “Frankenstein Jr”, per poi prendere la strada di un metal funkeggiante, divertente e sempre più veloce. Con “Elektro Raptor” è il turno dei dinosauri, rievocati da strani versi animaleschi, accompagnati da un tappeto di percussioni e riff di chitarra. Il pezzo più folle dell’album è “Beastly Dancing”, che campiona “Fracchia la belva umana” utilizzandone alcuni dialoghi come lyrics. Pazzesco! E in questo minestrone nerd possono mancare gli zombie? Certo che no, e infatti troviamo una bella citazione romeriana in “Walking Shred”, che tra l’altro, è anche l’episodio più heavy di “The Nerdvrotic Sounds' Escape”. Così come non possiamo far altro che gustarci gli omaggi a “Il Signore degli Anelli” (“Mullog”) e ad “Arancia Meccanica” (“The Phantom Of The 13th Orange”), oltre che a “Star Wars” con l’interessante “Flying In A Yoda’s Dream”. Le danze si chiudono con “Sevean Argagn dance”, una suite elettronica di oltre tredici minuti, che forse sarebbero stati più fruibili e fluidi evitando la lunga pausa a metà del brano.

Niente di nuovo sotto il sole, ma Raffaello Indri e Camillo Colleluori sono due musicisti con i controfiocchi, e il loro divertissement mantiene sempre alta la bandiera della qualità. Consigliato ai metallari cinefili che non si spaventano di fronte alla musica ibrida, una creatura mutante le cui membra appartengono a tanti stili diversi. Proprio come il mostro di Frankenstein!

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Opinione inserita da Chiara    09 Giugno, 2015
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I Mechanical God Creation sono una delle realtà italiane in ambito technical death metal più interessanti. Non solo perché sono tra i pochi esempi di female fronted metal nel quale per una volta, la frontwoman non è una cantante lirica o melodica, ma anche perché i MGC sono musicisti di livello superiore. Basta ascoltare “Artifact of Annihilation” per rendersene conto immediatamente. Perché technical spesso non è necessariamente sinonimo di bravura. Ma nel caso della band milanese, è vero l’esatto opposto.

“Artifact of Annihilation” è il secondo lavoro di studio datato 2013 per i Mechanical God Creation, a distanza di quattro anni dall’esordio, “Cell XII”. La band però nasce nel 2006 per volere della vocalist Lucy, la quale è stata in grado di dribblare con eleganza e intelligenza i problemi derivanti dai diversi cambi di line up che hanno minato la formazione nel corso dei suoi nove anni di vita. È infatti Lucy a tenere le redini del discorso, con decisione e fermezza, e con il potere di discernere sempre compagni di avventure di altissimo livello di cui circondarsi: gli strumentali “Pyramidion” e “Lullaby for the Modern Age” ne sono un esempio lampante. Al tempo stesso, nonostante l’intrico degli assoli e la tecnica sopraffina, molto spesso ci si apre alla melodia, come nel caso di “Terror In The Air”, che per i parametri del technical death metal, è una vera e propria chicca. I nostri utilizzano l’elettronica in modo intelligente e non massivo, soprattutto per creare l’atmosfera giusta con rumori di sottofondo, urla, e qualche discreto effetto alla voce. Voce, appunto, che la nostra Lucy riesce a padroneggiare al meglio e a trasformare in un growl da leonessa death.

Non c’è un singolo pezzo in “Artifact of Annihilation” che non sia degno di nota. Certo, non è un album di facile ascolto, ma se siete deathster incalliti vi entrerà nel sangue da subito. Per placare la nostra sete di rabbia, growl, e assoli battenti, non ci resta altro che aspettare la terza prova della band. Speriamo solo non tardi ad arrivare.

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Opinione inserita da Chiara    05 Giugno, 2015
Top 50 Opinionisti  -  

Dimenticate il metalcore carino, pulito e infiocchettato che va tanto di moda negli ultimi tempi. Sono arrivati gli Sterbhaus a ribaltare la situazione, e loro di certo sono tutt’altro che carini, puliti e infiocchettati. Dal 2007 infatti, la proposta della band svedese è un’attitudine sonora che risiede sotto il termine ombrello di “Metal Deluxe”, che comprende black, speed, thrash, death e heavy metal in un’unica conflagrazione cosmica. Il tutto farcito da una dose massiccia di humour nero e dalla voglia costante di divertirsi ma soprattutto di far divertire il pubblico, cito, dai sedici ai sessant’anni (basta guardare le foto promozionali della band per farsene un’idea).

“New Level Of Malevolence” è la seconda prova di studio per la formazione di Stoccolma, dopo l’exploit del 2012 con “Angels for Breakfast …And God for Lunch”, che li ha fatti conoscere anche oltre confine grazie a un tour che ha toccato l’Europa e zone davvero remote (vedi alla voce Sudamerica). La nuova fatica dei quattro metallari svedesi è la massima espressione del Metal Deluxe, sublimato in un sound potente, efficace, diretto, senza fronzoli, tecnicamente ineccepibile. Si attacca con “Grudgeholder + Hatemonger”, pezzo dal quale emerge subito la voglia di spaccare e il songwriting dissacrante, oltre che i riff robusti, il blast beat e la voce black e velenosa di Marcus Hammarström che la fa da padrone per l’intera durata non solo del pezzo, ma dell’album in toto. “Necrostabbing the Corpsefinder” è da headbanging istantaneo, non importa se siete a casa, in ufficio o in strada, trattenersi dallo scuotere la chioma è pressoché impossibile, tutta colpa del ritornello quasi balbettato, divertente e dissacrante allo stesso tempo. I chitarroni ignoranti prendono il volo in brani come “Bloodbarf” e “Crossed and Pissed and Devoured”, singolo lanciato da un video in pieno stile Sterbhaus, che vede protagonista uno strano uomo nero che si innamora perdutamente di un macabro simulacro della band (se vi piace il genere, buttate un occhio anche ai video dei pezzi meno recenti dei quattro, non ve ne pentirete). Cattivissima pure la title track, smorzata da un inserto di musica pseudo-balcanica che con le martellate di basso e batteria c’entra come i cavoli a merenda, ma strappa più di un sorriso. I nostri di certo non risparmiano energie, tant’è che tutti i pezzi durano più di cinque minuti, tranne la fulminante “It Came from the Brain”, una thrashata in piena regola. “The Grand Theology” è la degna conclusione dell’opera: sembra impossibile ma la velocità è quasi raddoppiata rispetto agli altri pezzi, e il tutto si conclude all’improvviso e senza troppi complimenti esattamente così come è iniziato, del resto.

Gli Sterbhaus sono quattro schegge impazzite, ma il bello è che nella loro follia, riescono a trovare una coerenza stilistica che molte altre band che si prendono molto più sul serio non hanno. “New Level Of Malevolence” è un ascolto per chi ama il metal più tecnico, irriverente, e senza peli sulla lingua, senza essere pretenzioso e intellettualoide.

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Opinione inserita da Chiara    04 Giugno, 2015
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I Cro-Mags sono una leggenda urbana. Imprescindibili per tutti i cultori dell’hardcore, e per tutti coloro che amano la musica nella sua accezione più ampia, che travalica i confini di diversi generi cercando di assorbirne le caratteristiche migliori. La band newyorchese è stata tra le prime a mescolare thrash metal e hardcore, e il risultato finale è questo meraviglioso ibrido che solo pochi altri musicisti sono riusciti a padroneggiare con la stessa disinvoltura. La ristampa di “Near Death Experience” da parte della Punishment 18 Records è un ottimo modo per riscoprire questa formazione avvolta da un alone di misticismo e dall’energia primordiale.

“Near Death Experience” è stato dato alle stampe nel 1993, in un momento di piena transizione per i Cro-Mags: il carismatico bassista/vocalist Harley Flanagan aveva da poco gettato la spugna, cedendo il suo posto all’altrettanto incisivo John Joseph Bloodclot. Ma in seguito al lancio del disco, la band si è sciolta per ritrovarsi dopo un silenzio di quasi sette anni dando vita all’album simbolo della reunion, “Revenge”. Ma torniamo a “Near Death Experience”, sicuramente il lavoro meno punk della band del Lower East Side e il più impregnato dalla corrente spirituale di matrice orientale a cui i nostri erano legati in maniera particolare. L’atmosfera mistica si respira fin dal primo brano, “Say Goodbye to Mother Earth”, un viaggio siderale in stile Pink Floyd, che si trasforma in un trip acido nel giro di pochi secondi. “Kali-Yuga”, l’era del disordine nella cultura induista, si rispecchia nei ritmi forsennati con i suoi conflitti e il clima di malvagità, mentre il semi-rap di “War on the Streets” ritorna al presente e nel tanto amato/odiato quartiere di New York in cui i Cro-Mags sono cresciuti, e al quale hanno dedicato pezzi memorabili intrisi di rabbia hardcore. Il brano più innovativo di “Near Death Experience” è “Time I Am”, lontano anni luce dalle sonorità street, etereo, spirituale, in cui la voce dal timbro unico e riconoscibile tra mille del buon Bloodclot spicca il volo toccando le sfere più alte del cielo, per rimanere in tema mistico/religioso. Dopo l’esperienza extra-sensoriale di “Time I Am”, “Reflections” è un pugno nello stomaco, tanto pare frenetica e selvaggia in seguito ai ritmi diametralmente opposti del pezzo precedente. Il viaggio dei quattro musicisti si chiude con “The Other Side of Madness”, il brano sicuramente più catchy di “Near Death Experience”, con il suo refrain tanto (ma tanto) anni ’90 e i riflettori puntati sulle sei corde.

Forse “Near Death Experience” non è l’album migliore dei Cro-Mags, ma i suoi trentatré minuti sono puro godimento. Per il momento non si vocifera di nessun ritorno discografico, ma la ristampa e il tour che li sta vedendo sui palchi dei festival internazionali più blasonati fa ben sperare. Quello che è certo è che il mito dei Cro-Mags continua a serpeggiare negli ambienti underground ed è sempre un piacere riscoprirli e apprezzarne le mille sfumature.

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Opinione inserita da Chiara    03 Giugno, 2015
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Gli Infected sono una band piacentina di recente formazione, i cui quattro componenti sono ragazzi davvero giovanissimi. Parto subito con una speciale nota di merito, perché è sempre bello vedere (post)teenager devoti a un certo tipo di musica, che coraggiosi e sprezzanti delle mode attuali, ne portano avanti l’eredità con il sudore della fronte e tanta passione. L’omonimo demo autoprodotto dalla band è infatti un esempio di thrash metal venato di influenze groove e death che hanno origine in un’epoca in cui Samuele, Gianmarco, Marco e Michele forse non erano neanche nati.

L’EP presenta quattro brani genuini, immediati e soprattutto arrabbiati. A partire da “We Are Coming”, rapida ed efficace, passando a “This Is War (The Fucking War)” che si concede un excursus verso ritmi più complessi e incalzanti, senza dimenticarsi la rabbia atavica del primo pezzo. “(R)evolution” esordisce con un’intro che fa molto “For Whom The Bell Tolls” dei Metallica, per poi sfociare nello speed più frenetico e in un’interessante per quanto grezza sovraincisione di linee vocali. Si chiude con “The Purge”, il pezzo più peculiare sul versante della parte ritmica, che rimane al centro dell’attenzione per tutta la durata del brano.

La proposta degli Infected, come accennavo qualche riga più su, è diretta e non filtrata, il che ha i suoi pro e i suoi contro. Sicuramente il vantaggio è quello di uscirne con una reputazione da duri e puri, che è una caratteristica distintiva di tutti coloro che vogliono sfondare nel sottobosco thrash (o comunque underground in generale). Il rovescio della medaglia è che la scarsa mediazione mette in luce i particolari sui quali bisogna ancora fare qualche riflessione (la voce per esempio, i cui tratti grunge, però, non sono sempre necessariamente un male). Siamo ancora agli inizi, ma di certo i nostri hanno dalla loro tutto il tempo del mondo per raffinarsi e trovare una propria identità. Il sentiero imboccato è quello giusto. Basta trovare una buona bussola funzionante per non deviare dal percorso.

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Opinione inserita da Chiara    28 Mag, 2015
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I giovanissimi Bloodrocuted, band belga fondata cinque anni fa dal bassista Daan Swinnen e dal chitarrista/vocalist Bob Briessinck quando erano appena quindicenni, sono un ottimo esempio di thrash europeo nella sua incarnazione 2.0. La Punishment 18 Records ha da poco ristampato “Doomed To Annihilation”, l’album di esordio della formazione fiamminga, nell’ottica di lancio ufficiale del quartetto in previsione dell’imminente uscita del secondo album, “Disaster Strikes Back”.

Compatto, questo è il primo aggettivo che emerge dall’ascolto degli otto pezzi che compongono “Doomed To Annihilation”, una linea ininterrotta di aggressione sonora senza esclusione di colpi… di arma da fuoco. Sì, perché “Doomed to Annihilation” viaggia alla velocità di un proiettile impazzito. E cosa rara per la maggior parte delle produzioni thrash, il basso è una componente di tutto rispetto, forse (o sicuramente) per il fatto che una delle menti diaboliche all’origine del progetto Bloodrocuted è proprio il bassista. Nonostante questa nota di colore, i quattro musicisti belga non dimenticano le linee guida del genere del quale si sono prefissati di tenere alto il nome, come si può notare dalla fulminante title track, in cui i nostri premono sull’acceleratore e sul doppio pedale regalandoci momenti di puro brivido. Degne di nota anche “Violent Vortex”, con un breve quanto efficace assolo di quattro corde che fa tanto punk hardcore dei più schizzati, e “War Chronicles”, unico pezzo che si apre a un ritmo più lento e melodico, ma solo per pochi secondi, quasi a volerci prendere in giro, in quanto la corsa riparte immediatamente e più frenetica di prima. I vocals di Bob Briessinck sono piacevolmente acerbi, grezzi e arrabbiati, e spesso e volentieri si elevano in strilli alla Tom Araya dei tempi d’oro (vedi “Whispering Death”).

Un’opera prima degna di nota per i Bloodrocuted, anche se la strada da fare è ancora lunga, ma la direzione è quella giusta. Riusciranno a rispettare queste coordinate anche con “Disaster Strikes Back”?

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Opinione inserita da Chiara    25 Mag, 2015
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Questo album è dedicato a tutti coloro che si lamentano del fatto che il thrash vecchia maniera sia morto e sepolto: forse lo è davvero, ma se fosse ritornato dalla tomba sotto forma di zombie? La risposta alla domanda in questione è “Manic Possession” degli Electric Vengeance, band texana attiva dal 2007, che dopo l’EP “Street Metal Attack” del 2012 si trova oggi al debutto discografico ufficiale con questo full-length fulminante. La missione dei tre di Grand Prairie è di far resuscitare il vecchio metal, spremuto fino al midollo e gettato nel bidone dallo stesso mainstream che l’ha sfruttato, con un sound potente e senza compromessi che vuole abbracciare punk, thrash e NWOBHM in un mix esplosivo che davvero, sarebbe in grado di far resuscitare i morti (guardate anche l’artwork della copertina, con scheletri ballerini che indossano t-shirt dei D.R.I. e dei Bad Brains, giusto per farvi un’idea).

Gli Electric Vengeance hanno dalla loro anche un atteggiamento sarcastico e autoironico che in questo ambito soprattutto è una componente fondamentale per acquisire una propria personalità: basti pensare ai “nomi di battaglia” della band, che tra terroristi della chitarra, armi di percussione di massa e strangolatori di quattro corde non ci fanno proprio mancare nulla. Bando alle ciance, i nostri si sono fatti notare negli ultimi anni condividendo il palco con D.R.I., Raven, Misfits, D.O.A. e tanti altri, assorbendo per osmosi molti spunti che convergono al meglio in “Manic Possession”.

Se è vero che la vendetta è un piatto che va servito freddo, gli Electric Vengeance lo dimostrano con la prima traccia di “Manic Possession”, la strumentale “Vengeance Is Served”, breve e incisiva, perfetta per introdurci nel mood generale dell’album. “Electric Harry” può tranquillamente essere considerata la canzone manifesto dei nostri, un po’ perché ci viene presentata la “mascotte” della band (Electric Harry, appunto), e un po’ perché iniziamo ad entrare in confidenza con i riff acutissimi e isterici di chitarra, che sembra quasi suonata con l’archetto dal buon Bran Damage, e con il suo cantato sorprendentemente pulito per gli standard del genere. E poi con quel “kill, kill, kill!” ripetuto ossessivamente è impossibile non iniziare a canticchiare questo pezzo già dal primo ascolto. Per non parlare di “The Five Points”, a mio avviso l’episodio migliore dell’album, grazie a un’intro stranamente lenta e malinconica (che ricorda molto da vicino i Metallica di “Fade To Black”), che di punto in bianco esplode in una tirata a tutto thrash, ma focalizzata sul basso quasi funky di Napaulm che accompagna il velocizzarsi dei riff di chitarra al ritmo della batteria del fido Trey Lunabomber. Al contrario “Graffiti Plea” attacca con assoli velocissimi per poi calare nell’heavy più classico, ma non per questo meno efficace. In “Parasitic Punx” si lascia invece libero sfogo alle influenze punk hardcore più pure, che trovano il loro apice nella breve ma intensa “Frustrated!” (che vede alla voce il bassista Napaulm).

Gli Electric Vengeance, nel loro genere, sono dei veri draghi. “Manic Possession” è un ascolto semplice e senza pretese, ma che nel contempo lascia molto e non vi abbandonerà facilmente. E soprattutto vi farà pensare che per il thrash vecchia scuola può esserci una vita dopo la morte (vera o presunta che sia).

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Opinione inserita da Chiara    22 Mag, 2015
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Facciamo un salto indietro nel tempo, esattamente negli anni ’80. E già che ci siamo incamminiamoci anche per qualche migliaio di chilometri, e andiamo in India. Non molti sanno che all’epoca dei fatti, la scena underground locale era molto attiva, e sotto l’egida di band come i Millenium, ha fatto faville. Fino ai giorni nostri, in cui il metallo sta diventando una vera e propria sensation anche in questo Paese dai mille sapori e dalle mille sfaccettature, nonostante la tradizione e la religione siano talmente radicate da far sì che le etichette discografiche non si assumano il rischio di includere nel roster formazioni estreme, che preferiscono la strada delle self-release. Proprio come gli Inner Sanctum, quintetto death/thrash originario di Bangalore formatosi nel 2006, che si trova oggi al suo debutto discografico ufficiale con “Legions Awake”, dopo i primi passi mossi con il sensazionale EP “Provenance”, risalente al 2009. Nei sei anni trascorsi tra demo e primo full length, gli Inner Sanctum non sono stati di certo con le mani in mano. Oltre ad essersi imbarcarti un paio di anni fa in un tour macina-ossa che ha toccato il Nord Europa, hanno aperto i concerti in patria di mostri sacri del calibro di Metallica, Slayer, Testament e Carcass.

“Legions Awake” rimane dentro dal primo ascolto. Complice il fenomenale mixaggio eseguito da Lasse Lammert presso i suoi LSD Studios, che calca la mano (ma senza esagerare) su chitarre e pelli dando un’impronta davvero unica e diretta a questa produzione. E “Legions Awake” vanta anche una serie di featuring da urlo: in primis gli arrangiamenti orchestrali sono a cura del tedesco Roman Ruminski (aka Acherontic Dawn), come testimonia “Incipiens”, intro strumentale malvagia e solenne quanto basta per predisporci al meglio all’ascolto dei restanti otto pezzi, che si susseguono in un flusso fluido senza per questo disperdersi in esso ma mantenendo ciascuno la propria identità. Chiudo la parentesi sulle ospitate con “Existence Denied”, apoteosi di assoli a sei corde che si rincorrono e fanno a gara a farsi belli per quasi sei minuti, eseguiti da personaggi che hanno bisogno di ben poche presentazioni: Christopher Amott (Armageddon, ex-Arch Enemy), Daniel Mongrain (Voivod, Martyr, ex-Gorguts, ex-Cryptopsy, Capharnaum) e James Murphy (ex-Death, ex-Testament, ex-Obituary, ex-Lazarus A.D.). Ma gli Inner Sanctum non si dimenticano delle loro origini, e in molti pezzi (due su tutti “Tainted Soils” e “March of the Wounded”) includono inserti di strumenti musicali locali che, pur non essendo predominanti, contribuiscono a dare all’album un sapore tutto suo rispetto alle produzioni occidentali. La vociona cavernosa e i ritmi spesso e volentieri groove sono il connubio perfetto per dare alla luce anthem con tutti i crismi (ascoltate “Wake of Destruction” e “March of the Wounded” e ditemi se non è vero). Il crescendo di “Legions Awake” trova la sua conclusione ideale con “Guardian”, un pezzo da brividi, vuoi per la intro orchestrale che idealmente chiude il cerchio a cui “Incipiens” ha dato il la, vuoi perché i nostri ci danno dentro come non mai, quasi a volersi accommiatare nel migliore dei modi per lasciare vivido in noi il ricordo della loro opera.

“Legions Awake” è un prodotto confezionato alla perfezione, la cura per i dettagli è a dir poco maniacale e il sound che ne esce è limpido come non mai: forse, se proprio vogliamo trovare il pelo nell’uovo, è questa eccessiva pulizia l’unico neo dell’album, ma ammetto che è una mia fissa quella di voler sentire per forza la giusta dose di “sporco” in certe autoproduzioni. Detto questo, gli Inner Sanctum hanno idee ed energia da vendere, e non è detto che tarderemo a godere delle loro sonorità senza confini anche sui palchi nostrani.

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Opinione inserita da Chiara    20 Mag, 2015
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È sempre bello scoprire nuove band, con un sound innovativo, e perché no, anche un approccio intellettuale. Nonostante si discostino dal metal come lo intendiamo propriamente, ma divagare ogni tanto equivale ad arricchirsi mentalmente, con nuovi spunti e sonorità. È il caso dei Being As An Ocean e del loro secondo album di studio “How We Both Wondrously Perish”, che ha segnato la svolta per la band californiana e la conquista di una propria identità tra le miriadi di giovani (e meno giovani) formazioni metalcore internazionali. I BAAO, attivi dal 2011, hanno ufficialmente esordito l’anno successivo con il primo full length “Dear G-d…”, ma sono esplosi un paio di anni dopo con "How We Both Wondrously Perish", grazie anche a un tour promozionale a dir poco sfiancante che li ha visti in giro per il mondo per un numero impressionante di date. L’approccio fresco e potremmo quasi dire zen dei Being As An Ocean deriva direttamente da una frase di Gandhi, dalla quale la band ha preso spunto per il nome: “Non devi perdere fiducia nell’umanità. L’umanità è un oceano; se un po’ di gocce sono sporche, non tutto l’oceano diventa sporco”. Un gran modo di presentarsi, anche se capisco bene che ai metallari duri e puri possa risultare un po’ indigesto. Così come la copertina che raffigura una bella ragazza serenamente addormentata, ma è del tutto in linea con il modus operandi della band in bilico tra poesia, arte, hardcore, melodia.

La magia dei cinque californiani capitanati dal frontman Joel Quartuccio sta in un’abile miscela di riff sognanti, elettronica, cantato graffiante e spoken word. Il parlato infatti contribuisce a sottolineare la componente maggiormente letteraria e sofisticata di “How We Both Wondrously Perish”. Le prove più evidenti di questo stile moderno e raffinato sono il singolo “Death's Great Black Wing Scrapes the Air” e “The Poets Cry for More”: quest’ultimo, a mio avviso, è l’episodio migliore dell’intero album, nel quale l’alchimia perfetta di stili e armonie malinconiche si compenetrano in tre minuti e mezzo dolci come il miele e altrettanto appiccicosi (mi sta ronzando nel cervello dalla prima volta che l’ho ascoltato, sarà un’impresa toglierselo dalla testa). La voce pulita del nuovo acquisto Tyler Ross è delicata come una carezza, ed è una delle novità più significative di “How We Both Wondrously Perish”. Se vogliamo trovare qualche difetto, possiamo ascriverlo al cuore spezzato di “Even the Dead Have Their Tasks”, forse un po’ troppo melensa, e ai pezzi di chiusura “Mothers” e “Natures”, che pur nella loro armonia e nell’utilizzo di strumenti atipici per questo genere musicale (vedi le trombe in “Mothers”), rischiano di diventare delle ninne nanne se ascoltate in momenti di sonnolenza molesta.

I Being As An Ocean hanno tutte le carte in regola per diventare le nuove superstar del post-hardcore, e la loro strada è sicuramente in discesa. Consiglio “How We Both Wondrously Perish” agli inguaribili romantici dalle ampie vedute musicali. Se invece pensate che un po’ di zucchero nella vita sia roba da femminucce, statene alla larga.

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