Opinione scritta da Dario Onofrio
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Top 50 Opinionisti -
Sentirsi giovani dentro fa sempre bene alla salute e i Grave Digger ormai questo lo sanno. Ormai abbandonata la fase super power di Clash of the Gods e riprese le tematiche più antiche che caratterizzavano il sound dei nostri teutonici (morte, tette, birra, bikers etc.), Chris Bolthendal e soci sfornano questo Healed by Metal, un disco che non si discosta molto dal precedente Return of the Reaper nonostante non faccia decollare del tutto il fanatico che è in me.
Fatta questa premessa di contorno: come molti di voi sapranno il sottoscritto non riesce ad essere imparziale quando si parla dei Grave Digger, visto che qualunque cosa facciano mi proietta verso la stratosfera a furia di fare headbanging. Healed by Metal è un disco di maniera, zarro quanto basta per farti divertire e farti venire voglia di trincare litri di birra tetesca, ma che in realtà si risolve tutto come una cosa fine a sé stessa. A parte la finale Laughing with the Dead e se vogliamo anche Halleluja, infatti, non c'è IL PEZZO tipo Tatooed Rider che ti si stampa in testa come una sberla del compianto Bud Spencer: mediamente c'è una buona qualità, si, ma solo mediamente. Manca quel qualcosa che nel disco precedente c'era, quella cosa che ti faceva pensare "I pezzi sono tutti uguali e già sentiti ma spaccano un casino".
Insomma il tentativo di recuperare le sonorità di The Reaper stavolta riesce, ma solo in parte. Fossi in Chris e soci comincerei a cercare ispirazione da un'altra parte per scrivere un nuovo concept, chessò, su Lovecraft, magari cercando di recuperare le sonorità di quello che credo tutt'oggi sia il miglior disco a livello compositivo degli scavatori, cioè Heart of Darkness.
Comunque, se come me siete fan dell'heavy/power tetesco, Healed by Metal non mancherà di giovare ai vostri padiglioni auricolari. Se siete neofiti della band, inoltre, nonostante non ci sia proprio il pezzone potrebbe essere un buon modo per avvicinarvi al mondo fatto di morti e birra dei Grave Digger. Per concludere, come ho scritto tempo fa: "i Grave Digger di oggi sono come l'aglio e olio che mangi alle 4 di mattina tornato a casa dopo una nottata di bagordi: niente di eccezionale, ma sempre soddisfacente".
Ultimo aggiornamento: 11 Gennaio, 2017
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Dodici anni dopo la sua uscita viene ristampato Vengeance, mitico debut dei Mystic Prophecy, band della quale ho seguito quantomeno le ultime prove in studio. Se oggi la band tedesca è volta a un heavy/power melodico, quello che ci ritroviamo nelle orecchie con Vengeance è ancora un suono molto grezzo, ma non per questo timido e senza spina dorsale.
Diciamo che, ai tempi in cui Gus G. suonava ancora la chitarra nella band ed era poco più di un misconosciuto chitarrista power metal, il sound non può non derivare dalla grande lezione dell'epic/power metal statunitense: le influenze di Virgin Steele, Manilla Road, Manowar, Cirit Ungol e altri sono udibilissime, anche quando ci si sposta verso terreni più teutonici come con la finale Fallen Angel.
Sicuramente il lavoro di rimasterizzazione è servito a migliorare alcune cose, come si può udire, rispetto all'originale, in Dark Side of the Moon: l'album scorre via senza intoppi, dispensando mazzate per chiunque mastichi il genere abbastanza frequentemente come il sottoscritto. Il riffing di Gus G., ancora molto ingenuo rispetto allo shredding a cui è approdato dopo il periodo trascorso con Ozzy, è sicuramente un lato fondamentale di questo album, in quanto inchioda incisivamente l'ascoltatore.
Se ai tempi non l'avevate comprato, quindi, Vengeance non può non brillare nella vostra collezione come un album che, seppur ingenuo, era un ottimo esempio di epic metal di inizio millennio.
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Ci sono dischi che raccontano grandi storie, altri che interrogano la coscienza umana su dilemmi esistenziali, altri ancora che si rifanno alla tradizione popolare.
I comaschi Bodygrinder, diretti prosecutori di una certa corrente di metal schierata e orientata verso la comprensione dei problemi che affliggono la società moderna, arrivano in tal modo alla loro seconda opera del titolo "Polka la Madonna", evidentemente ispirato dal problema della blasfemia in Italia che come ben sappiamo urta la sensibilità della maggioranza cattolica presente nel paese.
Con la prima tripletta composta da Aerofagia Vaginale, Leprotto Fistfucking e Napalm Pussy, affrontiamo problemi profondi come quelli della sessualità e soprattutto del rispetto verso i nostri amici animali, ma è con Yo Negro che troviamo completezza in questa visione "sociale" del grind. I profondi testi dei Bodygrinder infatti sono sonetti contro l'orrore della modernità in pieno stile pasoliniano, con una particolare visione legata all'immigrazione e al razzismo, elementi peculiari di una politica di tipo critico verso una visione massificata del colore della pelle. Potremmo tranquillamente stare a fare un track-by track di ogni pezzo, della durata e di una profondità che solo i Dream Theater sono riusciti a raggiungere con il loro capolavoro "Metropolis Part. II", ma sui tecnicismi complessissimi dei Bodygrinder mi limiterò a dirvi che in questa opera magna non si trova il basso: segno di come i nostri siano in grado di incantare grandi e piccini uscendo da una concezione nichilista e standardizzata della nostra musica. Ma le grandi tematiche della sessualità e della religione si snodano per tutto l'album, con pezzi come "Il curioso caso di Papa Francesco affetto dalla sindrome di Tourette", che analizza il ruolo ambiguo che questo pontefice sta tenendo verso la sua stessa religione, oppure "Cum in your ass", cover dell'intramontabile "Come as you are" dei Nirvana, segno di come i nostri vogliano anche omaggiare un eroe moderno come Kurt Cobain. Grande importanza viene anche data ai bambini con i pezzi come "Peppa Pig, Dio Pork", "Anacleto Armageddon" e la bonus-track "Luigi non siamo più amici perché mi hai rubato la bici", che analizzano con profondità la visione di una generazione influenzata solamente da fittizi eroi televisivi. Non manca infine una critica al mondo del folk-metal, ormai atrofizzatosi su sé stesso, tramite la title-track dove troviamo persino una coltissima citazione di fisarmonica medievale.
Insomma, possiamo dire che i Bodygrinder centrano in pieno quella visione nichilista che solo i Type 0 Negative di Peter Steele riuscivano a incarnare: la sensazione sgradevole di non sentirsi al loro posto in un mondo che li disprezza e la volontà di urlare all'esterno "io sono qui!", con una musica complessa ma di assoluta immediatezza. Merito di questa caratteristica che rende Polka la Madonna un disco così particolare anche il curato missaggio di Luca Briccola (già musicista nei Trewa), che dà quella giusta sfumatura né troppo snaturante, né troppo marcata. Mi raccomando, per apprezzare un disco così profondo il minimo che potete concedergli è l'ascolto in cuffia.
...
Ci avete anche creduto?
QUESTO DISCO È TALMENTE BELLO CHE È COME C****E IN BOCCA ALLA MADONNA E SE NON LO COMPRATE VI VERRÀ UNA DIARREA TALE DA FARVI PERDERE LA FEDE.
Amen.
Ultimo aggiornamento: 05 Dicembre, 2016
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L'unione fa la forza: è quello che hanno sicuramente pensato gli ucraini Drudkh quest'anno, che uno dopo l'altro hanno tirato fuori una serie di split-album. A maggio esce questo con i norvegesi Hades Almighty, gruppo facente parte di quella scena psychedelic black che accomuna gente come Oranssi Pazuzu e Urfaust.
Sui due pezzi dei Drudkh c'è poco da dire: il loro stile è assolutamente inconfondibile, con smitragliate di blast beat in puro stile tormenta di neve contrapposti invece a momenti più acustici e quasi riflessivi. Golden Horse e la drammatica Fiery Serpent passano quasi in sordina rispetto invece ai pezzi degli Hades Almighty, contraddistinti invece da ritmi cadenzati e oscuri, quasi rituali. Funeral Storm ha qualcosina che ricorda i vicini Enslaved, come anche la title-track che pesca a piene mani da Summoning e dall'atmospheric black tipico degli Inquisition. Bellissimo pezzo che andrebbe davvero messo in un posto speciale è invece Bound, caratterizzata dal gioco di botta e risposta tra Remi Andersen e Ask Ty.
Ovviamente uno split del genere andrebbe comprato se si è fans sfegatati delle band sopracitate... Anche se in realtà penso possa piacere anche a chi predilige l'atmospheric black. Sicuramente è un buon auspicio per il ritorno degli Hades Almighty sulle scene, dopo ben 15 anni di silenzio.
Ultimo aggiornamento: 30 Novembre, 2016
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Se il folk metal ha già perso da parecchio tempo la sua carica esplosiva, trasformandosi in un fenomeno di costume ormai ridondante, non si può dire che però ogni tanto qualcosa di carino non esca anche da una scena stantia come questa.
Direi che sia il caso degli IceThurS, gruppo russo proventiente direttamente da Mosca e composto da tre elementi più vari sessionist che si sono occupati più della parte folk. Sorvolata la copertina imbarazzante (d'altronde non sono gli Arkona e sono russi), posso dire che il trio avrebbe potuto copiare da millemila gruppi risultando di sembrare fastidiosamente "già sentito" come la maggior parte delle cose che escono da questa scena. Invece, grazie a un'influenza che va dal folk all'industrial, Unlocked Door riesce ad essere un disco divertente e attivo, sin dall'iniziale En Sjörövare Sagan fino alla title-track finale.
Ekaterina Loky, la cantante e frontgirl del gruppo, ha una capacità interpretativa notevole ed è supportata degnamente dalle sovrincisioni e dai cori, elemento fondamentale per un disco come questo che non rielabora nulla della tradizione folk russa, bensì propone canzoni originali e sempre nuove. Vi basterà sentire un pezzo come Razguliai per innamorarvi della musica degli IceThurS e delle loro atmosfere epico/fantasy e rendervi conto di come, pur essendo sulla carta similissimi, si differenzino in modo molto pesante dalle ultime prove discografiche dei connazionali. Anche War è una delle canzoni sulle quali vi direi di cominciare, in quanto coniuga perfettamente le diverse influenze presenti nella formazione moscovita.
Unlocked Door è insomma un ottimo debut, come non mi capitava di sentirne da parecchio. Non solo la produzione è molto buona, ma il mix di ghironda, violino, tastiera, xilofono e cori sovrincisi funziona perfettamente in un album dove l'intento della band era quello di creare qualcosa di assolutamente nuovo ed originale. Se siete fans sfegatati del folk metal e vi piace roba un po' di nicchia (soprattutto la scena est europea), è sicuramente un'uscita che quest'anno non potrete lasciarvi scappare.
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Avete presente quei pazzi che si buttano da montagne altissime con la tutina alare non esattamente ben consci di quello che stanno facendo? Al di là dei servizi de Le Iene che ultimamente hanno sollevato questo "annoso" problema, penso che una metafora del genere definisca bene l'azzardo di Yves Campion, unico membro rimasto dei Nightmare dopo l'abbandono dei fratelli Amore.
Deciso a tutti i costi ad andare avanti dopo la tiepida accoglienza di The Aftermath (che oh, a me era piaciuto) nel 2014, il nostro axeman assume uno "sconosciuto" Olivier Casula alla batteria e alla voce chiama nientemeno che una signora: Magali Luyten, forte di una lunga serie di collaborazioni nel mondo heavy tra cui penso valga la pena di ricordare Ayreon. Alla produzione, sicuramente bombastica e molto più curata di quella del precedente capitolo, troviamo Patrick Liotard e Joost Van Den Broek, già produttore di Epica e The Gentle Storm.
Yves ha fatto di tutto, insomma, per cercare di regalare ai fan un prodotto accattivante, caratterizzato da un suono moderno e da una scrittura che si allontana decisamente dai territori power per abbracciare una serie di soluzioni più thrasheggianti. Insomma, come suona sto' Dead Sun? Diciamo che i Nightmare del 2016 fanno un po' fatica ma riescono ad arrivare alla meta: un disco che può piaciucchiare sia ai vecchietti che a un pubblico più giovane. Gli occhiolini dall'una e dall'altra parte ci sono in continuazione, se consideriamo un pezzo come Inner Sanctum contrapposto a uno come Red, Marble & Gold, che mescola heavy vecchio e nuovo non nascondendo una certa attenzione per il groove che piace tanto ai gggiovani.
Personalmente ho trovato apprezzabili la title-track e la semi-ballad Seeds of Agony, con tanto di coro di bambini verso il finale, che segnano profondamente questo momento di passaggio tra i "vecchi" e i "nuovi" Nightmare.
Ahimè, le difficoltà sono però diverse: se da una parte questo doppio gioco funziona, dall'altra rischia di stufare un ascoltatore più avvezzo a vecchie sonorità o comunque a una produzione meno cicciosa. Insomma: questa nuova incarnazione dei Nightmare graffia, ma non come dovrebbe. Non perché i nuovi musicisti saliti sul carrozzone di Yves Campion, ma perché trovare una quadra dopo più di trent'anni di attività inizia ad essere veramente duro per i francesi.
Non boccio totalmente Dead Sun, ma non me la sento neanche di dargli una bella promozione: c'è ancora tanto da lavorare nei prossimi anni. Speriamo che la prossima volta l'omino con la tutina alare non vada a schiantarsi contro qualche crinale.
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Davo per scontato che il nuovo album dei Civil War, ovvero la band sorta dallo split tra i Sabaton e tre quarti della loro vecchia line-up, sarebbe stato decisamente meglio di The last stand.
Non si capisce bene il perché di questo titolo così rassomigliante, ma sta di fatto che musicalmente siamo su altri livelli. Dove su The last Stand regna incontrastata la tastiera pomposa da discoteca, qui dominano la doppia cassa e i riff sparati a mille, senza contare la voce assolutamente heavy/power di Patrik Johansson.
Ma non voglio mettermi a fare paragoni su l'uno o sull'altro: sta di fatto che The last full Measure è un buonissimo disco di power metal, veramente genuino. Ho apprezzato particolarmente pezzi come Savannah, Gangs of New York (ovviamente ispirata al film) e il masterpiece Deliverance, che consiglio in tutte le playlist power metal di fine anno. Persino la folkeggiante Tombstone si guadagna un posto di tutto rilievo nella discografia del quintetto svedese, con il suo incedere a metà tra il country e la cavalcata power più classica che esista.
In molti dischi che mi è capitato di sentire ultimamente, manca quel gusto per la sobrietà, quel dare tanto ma nella giusta misura. Di esempi di questo tipo ne possiamo fare a bizzeffe: per fortuna i Civil War offrono un album che non stordisce l'ascoltatore facendolo sentire gonfio come un palestrato, ma lo appassiona genuinamente verso storie di guerra, d'amore e d'odio.
Per concludere posso dire che se vi piace il power, ma quest'anno avete ricevuto mezze delusioni, potete buttarvi tranquillamente su The Last Full Measure. Non mancano né gli scapocciamenti, né il coro, né le parti più liriche o divertenti.
Ultimo aggiornamento: 26 Ottobre, 2016
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Capita spesso di incappare in quei gruppi che zitti zitti tirano fuori ogni tot un macigno di disco. Direi che proprio questo è il caso dei Crowbar, che ripreso Todd "Sexy T." Strange in formazione (mancava da 16 anni) fanno uscire "The serpent only lies".
Facciamo subito una premessa: se vi piace lo sludge questo disco è quasi imprescindibile come gran parte della discografia della band di New Orleans. Sul fatto che Kirk Windstein e soci tirino sempre delle bombe di album non si può discutere: Plasmic and Pure, la title-track e Song of the Dunes rappresentano il picco creativo di un disco che non lascia un attimo di respiro. Ossessione, probabilmente droga e tutte quelle altre cose belle che un americano del giro dei Down dovrebbe ben conoscere. La copertina, firmata da Eliran Kantor (già disegnatore per i Testament), fa perfettamente da preludio a ciò che troveremo nel disco, compresi certi richiami al doom più epico come in Surviving the Abyss. Non so in quali orrendi abissi i membri della band debbano calarsi per scrivere robe del genere, se quelli della follia o quelli della droga, ma in un momento in cui tutti sono alla ricerca di un sound crepuscolare, essenziale e diretto, poche cose funzionano come i cari vecchi Crowbar. Persino il buon Kirk ammette che in molti dei pezzi ha preferito scrivere meno testi per dare più spazio a Sua Maestà il riff di chitarra, vero membro imprescindibile della sua creatura, col risultato che l'alternanza di "melodia" (se così vogliamo chiamarla) e groove fa quello che qualunque buon ritmo dovrebbe fare.
Consiglierei a tutte le band pseudo sludge-doom con influenze settantiane di recuperarsi questo piccolo gioiellino, giusto per farsi un'idea di come questo genere debba suonare per far scapocciare la gente. L'attitudine dei Crowbar funziona ancora alla grande.
Ultimo aggiornamento: 19 Ottobre, 2016
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Avevo speso ottime parole per la scorsa fatica in studio a nome Oniric, monicker dietro al quale si cela il polistrumentista e compositore Walter Bosello, che del suo amore per il prog settantiano non ha mai fatto mistero.
Migration è la naturale prosecuzione del discorso cominciato con Gaia: si tratta di un concept su una popolazione che decide di partire per lo spazio in cerca di nuovi pianeti da colonizzare. Durante il viaggio, però, emergono però divergenze su come raggiungere l'obiettivo dell'espansione. Gli elementi fondamentali della musica di Oniric rimangono sempre gli stessi, cioè un sapiente mix di parti più tranquille, chitarre distorte e soprattutto l'insostituibile tastiera "alla Rick Wakeman", che funge da perfetto contrappunto alla chitarra specialmente in pezzi come la bellissima Onward, una delle canzoni che ho preferito. Tutto l'album si gioca abilmente sullo scambio tastiere-chitarra, senza contare la voce ipnotica di Bosello che ci accompagna traccia per traccia, raccontandoci la storia dell'Artista, vero e proprio personaggio che si evolve raggiungendo la conoscenza tramite la solitudine e la sofferenza che deriva da questa condizione. La bellezza e la delicatezza di Oniric, comunque, si colloca soprattutto negli stacchi tra la parte più dura dell'album e quella più tranquilla, come i cambi repentini all'interno di Ancestria o di Cast a Wave.
Diciamo che, sostanzialmente, la qualità delle release con questo monicker resta assolutamente ineccepibile, costituendo quasi un unicum all'interno del panorama italico. Pensare che una persona possa mettersi da sola a realizzare un lavoro così mastodontico è pazzesco, ancora di più a fronte del fatto che ogni album è scaricabile gratuitamente dal suo sito. Migration costituisce un ennesimo passo verso una produzione più ampia, con continui arrangiamenti di ottimo livello che non mancheranno di soddisfare gli amanti del progressive rock sia nostrano che inglese.
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Ennesima prova in studio per gli Iron Mask di Dushan Petrossi che, reduci dall'ottimo Fifth son of Winterdoom, ingaggiano Diego Valdez (ex Skiltron e Triddana) e danno alle stampe questo Diabolica.
Gli elementi essenziali di un loro disco ci sono tutti: power metal ultra neoclassico per tutti, ricco di assoloni e ritornelli che ci si stampano in testa come un martello pneumatico, arricchiti da tastierone in piena tradizione guitar hero album. Il problema è che pare che Dushan e soci, quando hanno un cantante che ricorda troppo il compianto R.J. Dio, si ammosciano un pochettino. Mi spiego: se Black as Death e Fifth Son erano due dischi che pestavano durissimo, alcuni passaggi di Diabolica risultano essere un po' sottotono, specialmente dopo Oliver Twist (a mio parere la più memorabile del disco). Da qui in poi infatti March 666 (titolo molto originale) & co. non rombano più come le tracce precedenti, attestandosi a un vero e proprio lavoro "di maniera". Fortunatamente il guitar hero e i suoi soci rialzano la testa sulla title-track e nella suite finale Cursed in the Devil's Mill, che richiama alla lontana alcuni temi musicali di Shadow of the Red Baron. La cosa che a mio parere sminuisce di più il lavoro del buon Petrossi, resta il minutaggio eccessivo della tracklist: con qualche pezzo in meno avremmo avuto tra le mani un buonissimo album power metal.
Se l'ultimo album dei Sabaton vi ha deluso e vi state spostando sempre di più verso i Civil War provate a dare un'ascolto a Diabolica. Nonostante solo poco più della metà del disco sia salvabile, potrebbe piacervi molto più di quello che pensate.
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