Opinione scritta da Chiara
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Top 50 Opinionisti -
“Step Into Darkness”, il primo full length dei croati Tearless, ha avuto una gestazione di quasi ventiquattro mesi. Durante questo periodo e negli anni precedenti, i Tearless hanno dovuto affrontare una serie di difficoltà e cambi fondamentali che avrebbero ucciso sul nascere qualunque altra band, ma andiamo con ordine.
Tutto ebbe inizio nel 2005, con il primo demo “Reverie”. Appena un paio di anni dopo, e in seguito a qualche turbolenza all’interno della line up, la formazione decide di prendersi una pausa. Per un certo periodo addirittura la band cambierà nome (Seed Of Evil) per ritornare però ben presto al moniker originario. Passano gli anni, abbiamo altri demo, e altri avvicendamenti nella formazione che solo di recente, sembra aver trovato la formula magica per poter davvero partire in quarta. C’è da dire che tutte queste rivoluzioni, se da un lato hanno rallentato la genesi di "Step Into Darkness", dall’altro hanno fatto sì che ognuno dei musicisti che è passato dalla band abbia lasciato un proprio personalissimo segno nella musica che oggi i Tearless propongono e che è confluita nel loro album di esordio.
Ma che cos’è il dark metal del quale i musicisti croati si sono fatti portavoce? Basta ascoltare “Deathwish”, la opener di “Step Into Darkness”, per farsene un’idea: growl a tratti davvero malvagio, cantato maschile più pulito e cantato femminile, limpido, semplice, senza troppe pretese e teatralità da opera lirica, il tutto accompagnato da riff potenti quanto basta e da un’energica sezione ritmica smorzata di quando in quando dalle dolci ed eteree note di un piano. Se di norma la voce femminile si limita a rimarcare la propria presenza nei refrain, in alcuni brani (vedi la title track) si fa preponderante senza strafare, complici assoli di chitarra particolarmente struggenti. “Dreams Of You” invece, pur continuando con l’accoppiata piano e chitarra al limite della lacrima, si trasforma quasi in un pezzo degli H.I.M., grazie alla voce maschile che tutto d’un tratto si fa simile a quella del buon Ville Valo. Ma il pezzo più interessante (almeno secondo le mie orecchie) è “Inside Your Raven Eyes”: il ritmo martellante, da sparatoria a colpi di doppio pedale, si sposa alla perfezione con le tre voci che come per magia trovano finalmente uguale spazio e respiro all’interno del pezzo. “World Of Shadows” è un altro brano degno di menzione, tutto merito del quadro di disperazione che riesce a dipingere in tutte le sue forme e da tutti i punti di vista (quello femminile, più introspettivo e romantico, e quello maschile, più incline alla rabbia e alla violenza) in seguito a un amore finito.
I Tearless sono la dimostrazione vivente che tragedie, sfortune e destino avverso non sono nulla al confronto della passione e della voglia di farcela, costi quello che costi: abbiamo dovuto aspettare a lungo prima di ascoltare “Step Into Darkness”, ma ne è valsa la pena.
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Nuova ristampa in casa Punishment 18 Records. In un’ottica di rilancio degli In Malice’s Wake in previsione dell’imminente uscita del terzo e attesissimo album della formazione di Melbourne, l’etichetta italiana ha da poco ridato alle stampe il primo full length autoprodotto, “Eternal Nightfall” (risalente al 2008) presentandolo in una nuova veste con ben quattro bonus track tratte dall’EP “Blackened Skies”.
Occasione ghiotta per rispolverare il lavoro di questo interessante quartetto thrash, che dal 2002 propone un’ottima combinazione tra velocità vecchia scuola e sonorità moderne a base di melodie accattivanti e virtuosismo. Abilità mai fine a se stessa, ma colonna portante sulla quale si basano i pezzi che compongono “Eternal Nightfall”. Se la breve intro strumentale e “Pay The Price” lasciano intendere che il cammino degli In Malice's Wake non può che essere quello dei riff micidiali lanciati a velocità supersoniche e delle pelli pestate con energia e convincente efficacia, d’altro canto brani come “The Path Less Travelled”, parafrasando il titolo stesso della canzone, dimostrano che i quattro australiani non hanno paura di deviare dal percorso rigidamente regolamentato del thrash tradizionale per prendere il sentiero meno battuto e più impervio della melodia, a cui si accennava in precedenza. Chitarre acustiche e arpeggi, oltre a dimostrare l’ottima perizia degli In Malice's Wake nell’utilizzo dei loro strumenti, infondono in “Eternal Nightfall” un’aura cupamente onirica, oltre a un’impronta originale nel sound che li rende fruibili anche al di fuori della cerchia degli entusiasti del thrash più crudo e senza fronzoli.
“Eternal Nightfall” è al suo settimo anno di vita ma continua a mietere vittime. Da allora gli In Malice’s Wake sono cresciuti, facendosi un nome non solo in Australia ma anche nel resto del mondo. Di sicuro aspettiamo con curiosità il nuovo album, chissà quale sentiero avranno deciso di prediligere!
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Che la Grecia fosse terra di metallari, è un dato di fatto, e gli Exarsis ne sono l’ennesima dimostrazione. “The Human Project” è il terzo full length della formazione old school thrash, e nonostante i radicali cambi di formazione (vocalist, chitarra solista e batteria sono acquisti nuovi di zecca) l’energia della band resta immutata ed efficace come in passato.
Fin dall’inizio di “The Human Project”, è evidente che i riflettori sono puntati con una certa insistenza sulla parte ritmica, aspetto peculiare per una formazione thrash, ma che arricchisce il sound degli Exarsis regalando loro una marcia in più rispetto ad altre band più “tradizionaliste”. Anche il songwriting è di gran qualità, incentrato su argomenti come la sperimentazione scientifica (“Medicide”) e l’oscuro mondo delle confraternite (“Skull & Bones”). Il nuovo cantante Nick J. contribuisce con i suoi acuti quasi da vocalist power a rendere unici e istantaneamente riconoscibili all’ascolto tutti i pezzi che compongono “The Human Project”. Concluso l’ascolto delle dieci tracce contenute all’interno dell’ultima fatica del quintetto, l’unico l’aggettivo con cui si potrebbe riassumere il tutto alla perfezione è brutale: la brutalità e un termine ricorrente sia nel songwriting (tra l’altro l’ultimo pezzo, “The Brutal State”, riprendendo il titolo del secondo omonimo album della band, prosegue la curiosa tradizione che gli Exarsis hanno deciso di portare avanti ad ogni uscita discografica), sia ovviamente, nel sound.
Album monumentale, da ascoltare e riascoltare. Gli Exarsis si sono davvero superati, entrando a gamba tesa nel già affollato panorama metal greco e conquistandosi un posto sul podio.
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Gli Hyades sono l’eccellenza italiana del thrash. In giro dal ’96, quattro album all’attivo, e come spesso succede, più famosi all’estero che in patria. È il caso di dire quindi che i cinque musicisti del varesotto abbiano puntato più sulla qualità che la quantità.
La proposta degli Hyades è un thrash vecchia scuola che attinge direttamente dagli insegnamenti di Stati Uniti ed Europa, dando vita a un mix bilanciato ed omogeneo. “The Wolves Are Getting Hungry”, il quarto full length della formazione, non si smentisce rispetto ai suoi predecessori, e ci regala dieci pezzi che fanno venire voglia di fare headbanging fino a svitarsi la testa dal collo. E ancora, nessuna ballad. Il focus è sempre lì, fisso sulla velocità e sulla voce caustica di Marco Colombo, che deve moltissimo alla velenosità di Steve Souza. E anche la cover è un classico esempio di arte thrash, realizzata da Mario Lopez e ispirata al Quarto Stato di Pellizza da Volpedo, ma riletto in chiave moderna, con l’avanzata dei “lupi” dei giorni nostri. La carica distruttiva ed esplosiva degli Hyades non tarda a brillare fin dall’opener “The Economist”, e rimane attiva e tirata al massimo fino alla fine. Il bello degli Hyades è che spesso e volentieri sforano dalla durata canonica dei pezzi thrash, che di norma non superano i quattro minuti, e brani come “The Great Lie” permettono di assaporare questa tecnica superiore unita alla denuncia politica e sociale in oltre cinque minuti di corsa a perdifiato. E non contenti, in “Sing This Rhyme” si lanciano in un ibrido tra thrash e heavy metal, e che ibrido! Ma i cinque non si dimenticano di smorzare i toni e di omaggiare lo spirito goliardico in “Eight Beers After” che fa tanto Tankard. Particolarmente significativa la performance alle pelli di Rodolfo Ridolfi, impeccabile, infallibile e instancabile come una mitragliatrice.
Dopo l’ascolto di “The Wolves Are Getting Hungry” viene davvero voglia di mettere in pratica il famoso slogan “Thrash now, work later”, magari durante uno dei prossimi live degli Hyades. Spero non tardino a partire in tour, perché la curiosità di assaporarsi la loro energia dal vivo è davvero forte.
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Gran Bretagna non sempre è sinonimo di NWOBHM. Lo dimostrano band come i Designs Of Chaos e il loro EP “The Darkest Storm”, un esempio di thrash 2.0 con ampie digressioni modern metal. Si potrebbe riassumere la proposta del quintetto londinese con le loro stesse parole, ovvero “mantenere le radici ben salde nel passato ma gli occhi costantemente fissi sul futuro”. Inoltre “The Darkest Storm” cattura nei tre pezzi che lo compongono la potenza e l’energia dei live dei Designs Of Chaos.
La gestazione di “The Darkest Storm” non è stata delle più semplici. Seppur attivi dal 2007, i Designs of Chaos decidono di entrare in studio di registrazione solo qualche anno dopo, e nel 2014 purtroppo vengono sconvolti dalla morte del primo batterista, Chris Crammond, scomparso in seguito a un terribile incidente. Come è facile immaginare, la band ha subito una brusca frenata, ma ben presto decidono di proseguire sulla loro strada e finire quello che avevano iniziato. Entra in forze un nuovo batterista, Andy Bramley, e finalmente si chiudono i lavori sul primo EP, che è stato letteralmente forgiato dal fuoco della tragedia. Dicevo prima tre pezzi, energici e onesti, che si sostengono su riff massicci e articolati. La title track è il simbolo dei Designs of Chaos: “We’ll never give up”, non ci arrenderemo mai, di fronte a nulla.
È ancora presto per prevedere quale sarà il futuro della giovane formazione, e tre pezzi non sono abbastanza per potersi fare un’idea oggettiva delle potenzialità dei Designs of Chaos. Possiamo dire per certo che sono stati in grado di risollevarsi ed esorcizzare un grave lutto, e il consiglio è di continuare a suonare per esprimere la loro rabbia e lasciare un segno incisivo con la loro musica.
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I The Ghost Next Door sono uno dei pochi casi in cui è nato prima il nome che la band. Sembra un paradosso, ma le cose sono andate proprio così per Gary Wendt, il motore alla base del progetto: il fantasma della porta accanto esiste veramente, almeno come leggenda metropolitana, perché si vocifera che la casa di fianco all’appartamento del vocalist/chitarrista fosse infestata, e quindi quale migliore occasione per prendere ispirazione per il nome di una nuova formazione? Infatti, dopo questa fulminazione, Wendt, un musicista dalle spalle robuste che vanta collaborazioni con nomi del calibro di Gary Holt e Robb Flynn, si precipita in sala di registrazione per iniziare il lavoro sull’omonimo album di debutto della sua band, ma i restanti componenti del gruppo si sono aggiunti solo in corso d’opera.
Possiamo affermare pertanto che “The Ghost Next Door” è un album che si è sviluppato “on the go”, senza un concept prestabilito: se da un lato questa caratteristica aiuta a uscire dagli schemi e svicolare dalla rigidità di alcuni di essi, dall’altra può essere un’arma a doppio taglio in tema di coerenza stilistica e sviluppo delle idee. Punto forte dell’album però, e qui c’è poco da discutere, è il songwriting, solido e lineare, in grado di indagare molteplici sfumature dei sentimenti umani e coprire diversi argomenti. Nel promo del disco si accenna alla malinconia anni ’80 e ’90 coniugata al sound metal della Bay Area: personalmente non riscontro una grande presenza delle sonorità della Bay Area, se non forse perché Gary Wendt è originario della zona e bazzica da tempo nell’ambiente. A mio avviso invece “The Ghost Next Door” deve tantissimo agli anni ’90 alternative rock degli Alice In Chains (il timbro vocale di Gary Wendt spesso e volentieri ricorda Layne Staley nei suoi migliori anni) e dei Jane’s Addiction (vedi “Forever My Demon”). Il tutto è impreziosito da venature punk, jazz, progressive metal, sad-core e reggae (“Bully” ne è un esempio) e da un’aura cupa e spaventosa evocata anche dalla famosa casa stregata raffigurata nell’artwork della copertina.
Wendt quindi ha messo in piedi una robusta macchina da guerra, ma come in ogni buon puzzle che si rispetti, mancano ancora un paio di tasselli per renderlo davvero completo e fluido. I The Ghost Next Door però sono appena nati, e ne hanno di tempo per farsi le ossa e imparare a camminare e a correre sulle proprie gambe.
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Se dici Pro-Pain dici qualità. Nonostante siano trascorsi ventitré anni dall’esordio fulminante con “Foul Taste Of Freedom” e ben quindici album di studio (che complessivamente hanno venduto un milione di copie in tutto il mondo) da quel lontano 1992, i pionieri dell’hardcore metal newyorchese non hanno perso la loro verve, ma anzi, sembrano averci guadagnato con l’età.
“Voice Of Rebellion” è una voce collettiva intensa, onesta e senza compromessi, come solo la band di Gary Meskil e soci (e ben poche altre formazioni) sa essere. Ascoltando l’ultima fatica di studio dei Pro-Pain, la prima parola che mi si è stampata nella mente è “badass”, termine quasi intraducibile in italiano, perché è un misto tra violento, ganzo, tosto e strafottente, ma è l’aggettivo che più si confà a “Voice Of Rebellion” e ai suoi creatori, che a proposito di voce collettiva, hanno dichiarato di aver messo mano in parte uguale alla realizzazione dell’opera in un processo di scrittura corale, e si percepisce molto di più rispetto agli album precedenti. Il bello di “Voice Of Rebellion” è che l’equilibrio tra parte hardcore, rap e punk è pressoché perfetto, e lo si può facilmente notare in pezzi come “No Fly Zone” e “Take It To The Grave”. Inoltre i quattro non si dimenticano di omaggiare anche la vena thrash che è in loro (e soprattutto i Testament) con la violentissima “DNR (Do Not Resuscitate)”.
“Voice Of Rebellion” è un viaggio sulle montagne russe, senza protezioni e con più giri della morte del consueto. Consigliatissimo per tutti i fan della prima ora, così come per chi non ha mai avuto occasione di avvicinare i Pro-Pain.
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E-Force è un progetto che nasce nel 2001 da una costola dei Voivod, quando il bassista/vocalist Eric Forrest ha lasciato la storica formazione canadese nella quale militava in sostituzione di Denis “Snake” Bélanger, decidendo di mettersi in proprio. Gli E-Force quindi, vantano tra alti e bassi una carriera lunga ed onorata, durante la quale hanno sfornato quattro album di studio e attraversato diversi cambi di line-up.
“Demonikhol” è l’ultima fatica dei canadesi e parte da un’idea di base molto forte: l’album infatti si pone come un atto di denuncia contro gli effetti devastanti dell’alcool e lo fa a colpi di riff micidiali e doppio pedale killer. Il tutto grazie (e non solo) al ritorno del batterista KROF alle pelli e ai featuring di una manciata di draghi delle sei corde (giusto qualche nome, Vincent Agar, Tomáš Skořepa, Dan Baune). La proposta di Eric Forrest e compagni è un thrash onesto, duro e puro, ma che al tempo stesso non disdegna l’utilizzo dell’elettronica/industrial, perfetta nella opening track strumentale “Apéro” e in chiusura con “Last Call” per creare quell’aura di ansia e inquietudine da hangover e per dare una coerenza logica al concept del disco. Si entra nel vivo del discorso con l’acceleratore premuto al massimo in “Grievance”, ma i veri pezzi forti sono i successivi “Double Edged Sword” e “Invasion”, di una velocità e incisività davvero fuori dal comune. Si discosta dal resto delle tracce l’inquietante “The Day After”, costruita semplicemente su un pugno di arpeggi ma soprattutto sulla voce di Forrest che sembra un Mustaine con la laringite e sull’orlo della follia. Dopo questo intermezzo strategicamente posizionato a inframmezzare il corso di “Demonikhol”, il viaggio verso gli abissi della dipendenza continua in un crescendo sul quale la già citata “Last Call” piazza una bella e pesantissima lapide.
Inutile dire che la stoffa c’è (eccome), non stiamo certo parlando di novellini alle prese con i primi passi nel mondo del thrash. Nel complesso buona prova per gli E-Force, mi auguro solo che avendo finalmente trovato un certo equilibrio, inizino a regalarci più produzioni.
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Wiedergaenger è il nome che si cela dietro al progetto Total Negation, one man band teutonica di una malvagità inaudita. A voler essere del tutto sinceri, nessuno conosce la vera identità del vocalist polistrumentista, e il wiedergaenger è uno spirito demoniaco della mitologia nordica. Cosa ci si può aspettare quindi da un elemento simile? Personalmente non mastico il tedesco, ma i testi di "Zeitzeuge”, terzo album di studio di Total Negation, non ispirano di certo pace e serenità. Così come il suo sound, del resto.
La proposta del musicista originario della Renania Settentrionale-Vestfalia è un blackened doom metal freddo, depresso, corrosivo, venato di krautrock, che converge in un’apocalisse malata e deviata. Wiedergaenger è dotato di un talento incredibile, non importa quale strumento gli si metta davanti, lui riesce a maneggiarlo con tecnica e a infondergli un’anima nera e malvagia, che trova la sua massima espressione nella voce corrosiva, sferzante e sprezzante. I sei pezzi di "Zeitzeuge” sfiorano spesso e volentieri la black ambient, diventando la colonna sonora ideale di queste serate estive a base di tuoni, fulmini e pioggia battente. Interessante anche la sperimentazione sonora del buon Wiedergaenger, che in “Kronzeuge” e nella title track utilizza i rintocchi delicati e metallici di uno xilofono, strumento a dir poco peculiare per questo genere musicale.
"Zeitzeuge” è perfetto se andate matti per il doom metal cattivo e spettrale, e per le sonorità secche e perentorie del cantato tedesco. In caso contrario, meglio lasciar perdere.
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Le fucine del thrash canadese non smettono mai di sfornare band di un certo livello: oggi è il turno degli Alcoholator, grintoso quartetto che ha da poco dato alle stampe il suo secondo full length, “Escape from Reality”. E come per la maggior parte delle formazioni di Montreal e dintorni, la proposta degli Alcoholator è un thrash di matrice old school, solido e robusto.
A causa delle lyrics (nonché del nome stesso della band e dei nomignoli di battaglia dei suoi componenti) che trattano temi legati alle bevute, alla violenza, e alle gioie agrodolci del mosh pit, i nostri sono stati spesso considerati la risposta d’oltreoceano ai tedeschi Tankard, ma nonostante il paragone lusinghiero, la formazione canadese tende a prendere le distanze non sentendosi molto affine al filone party thrash metal. Tutto questo è evidente in “Escape From Reality”, che affronta argomenti di un certo spessore come l’alienazione e il disagio… senza però dimenticarsi le proprie origini alcoliche.
Come anticipato poco fa, la proposta degli Alcoholator è un sound che segue alla lettera gli insegnamenti della scuola canadese anni ’80: guardate solo la copertina, quanto fa eighties! “Escape from Reality” parte in quarta con una bella intro strumentale cha da subito ci fa capire quanto i quattro musicisti si siano evoluti rispetto al loro esordio, tanto da arrivare ad utilizzare con una buona padronanza chitarre a dodici corde e basso fretless, che rendono gli assoli e la tecnica musicale molto più ricercata e complessa rispetto al passato. La violenza esplode con “Punch Drunk” e la title track, con un bel ritornello catchy che è un piacere per le orecchie. Il compendio dello stile degli Alcoholator è “Out of Control”, uno dei pezzi più azzeccati dell’album, nel quale si miscelano gli ingredienti esplosivi dei quattro canadesi, che conflagrano definitivamente in “Molotov Cocktail”. Altro brano degno di nota è “Fuck Your Skull”, che di punto in bianco, nel bel mezzo di una sfuriata thrash, inserisce una parentesi melodica del tutto fuori posto ma efficacissima. Per finire, croce e delizia degli Alcoholator, “Cursed by My Thirst”, interpretabile come un inno alla sete implacabile (di alcol? Di giustizia? Di vendetta? a voi la scelta).
Alziamo le nostre lattine di birra e brindiamo all’ottima seconda prova degli Alcoholator, avanti di questo di passo li troveremo ben presto nell’Olimpo del thrash canadese insieme ad altri mostri sacri di questa meravigliosa terra.
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