Opinione scritta da Marco Doné
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Ultimo aggiornamento: 05 Novembre, 2013
Top 50 Opinionisti -
Ed arriva anche per i Buckcherry il momento del Best Of. La band di Josh Todd e Keith Nelson, dopo sei album pubblicati, decide di omaggiare i propri fans con una raccolta dei loro successi.
Recensire un Best Of non è mai cosa facile, si finisce con l’elencare i classici della band selezionati e, essendo appunto classici, la qualità è sempre elevata. Quindi proviamo a parlarne sotto un altro punto di vista. C’è chi vede nei Best Of una mossa commerciale con lo scopo di spillare soldi ai fans ma io non la vedo così. Un Best Of permette, a chi non conosce ancora la band, di poter avere una carrellata sulla storia del gruppo e decidere poi se approfondirne la conoscenza. Ed il “Best Of” dei Buckcherry va proprio in questa direzione. Strutturato per offrire all’ascoltatore l’evoluzione della band mettendo a disposizione, in ordine cronologico, tutti i successi di Josh Todd e soci. Si parte dall’ immortale “Lit Up”, dal debut album della band, per arrivare a canzoni come “Everything”, “Crazy Bitch”, “Rescue Me” o la più recente “Gluttony”. Una carrellata sulla storia dei Buckcherry data a suon di classici in cui si può notare come la band americana abbia inserito, dal suo ritorno sulle scene avvenuto nel 2006, influenze alternative con il risultato di arricchire l’ hard rock / sleaze metal degli esordi. Le influenze alternative hanno segnato un ottimo successo commerciale per la band, in particola in America, piazzando, ad ogni nuova uscita, dischi e singoli tra i primi posti delle classifiche di vendita. Viene dato spazio ad ogni disco della band ed il più presente è ovviamente quel “15” del 2006, il disco del ritorno sulle scene e quello con più successo nella storia dei Buckcherry. Dodici canzoni compongono questo “Best Of”, dodici canzoni che permetteranno, a chi ancora non li conosce, di scoprire una band interessante dall’indubbio valore. Dodici canzoni che faranno la gioia dei fans avendo in un unico disco tutti i successi della loro band preferita. Disco da inserire in macchina ed alzare il volume!
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Suonare metal con il cantato in lingua madre è una scelta fatta da molte bands, penso a quelle tedesche, del nord Europa a quelle spagnole. A volte è una scelta che riduce il bacino d’utenza, altre volte invece è una scelta vincente. Anche in Italia ci sono bands che fanno metal cantato in italiano, una scelta coraggiosa che, spesso, porta con se critiche. Se da un lato, per intenti e concezione, viene accettato ed apprezzato nel metal più estremo (penso ad un certo movimento nel black metal di casa nostra), negli altri sottogeneri della musica a noi cara non sempre riscuote lo stesso consenso. I Tempesta, band friulana attiva dal 1992, portano avanti questa scelta artistica dal 2007 e questo “Scusate Per Il Sangue” è il terzo lavoro cantato in lingua madre, sesta fatica in carriera per il trio friulano. Il motivo di questa scelta, dopo aver ascoltato il disco, è chiaro. Avendo realmente qualcosa da dire, i Tempesta hanno deciso di provar a risvegliare le coscienze di casa nostra ed il cantato in italiano è la strada per perseguire questi intenti. “Scusate Per Il Sangue” è un disco di estrema denuncia sociale nei confronti del sistema italiano ma non solo. Punta il dito contro la classe dirigente, contro l’istituzione della chiesa, tocca temi come l’eutanasia, l’ipotetica libertà di stampa o la credenza che la legge sia uguale per tutti. Tutto questo viene gridato con una proposta musicale heavy/thrash in cui fanno spesso capolino i Megadeth. Le linee vocali di Fulvio Sain sono legate al rock più adulto di casa nostra ed in molti frangenti hanno un che di narrante. I Tempesta hanno esperienza da vendere e la loro capacità compositiva porta a comporre canzoni con la C maiuscola. Canzoni come “La Legge E’ Uguale Per Tutti”, “Radici Nel Cemento” e “Sparami Sul Viso” sono pure bordate heavy/thrash dalla complessa trama chitarristica, mentre “La Paura Del Diverso”, “Idiocracy”, “I Cani Del Padrone” hanno un tono più introspettivo in cui il trio friulano mette in mostra eleganza e buon gusto nel proprio songwriting. Ma come non citare la classicheggiante title track, la melodica “Non Siamo Numeri” o “Mentre Tu Dormi” e “Imperi Di Sabbia” in cui lo spettro dei Megadeth più melodici è ben marcato, l’ambiziosa “Crollerà Il Cielo” retta da una trama chitarristica veramente ben studiata. Se poi diciamo che, oltre al buon gusto ed a dei testi che sono veri pugni in faccia, i Tempesta mettono in mostra anche una ottima capacità tecnica (in particolare la chitarra di Fulvio Sain) non si può fare a meno di sottolineare come questo “Scusate Per Il Sangue” si riveli un ottimo disco partorito da un ottima band.
Ultimo aggiornamento: 30 Dicembre, 2013
Top 50 Opinionisti -
Ed eccoci qua…. Ogni volta che mi trovo a parlare di un disco italiano degli anni ottanta o primi novanta, vengo perennemente investito da una dose di rabbia incommensurabile. Si, proprio così… Autentici capolavori il più delle volte passati inosservati, lavori che ci invidiano all’estero e noi italiani nemmeno conosciamo, o non vogliamo conoscere, per una mania esterofila che non ha spiegazione… Ok, non è il momento delle polemiche quindi mi fermo qui ed iniziamo a parlare di questo capolavoro che, grazie alla Jolly Roger Records, possiamo ascoltare in vinile in formato completamente rimasterizzato. Stiamo parlando della cult-band veronese dei Sacrilege e del loro demo autoprodotto “Demon Woman”. Nati da una costola dei Black Hole, nella formazione troviamo infatti Nicola Murari alla chitarra e Mauro Tollini alla batteria, i Sacrilege realizzarono questa demo nel 1987 per sciogliersi da lì a poco. Dalle loro ceneri nasceranno, pochi anni dopo, gli Epitaph. Cinque i brani che compongono questo “Demon Woman”, cinque brani di genialità pura, in cui Black Sabbath, Saint Vitus, una certa nhwobhm e quelle atmosfere ipnotiche, a tratti psichedeliche, proprie degli anni settanta, si mescolano alla perfezione creando un qualcosa di spettrale a cui poche band si sono avvicinate. Si parte con una "Intro" funerea e spettrale che lascia subito spazio ad “Endless Rain”. Ritmica incalzante ed ipnotica, il giro di chitarra è genialità pura. La canzone può essere descritta attraverso un immagine, pensate di trovarvi in un sentiero d’aperta campagna, di notte, avvolti dalla nebbia, qua e là qualche albero ed alle vostre orecchie arriva una melodia straziante, come se si stesse per eseguire un non precisato rituale. Che inizio!! Tocca poi alla title track “Demon Woman” in cui fanno capolino le influenze nwobhm, Gream Reaper su tutti. “Siel” invece è strutturata attorno ad un arpeggio dalle tipiche atmosfere settantiane valorizzato dall’interpretazione di Luca Gorna alla voce e dalle suggestive tastiere di Fley. Questa “Siel” è per i Sacrilege quello che “Free Man” fu per gli Angel Witch. “Sacrilege” è doom all’ennesima potenza, un inizio alla Saint Vitus per poi evolvere in una parte centrale, strumentale, in cui fa capolino un passaggio alla The Doors, ovviamente riletto in chiave doom. Canzone ambiziosa il cui risultato lascia senza parole per la qualità e la genialità della composizione. “Voodoo Ritual” è il perfetto atto finale di questo “Demon Woman”. Canzone spettrale in cui l’anima dei Black Sabbath è ben marcata. Stupenda l’accellerazione centrale, una parte ossessiva e malsana che si mescola alla perfezione con l’atmosfera della canzone e di quest’ opera. Si, opera è il termine corretto, parlare di demo secondo me è molto riduttivo, sia per la qualità espressa sia per cosa rappresenti questo disco nello scenario nazionale ma non solo, visto l’alone di culto, di leggenda, che lo circonda.
Cinque tracce compongono questo “Demon Woman”, cinque tracce che conquistano e allo stesso tempo lasciano l’amaro in bocca. Conquistano per la qualità, il pathos, l’oscurità che emanano. Lasciano l’amaro in bocca perché a questo capitolo non vi fu seguito ed anche la successiva incarnazione della band ebbe vita breve. Lasciano l’amaro in bocca perchè l’Italia, da sempre, ha regalato pagine incredibili alla storia della musica da noi preferita senza però, salvo rari casi, ottenere quanto le spettava e le spetta tutt’ora. In un momento in cui il movimento che possiamo chiamare occult metal, in cui la componente heavy doom è la base di partenza, sta ottenendo sempre più seguito grazie ad una sorta di revival da parte di band tutt’altro che eccezionali, questo “Demon Woman” fa capire cosa significhi credere, vivere, quello che si suona.
Grazie alla Jolly Roger Records per aver riportato in vita questa perla. Il formato della ristampa è in vinile, limitato a 500 copie, le prime 100 sono in vinile viola.
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A distanza di sei anni arriva il secondo disco per i greci Floating Worlds che, dopo aver trovato una stabilità nella lineup, realizzano questo interessante “Below The Sea Of Light”. Il disco, registrato ai CFN Recording Studios, mette in mostra una band con delle grandi potenzialità e capacità tecniche a cui manca però un qualcosa per fare il grande passo. Le tracce migliori sono sicuramente le due strumentali, “Garden Of Souls” e “Revenge”, poste in apertura e chiusura del disco, canzoni dalle ipnotiche atmosfere da soundtrack ed in cui i singoli mettono in mostra delle capacità tecniche veramente degne di nota, in particolare Andreas alla chitarra e John al basso. Molto bella anche “Shattered”, in cui aleggia lo spettro dei Symphony X, e la power song “Soul Saviour” con un Jon alla voce che, potendo liberante spingere verso l’alto, ci regala una prestazione di prim’ordine. Infatti Jon sembra molto più a suo agio nelle tonalità alte che in quelle più basse. Lo si può notare in “Amyrah”, canzone per cui è stato girato il primo videoclip della band. La canzone si apre con un intro tastieristico penalizzato dal suono scelto (problema che si ripresenterà in altre canzoni, in qualche stacco la scelta dei suoni delle tastiere non è convincente) per poi evolvere in un atmosfera da power ballad in cui Jon deve cantare leggero e su tonalità basse e fa capire di non esser a suo agio perdendo in espressività. Recupera subito nel ritornello, potendo andare su note a lui più congeniali. Un ritornello convincente che riporta la canzone su atmosfere più sostenute. Fa il suo effetto la soluzione di alternare la voce di Jon con quella di Christine. Ottima la parte solistica che evidenzia l’animo prog della band e mette nuovamente in risalto le doti di Andreas e John. “Thrill The Night” è un ottima melodic heavy metal song che rimanda alla mente l’Ozzy degli anni ottanta. Jon può spingere verso l’alto, tornando a convincere per tutta la durata della track, e la parte solistica è come sempre ben curata. La canzone è sicuramente piacevole ma la sensazione del gia sentito penalizza non poco. La successiva “Till The End” è una romantic ballad con una strofa molto curata in cui il gioco tra Jon e Christine alla voce lascia il segno enfatizzando le atmosfere da “cuore spezzato”. Il ritornello purtroppo non decolla e la canzone viene penalizzata. Sempre nel ritornello la voce di Christine non convince appieno. “Angel”, nonostante quella sensazione di gia sentito, è un ottima song facilmente memorizzabile anche grazie ad una linea vocale molto rockeggiante. L’inizio della traccia è molto pomposo e riporta alla mente i Kamelot per poi diventare più lineare. Belli i cori utilizzati nel ritornello e da segnalare un ottimo stacco centrale in cui la voce di Jon e le tastiere di Christine lasciano il segno.
Le idee ci sono, le capacità tecniche anche, quando i nostri riescono a svilupparle nel modo migliore realizzano delle soluzione molto interessanti. Quella commistione di tecnica, atmosfere da soundtrack e melodia che possiamo trovare in “Garden Of Souls”, “Revenge”, “Shattered”, nel ritornello di “Amyrah”, nella stupenda “Soul Saviour”, fanno capire che la band c’è, il sentiero da percorre è stato trovato. Non rimane che entrarvi e percorrerlo nella sua interezza….
Ultimo aggiornamento: 17 Ottobre, 2013
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E’ uscito nel 2012 questo “Kobra And The Lotus”, disco omonimo, della band canadese capitanata dall’affascinante Kobra Paige. Il disco è prodotto da Gene Simmons dei Kiss, un biglietto da visita che non passa di certo inosservato. Vedendo le photo session che hanno accompagnato l’uscita del disco verrebbe da pensare all’ennesima metal sensation che punta tutto sull’immagine della propria frontwoman. Chi ha detto Huntress? Chi ha detto Unleash The Archer? Ed è proprio qui che ci si sbaglia! Basta fare play allo stereo e far partire il disco per capirlo! La ricetta è un heavy metal americano veramente accattivante e trascinante. Non la solita e semplice riproposizione di idee gia sentite ma una proposta musicale in cui possiamo trovare elementi anni ‘80, influenze di alcune bands americane degli anni ’90 (Iced Earth) ma riletto il tutto in chiave personale. Freschezza (passatemi l’espressione) e qualità compositiva, passione, convinzione, entusiasmo, questo è quello che si respira ascoltando il disco. Tutto gira alla perfezione, ogni canzone potrebbe essere un papabile singolo. Non c’è un calo di tensione. Da tempo non mi trovavo così coinvolto nell’ascolto d’un disco, mi risulta quasi difficile riuscire ad iniziare a parlarne da quanto c’è da dire, proviamoci… I primi tre pezzi dell'album sono incredibili! Da queste tre canzoni son stati girati altrettanti video che stanno spopolando in rete. L’energica “50 Shades Of Evil”, l’oscura “Welcome To My Funeral” e la più classica ed epica “Forever One” sono un esempio dell’identità dei Kobra And The Lotus. Riffing abrasivo, solistica perfetta, linee vocali potentissime ed al tempo stesso dotate di una melodia che cattura. Ma si continua alla grande con “Heaven’s Vein”, impossibile stare fermi, una vera killer song. L’intreccio delle sei corde è praticamente perfetto, Kobra Paige regala un'altra prestazione devastante, i cori sono studiati per enfatizzare maggiormente l’incedere della canzone. Impossibile trovare un qualcosa che non vada in questo disco, ad ogni canzone dovremmo tessere solo lodi su lodi. Dalla più moderna “My Life” alla stupenda “Lover Of The Beloved” in cui Kobra Paige insiste maggiormente sulle sue ottave basse diventando evocativa. Un mid tempo in cui l’intreccio delle chitarre, che riescon ad unire melodia e spettralità, è praticamente perfetto, un ottimo esempio di cosa voglia dire suonare heavy metal ai giorni nostri. Stupenda la conclusiva “Aria Of Karmika” in cui a farla da padrone è, ancora una volta, il lavoro delle due chitarre. La canzone ha un evoluzione ammaliante, viene messo in mostra il lato più evocativo ed epico della band canadese. Difficile citare le influenze della band (ma sinceramente ci interessa?), tutto è suonato con una personalità che bands ben più rodate possono solo immaginare, così, le influenze, diventano echi. Ed in qualche trama chitarristica possiamo trovare echi degli Iced Earth ma, ripeto, la proposta della band è estremamente personale. Inoltre, tutti i protagonisti del disco metton in mostra un invidiabile conoscenza e confidenza col proprio strumento. Notevoli le chitarre di Kulakowski e Vega (ora al suo posto c’è Charlie Parra del Riego), ottimo il lavoro di Pete Dimov al basso, impressionante quello dietro le pelli da parte Kissack e poi… poi c’è lei, Kobra Paige, dotata di un tiro pazzesco, grandissima voce, timbrica pulita ma potentissima.
Da tempo viene detto quanto sia difficile trovare un ricambio generazionale nel mondo metal, spariti i mostri sacri non si sa quale possa esser il futuro. Beh, se i Kobra And The Lotus continueranno su questi livelli abbiamo trovato una band in cui sperare.
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Per gli appassionati delle sonorità più classiche il nome Wizard è sicuramente sinonimo di garanzia. Oltre vent’anni di onorata carriera e, con questo nuovo “Trail Of Death”, ben dieci dischi all’attivo. Dieci dischi in cui la band tedesca ha dato dimostrazione di coerenza, passione e convinzione portando avanti la causa dell’heavy metal. “Trail Of Death” può esser descritto proprio così, coerenza, passione e convinzione nell’heavy metal! E in quest’ottica l'opener “Creeping Death” mette subito le cose in chiaro, i Wizard non sono qui per fare prigionieri!! Non si poteva iniziare in modo migliore! Ma come non nominare la terremotante “War Butcher” in cui spicca il ritornello melodico ed estremamente epico, la Grave Digger oriented “Electrocution”, la manowariana “We Won’t Die For Metal”. “Black Death” è un assalto frontale di puro power speed in pieno stile Wizard, “One For All” è un'altra song in cui è impossibile restare fermi con il suo heavy power che dal vivo darà non poche soddisfazioni grazie a quel ritornello fatto a posta per i live. Stupenda l’epica e suggestiva “Angel Of The Dark” a metà tra Manowar e Grave Digger nelle loro vesti più evocative. Forse l’unico capitolo che si allontana dalle tipiche sonorità ottantiane è “Death Cannot Embrance Me”, ottima power ballad in cui Sven D’Anna, per rendere al meglio il tema trattato nelle lyrics, insiste su tonalità cupe che, sommate all’uso delle tastiere e del piano, creano un atmosfera decadente.
Interessanti anche le lyrics affrontate nel disco. Viene trattato il tema della morte in tutte le sue forme compresa la domanda su cosa vi sia dopo di essa. Tale tema viene sviluppato sia in tono “serioso”, ad esempio in “Creeping Death”, sia con un po di sano humor come in “Machinery of Death”.
“Trail Of Death” forse non dirà nulla di nuovo ma un disco così ben fatto in cui trasuda passione da ogni sua singola nota, farà sicuramente la gioia di tutti gli amanti delle sonorità più classiche.
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I Devildriver non hanno certo bisogno di presentazioni ma negli ultimi anni, dopo aver pubblicato due capolavori intitolati “The Fury Of Our Maker’s Hand” e “The Last Kind Words”, hanno dato alla luce dei lavori un po meno spontanei. Dischi schiacciasassi, come d’abitudine per Fafara e soci, ma meno spontanei, senza quella magia posseduta dai dischi sopra citati. Se a questo andiamo a sommare due piccoli scossoni in seno alla band, l’avvicendamento al basso con la dipartita dello storico Jon Miller e l’ingresso di Chris Towning ed il cambio di etichetta con il passaggio dalla Roadrunner alla Napalm Records, un po di curiosità in merito a questo nuovo “Winter Kills” c’è… Immagino gia le domande dei fans della band su questo nuovo disco. Sapere se possa essere il nuovo “The Fury Of Our Maker’s Hand”, beh la risposta è no. Sapere se continua la linea degli ultimi lavori, buoni dischi ma non così “vivi” come ci si aspetterebbe, beh la risposta è no. Ma allora che disco è questo “Winter Kills”? E’ semplicemente un disco da avere tassativamente!! Uno dei migliori dischi di questo 2013!! Un disco che impressiona da subito e continua ad assumere fascino ascolto dopo ascolto. Un assalto frontale di devastante groove metal a cui i Devildriver inseriscono delle aperture melodiche che hanno l’effetto di creare maggiore coinvolgimento nell’ascolto e donano classe alle composizioni. Ascoltate “The Appetite” e capirete… Ma come non nominare il groove devastante di “Ruthless”, l’assalto frontale di “Desperate Time” (qua e la qualche richiamo ai migliori Fear Factory!!!). “Haunting Refrain” è un'altra bordata groove con una apertura melodica centrale che lascia poi il via libera ad un assolo riuscitissimo. Risulta però impossibile paralare di una canzone rispetto ad un altra, tutto il disco gira su livelli altissimi, non c’è un calo di tensione. Tecnica, violenza, melodia, un disco riuscitissimo. Ed anche dove i nostri decidono di non pestare duro, realizzano una canzone, “Sail” che chiude il disco, ossessiva, la cui melodia è un inno al male di vivere…
Questo nuovo “Winter Kills” si presenta come uno dei migliori dischi dei Devildriver, ci restituisce una band in piena forma. Dopo ogni cambio d’etichetta avviene sempre una sorta di nuovo inizio. Chi ha brillato al di sotto delle sue capacità, riacquista quella luce capace di illuminare come ai bei tempi ed anche i Devildriver non vengon meno a questa regola! Un disco suonato alla grandissima ma le doti tecniche dei Devildriver non le scopriamo certo oggi. Il suono è come sempre perfetto, un disco da avere tassativamente.
Come al solito una nota per i collezionisti, cercate la tiratura limitata a 200 copie con dvd live e poster ….
Ultimo aggiornamento: 26 Settembre, 2013
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Uscito circa un anno fa questo “Addicted To Decadence” dei milanesi Naughty Whisper, vede la band alla ricerca di una nuova identità dopo gli esordi glam. La voglia di fare qualcosa di nuovo e l’esperienza live fatta nel nord Europa porta la band verso una strada ambiziosa. L’intento è quello di unire in una particolare miscela, rock, metal, atmosfere gothic e parti elettroniche. Il tutto con suoni moderni, di chiaro stampo svedese. Non per niente si è volati da Arnold Lindberg (In Flames, Hardcore Superstar…) per la produzione del disco. La band definisce la sua nuova proposta con il termine di obscure rock. Se da un lato la produzione è riuscitissima, dall’altro, la realizzazione degli intenti della band riesce a metà. La matrice glam degli esordi è ancora molto presente in certe composizioni e gli intenti di creare quell’ obscure rock riesce solo in parte. Dove i nostri però riescono a centrare i loro obbiettivi, realizzano delle composizioni degne di nota. “My Own Demise” ne è l’esempio. Ottima struttura della canzone che risulta molto ben articolata, riesce ad unire la melodia dell’hard rock, una certa vena decadente arrangiando il tutto in chiave moderna. Ottimo l’uso dei synth. Da segnalare anche la più hard rock oriented “Into My Blood”. Altro capitolo da dieci e lode è “Eternal Demon” (la mia preferita del disco), una volta entrata in testa fatica ad uscirne. Da questa canzone è stato tratto il secondo video del disco, non ci poteva esser scelta migliore. La canzone si apre con un ottima parte melodic metal per poi incedere con un connubio tra heavy e hard rock di stampo svedese. Bridge e ritornello fanno centro. Ottima la scelta dei growl nella strofa. Il termine obscure rock calza a pennello su “Everythings Not Lost” in cui la voce di Andy, con una linea vocale veramente ben studiata, la fa da padrone. “Venom In Me” prosegue in questa direzione e lascia poi il posto a “Borderline”, traccia molto interessante. Anche qui a farla da padrone un ottima linea vocale, un interpretazione molto sentita in questa ballad che saprà farsi ammirare anche in sede live. Il disco si chiude con la cover della famosissima “(I Just) Died In Your Arms” dei Cutting Crew. Rivisitazione in chiave Naughty Whisper, scelta coraggiosa ma ben riuscita! Gli altri capitoli del disco non convincono a pieno, le influenze hard rock e glam sono più presenti portando a perdere originalità alla proposta, o, nel caso di “Poison White”, troppe idee e influenze vengono combinate in una sola canzone faticando a farla decollare.
Concludendo, “Addicted To Decadence” è sicuramente un buon disco che mette in mostra una band ambiziosa. La voglia di fare qualcosa di originale porta alla ricerca di staccare con il passato. Il tentativo in alcuni frangenti è ancora acerbo ma, come detto sopra, dove i nostri riescono a far centro nei loro intenti le canzoni entrano in testa e non ne escono tanto facilmente. Teniamoli d’occhio questi Naughty Whisper, il talento c’è…
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Ottava fatica per i tedeschi End Of Green che dopo essersi tolti più di qualche soddisfazione nel corso degli ultimi anni, firmano con la sempre più importante Napalm Records. La band tedesca, dopo il successo ottenuto col gioiellino “The Sick’s Sense” del 2008, ha iniziato ad inserire qualche piccola variante al proprio sound. Dal loro mix tra Type O Negative, alternative, dark wave ed atmosfere care ad Him e Charon, ha inserito elementi che strizzano l’occhiolino al mainstream. In questo nuovissimo “The Painstream”, la canzone che meglio rappresenta questa definizione è sicuramente“Holidays In Hell”. Canzone in cui fanno capolino echi di Type O Negative, The Cure, 30Seconds To Mars ed una vena pop che va ad impreziosire il ritornello. Un mix sonoro forse difficile da immaginare ma che i nostri riescono a realizzare con maestria in quella che si rivela la traccia migliore del disco. Come dicevamo in precedenza, in “The Painstream”, è presente una componente mainstream anche se le radici della band non vengon dimenticate. Esempio di questo è sicuramente “Final Resistance”, una strofa gothic/doom ed un ritornello di pregevole fattura. Un discorso particolare va fatto per la successiva “De(ad)generation”, forse la traccia più coraggiosa realizzata dagli End Of Green. Per questa canzone è stato girato anche un videoclip e si candida al ruolo di “canzone da classifica”. La traccia più pop rock del disco con una venatura goth nella strofa. Il ritornello, che dovrebbe far decollare la canzone, non è riuscitissimo e la penalizza, rendendola piacevole ma nulla più. Di ben altro livello è la successiva “Home On Fire” che prosegue quanto di buono fatto sentire con “Final Resistance” elevandone la qualità. Questo è il terreno dove gli End Of Green danno il meglio e realizzano delle composizioni veramente notevoli a cui va aggiunta “Don’T Stop Killing Me”. Splendide le atmosfere create, notevole la linea vocale. Degna di nota anche “Chasing Ghosts”, il capitolo più energico del disco. Piacevole l'opener, "Hangman's Joke", studiata appositamente per i live e la conclusiva “The Painstreet”. Non tutto il disco però gira al meglio. Qua e là ci sono passaggi poco spontanei, a volte forzati. Risulta un po scontata “Standalone” con le sue sonorità alla Charon, “Death Of The Weakender”, che può riportare alla mente gli Anathema, presenta dei passaggi a vuoto nella struttura che le fanno perdere fascino. “Miss Misery” forse è il capitolo meno riuscito del disco. Disco che, nonostante questi passaggi a vuoto, risulta comunque piacevole all’ascolto. Forse non sarà il capolavoro della band tedesca ma da continuità alla direzione intrapresa con gli ultimi lavori. Chi conosce la band sa cosa aspettarsi da questo nuovo “The Painstream”, mentre chi non la conoscesse ancora e vive a pane e depressive rock, gli dedichi un ascolto potrebbe trovare una piacevole sorpresa.
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Anno 2013, dopo anni di letargo una creatura del male decide di risvegliarsi e tornare a tormentare i nostri sogni… Questo avrà pensato Steve Sylvester quando ha deciso di porre fine al breve letargo dato a quella creatura del male che risponde al nome Death SS. Tutti i fans della band (tra cui il sottoscritto) speravano che questo letargo finisse presto e finalmente eccoci qui a parlare di questo nuovo Ressurrection. Ma andiamo per gradi, i Death SS del 2013 presentano una nuova formazione, sono tornati ad essere un quintetto con una new entry alla batteria, l’ottimo Bozo Wolff . Gli altri componenti della band non hanno sicuramente bisogno di presentazione, alle tastiere Freddy Delirio, al basso Glenn Strange, alla chitarra il fenomenale Al DeNoble (Alessandro Lonobile gia attivo con i Secret Sphere) ed ovviamente l’intramontabile e carismatico Steve Sylvester. Dopo le dovute presentazioni andiamo al sodo parlando di quello che a noi interessa di più, la musica. Il disco si presenta con una doppia veste, le canzoni con numerazione dispari sono canzoni che andranno a far parte di colonne sonore per alcune pellicole curate dalla casa cinematografica indipendente, la Manetti Bros, con la quale Steve ha collaborato, mentre le canzoni con numerazione pari portano avanti il concept horror/esoterico che da sempre accompagna la band. Il disco si apre con Revived, composizione che, per suoni e struttura, può facilmente rimandare al disco The Seventh Seal, con un chitarrone, passatemi il termine, sintetico a farla da padrone su tutta la durata del pezzo. A seguire tocca a The Crimson Shrine, qui il livello raggiunto è sensazionale, forse uno degli apici del disco. La canzone con le sue atmosfere goticheggianti sembra uscire direttamente da quel capolavoro intitolato Do What Thou Wilt. Primi due pezzi e miglior inizio non si poteva avere. Subito dopo ci imbattiamo in The Darkest Night, canzone che non ha sicuramente bisogno di presentazione visto che è stata l’apripista del disco con l’omonimo ep. Un ritornello strappaorecchi e ritmiche serrate, l’episopdio più classicamente heavy metal del disco. Degne di nota le prestazioni di Al DeNoble e Bozo Wolff. Altra traccia che fa ritornare alla mente Do What Thou Wilt è Dyonisus, un altro degli apici del disco. Un orecchio attento può notare che tra le canzoni a numerazioni dispari e quelle pari, ci sono delle piccolissime differenze di stile. Le canzoni a numerazioni pari presentano una struttura forse più articolata e le atmosfere riconducono, come più volte sottolineato, a Do What Thou Wilt. Ripeto, un orecchio attento lo può notare, ciò non significa che il disco non presenti una marcata impronta tipicamente Death SS. Proseguendo l’ascolto del disco non si può non segnalare Star In Sight, canzone veramente ben strutturata con un ritornello azzeccatissimo. Basata su un passo del libro “Magick In Theory And Practice” di Alister Crowley, questa canzone rappresenta la sua corretta trasmutazione in musica. Altro pezzo da novanta è The Song Of Adoration, un intro spettrale ci introduce ad una canzone in cui a farla da padrone sono ancora quelle atmosfere gotico/horrorifiche, un giro di chitarra da brividi ed uno Steve vero mattatore della canzone. Da segnalare la splendida Ogre’s Lullaby, forse , assieme a Ther Darkest Night, il miglior capitolo per quanto riguarda le tracce per soundtrack realizzate in questo Resurrection. La traccia, è pesante, oscura, cupa, un inno dell’horror doom, una ninnananna per accompagnarci verso una notte fatta d’incubi. Ottima anche Bad Luck (letteralmente sfiga!!!!) posta in chiusura del disco. Traccia in cui, in maniera spiritosa, Steve si toglie qualche sassolino dalle scarpe verso tutti quei benpensanti che hanno sempre etichettato i Death SS come portatori di sfiga… La canzone ha un che di Alice Cooper e ben si presta al tono ironico dato da Steve.
Questo Ressurection ci offre una band viva con ancora molto da dire, un disco che riesce a combinare alla perfezione il passato più lontano e quello più recente di una tra le più importanti horror band di sempre. Il disco è veramente ben curato, stupendo l’artwork curato da Emanuele Taglietti, ed ottima la scelta dei suoni. La prestazione dei singoli poi, in particolare Al DeNoble e Freddy Delirio, è superlativa.
Per i collezionisti: il disco è uscito in un lussuosissimo formato double vinyl limitato a 999 copie, non fatevelo scappare…
Non possiamo che dare il bentornato a Steve e soci e attendere che il loro teatro dell’orrore inizi presto a mettersi in cammino, i palchi attendono d’esser messi a ferro e fuoco.
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