Opinione scritta da MASSIMO GIANGREGORIO
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Top 50 Opinionisti -
I Pigeon Lake (il cui nome parrebbe ispirato ad un suggestive lago ubicato nella regione di Alberta in Canada) si formano in quale di Oslo (Norvegia) nel 2011.
A vederli così, sembrano davvero quattro allegri paciocconi, caratterizzati da un vero e proprio “non-look” con tanto di cravattina nera, bretelle e – addirittura, nel caso del vocalist Chris Schackt - con papillon che spicca sul pullover nero.
Io sono il primo a non dare alcun peso né al look, né alle etichette ma credo che, almeno un minimo, la band debba dare l’idea del genere musicale che propone: visti così, i nostri quattro scandinavi potrebbero benissimo passare per un quartetto d’archi.
Vabbè, venendo al contenuto di questa loro terza fatica in studio (hanno esordito nel 2012 con l’EP “I:mindrape”, seguito dal full-lenght “Tales of a Madman” ….mi ricorda un certo diario di una certa persona.. intervallati dal singolo “Confrontation”) devo dire che mi devo ricredere sull’epiteto precedente, ossia su “allegri”.
Questi ragazzi, hanno depressione e malinconia da vendere!
Il sound del monicker si appalesa abbondantemente depressivo, con spruzzatine di stoner e doom/sludge qua e là ( “Futility of You” con venature Killing Joke) con il Chris che alterna abbastanza sapientemente il growl al cantato pulito in cui – talvolta – ci rievoca Dave Gahan dei Depeche Mode (?!?) mandato un po’ male da qualcosa o da qualcuno/a (vedasi “Let’s pretend”).
Magnus si destreggia all’ascia piuttosto bene, senza mai indugiare in assoli e/o virtuosismi ma, quando lo fa (arivedasi “Let’s Pretend”, il brano che chiude l’opera) devo dire che appare assolutamente convincente.
Leggermente avulso da tutto il contesto dell’album (ed anche fuorviante) risulta la opening track “Ragnarock” che sconta l’inevitabile tributo al mito norreno della epica battaglia finale tra le potenza della luce e dell’ordine contro quelle delle tenebre e del caos, il cui esito determinerà la distruzione e la consequenziale ricostruzione del mondo nel segno del bene o del male.
Interessante anche l’arpeggio iniziale di “Hide & Seek”, che ci ricorda i mai abbastanza rimpianti System of a Down, che rifanno capolino nella track “A Familiar Problem” che ricrea atmosfere un po’ da antico Egitto.
Buoni spunti vengono anche dal pezzo – finalmente un po’ più movimentato - “Perfect Place” nel quale, a mio sommesso parere, non avrebbero sfigurato degli inserti di pianoforte nel contesto.
Un album che, pur non brillando per fantasia e pur scivolando via all’ascolto senza fornire particolari scossoni, può ritenersi tutt’altro che malvagio (in tutti i sensi) ma che frutta un responso di rivedibilità complessiva: il prossimo lavoro in studio potrebbe rappresentare la raggiunta maturità della band ovvero la sua scivolata verso l’oblio.
Spero che ora succeda qualcosa che mi tiri un po’ su….
Max “Thunder” Giangregorio
Ultimo aggiornamento: 23 Giugno, 2018
Top 50 Opinionisti -
Confesso che non ho mai nutrito particolari simpatie per quello che è stato definito il “follettone”, ma solo perché ho sempre trovato incongruente la sua immagine, il suo nome d’arte e la sua attitudine con il genere musicale che propone.
Quando ha esordito, nei primi anni ’90, a vederlo con quel look e con quello pseudonimo, mi aspettavo di ascoltare del doom metal altamente mortifero e stramaledetto; si trattava pur sempre del bass & vocals degli Emperor, di un artista annoverato tra i capostipiti del black metal norvegese, destinato a perpetrarsi come vero e proprio marchio D.O.C..
Insomma, presumevo si trattasse del “Quorthon del doom/sludge” e, invece, nulla di tutto questo.
Più che altro, l’ho assimilato più a Trent Reznor, anche se con un sound avente connotazioni più heavy.
I critici più accreditati hanno addirittura distinto in ben tre fasi il suo percorso artistico: la fase ambient, quella darkwave e quella industrial rock.
Un curriculum di tutto rispetto, considerando i 10 full-lenghts finora realizzati, conditi da vari singoli e da numerosissime partecipazioni a compilations, etc.
Il nostro follettone (all'anagrafe Håvard Ellefsen, nato il 25 luglio 1975 a Skien) ripropone lo stesso album pubblicato originariamente nel 2010 durante il tour europeo e da tempo fuori catalogo.
All’epoca ‘Perfectly Defect’ venne pubblicato in due versioni: la tour edition in CD con dieci brani e in digitale con dieci canzoni.
Questa nuova edizione contiene dodici tracce ma, soprattutto, fuoriesce dalla etichetta fondata dallo stesso Mortiis, ossia la Mortiis Omnipresence Records.
Per chi predilige il suono pesante dei synth (chi scrive è da sempre un estimatore dell'elettronica, che ha iniziato a seguire attraverso i Tangerine Dream, Klaus Schultze, Conrad Schnitzler, i Kraftwerk della prima ora composti dai soli Ralf Hutter e Florian Schneider, ha visto nascere i Depeche Mode, i Prodigy e compagnia “bella”), Mortiis è una certezza sempre e comunque.
Un vero e proprio marchio di fabbrica che – tra l’altro – proprio di recente - si è rifatto vivo dalle nostre parti mettendo a ferro e fuoco il 25 maggio scorso le Officine Sonore di Vercelli; insomma, con Mortiis andate sul sicuro!
Max “Thunder” Giangregorio
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Se Carl Orff (il compositore dei Carmina Burana, la colonna sonora di Excalibur) avesse vissuto ai giorni nostri, credo che avrebbe voluto comporre lui questa opera al nero dei Dimmu Borgir.
I signori del Nero Castello norvegese, si ripresentano nei nostri peggiori incubi ancora più epici, ancora più maestosi, ancora più sinfonici, ancora più misterici, ancora più mastodontici, ancora più maligni.
Poco importa se hanno già fatto più volte storcere il naso ai loro fans della prim’ora: l’evoluzione iniziata illo tempore è continuata e continua imperterrita, con buona pace di chi avrebbe preferito un atteggiamento più radicale ed integralista.
In Eonian si respira male e cattiveria a pieni polmoni, anche se con sensazioni più variegate rispetto a quelle quintessenziali dei loro esordi.
La voce di her Shagrat continua a tirarci via la pelle per quanto è graffiante e maledetta, supportata da cori degni delle migliori saghe noir nordiche, le partiture di tastiere e pianoforte si appalesano vieppiù classicheggianti e dedite ad aperure sinfoniche. Le asce e la sezione ritmica, che ve lo dico a fare…
Tutta la band, comunque, fornisce un ulteriore prova di estrema compattezza, donandoci l’ennesima perla nera da incastonare nel novero dei diademi black metal di tutti i tempi.
Le atmosfere ricreate in questo album sono molto più orientate verso il Medioevo della peste nera, periodo storico in cui chi ascolta viene ineluttabilmente catapultato, ingenerandogli l’istinto di correre una disgraziata gimcana tra gli untori con l’animo colmo di angoscia ma nutrendo una recondita speranza di sopravvivenza.
Speranza vana, perché questa fatica dei Dimmu Borgir non fa prigionieri.
Max “Thunder” Giangregorio
Top 50 Opinionisti -
Metalbangers, a mio avviso gli Et Moriemur sono la nuova doom-sensation del panorama mondiale.
Ho deciso di fondere in un’unica recensione il loro secondo album “Ex Nihil In Nihilum” (rieditato a fine 2016) e la loro ultima, insana creatura “Epigrammata” per rendevi maggiormente partecipi della loro evoluzione musicale e concettuale.
Il monicker è stato fondato a Praga nel febbraio del 2008 ed il loro sound è subito stato etichettato come “doom esistenziale”.
Intanto, diciamo subito che l’influsso culturale mitteleuropeo è innegabile (agevolato dalle inconfondibili atmosfere praghesi) e rende le loro composizioni un claustrofobico mix tra tristezza e rabbia.
Mix impreziosito dal sapiente e sempre ben calibrato utilizzo di strumenti quali il super-classico pianoforte, il malinconico violino, il potente organo a canne, la chitarra acustica (fa capolino persino uno xilofono…) e di vocalizzi che spaziano dalla voce narrante al sussurrato fino al vero e proprio growl, perdipiù espressi in svariate lingue, tra le quali spiccano il latino (che caratterizza tutti i titoli dei brani del terzo lavoro “Epigrammata”, per cui – per esclusione – i titoli in inglese si riferiranno esclusivamente al cd “Ex Nihil In Nihilum”)ed il greco antico.
Brani in cui il dolore e la sofferenza si tagliano con il machete, brani molto depressi e depressivi: insomma, ci mancano solo le campane a morto…
Le strutture delle tracks sono sempre alquanto variegate e si denotano svariate influenze sonore che vanno dai Killing Joke ultima maniera (vedi “Nihil” la cui opening rievoca certi Korn della prima ora, stile “A.D.I.D.A.S.”) alla Dark Wave anni ’80 (vedi anche lo stacco “alla Cure” di “Communio”) dalla ouverture celtica di “Offertorium” ai canti gregoriani di “Dies Irae”.
Il tutto, comunque confezionando un suono sempre cavernoso che rende l’ascoltatore felice come se si fosse perso in una gelida notte senza luna in una foresta nera dei Carpazi, per sfuggire alla quale finisce per rifugiarsi nelle catacombe, accompagnato dalle backing vocals altamente evocative che non mancano mai di “allietare” quasi tutte le pieces, materializzando un tappeto sonoro degno dei migliori funerali sotto la pioggia battente.
Emblema assoluto di tutto ciò, risulta essere il brano “Black Mountain”: ben 16 minuti e mezzo capaci di ridurre l’ascoltatore in stato semi-catatonico con tanto di bavetta schiumettata al lato della bocca e occhi sbarrati e cerchiati di nero.
Due masterpieces neri come la notte più buia, che non possono assolutamente mancare nella macabra discografia di un doomster/sludger che si rispetti!
Max “Thunder” Giangregorio
Top 50 Opinionisti -
Come dice il saggio: “esistono solo due generi di musica:quella buona e quella cattiva”
Signore e signori, recensire i Paradise Lost, comunque la si voglia vedere, significa avere a che fare con un pezzo non irrilevante della storia del rock in generale e poco importa se non trattasi di heavy metal in senso stretto.
Sono in circolazione dal lontano 1988, allorquando il cantante Nick Holmes ed il chitarrista Greg Mackintosh – in quel di Halifax (UK) – partorirono un monicker inizialmente votato al death/doom metal.
La Nuclear Blast ha pensato bene di rieditare – in versione rimasterizzata – il loro settimo album in studio della loro sterminata discografia, quel “Host” dato alla luce nel lontano 1999 che ha segnato il consolidamento della parentesi elettronica iniziata nel 1997 con l’album “One Second”.
Fase nell’ambito della quale i Paradise Lost misero accantonarono la matrice metal facendo prendere il sopravvento alla loro anima darkwave: chitarre ovattate e cristalline, ritmi meno tirati, inserti elettronici e concessioni al pop anni '80 di gruppi come Sisters of Mercy e Depeche Mode nonché alle sonorità di gruppi gothic rock come Bauhaus e The Mission.
La voce di Holmes subì un cambiamento radicale, passando ad una timbrica pulita e melodica.
Tantissimi headbangers storsero il naso, gridando alla bestemmia, al tradimento e lanciando anatemi all’indirizzo della band che, però, ha saputo continuare dritto per la propria strada, approfondendo il solco tracciato attraverso una sorta di ibridazione tra Black Sabbath e la dark wave elettronica anni ’80.
Chi, come me, ha avuto il privilegio di vivere appieno quel periodo, reso estremamente fertile dalla sequenza dettata dalla nascita del punk, della New Wave Of British Heavy Metal, della New Wave/post-punk, ricorderà benissimo l’apporto dato alla causa da bands come Joy Division, New Order, Sisters Of Mercy, Siouxie & The Banshees e compagnia bella.
Il marchio di fabbrica è rappresentato da un syth-dark-rock alquanto calmo e malinconico ma sempre ricco di pathos, tendente a ricreare delle atmosfere introspettive ed intriganti, fluttuanti su una cifra stilistica sempre elevata e caratterizzata da una certa innata raffinatezza di fondo tipica delle rock sensations provenienti dalla Terra d’Albione.
“Host” è come una collana di perle selvatiche: tutte sono differenti l’una dall’altra ma tutte sono bellissime e rendono l’insieme assolutamente prezioso.
Ecco perché risulta estremamente arduo citare alcuni dei 13 brani che compongono questa release che rimane scolpita negli annali dell’anima rock universale.
Long live Paradise Lost!
Max “Thunder” Giangregorio
Ultimo aggiornamento: 14 Aprile, 2018
Top 50 Opinionisti -
Questo combo di doomsters (fondato da Vince Hempstead, ex ascia dei Pagan Altar) proviene dalla gloriosa terra di Albione, la culla (checchè se ne voglia dire) di qualsivoglia forma di arte metallica. Se poi ci aggiungiamo che sono proprio londinesi, dovremmo ritenere che ci troviamo al cospetto di una band al top del genere. Niente di più errato!
Il viaggio nella Valle del Re che ci propongono i nostri quattro è a dir poco noioso e spompo! Una release in cui si denota immediatamente una mancanza cronica di idee e di dinamismo. Fin dalla opening/title track si viene assaliti dalla tediosità e monocromaticità delle sfumature del sound, davvero mosciarello e senza guizzi degni di nota, con testi incentrati fortemente sul fantasy. La traccia che prende il nome dalla band londinese sembrerebbe farci risvegliare dal subitaneo torpore che ci aveva sorpreso con il primo pezzo, sia pure pagando il doveroso tributo ai mostri sacri del comparto mortifero, ossia i Candlemass. Infatti, Simon Stanton sembra un Messiah Marcolin con il freno a mano tirato ma - se non altro – si incomincia un po’ a ragionare. Appunto, si incomincia; ma con l’irrompere (si fa per dire) di “Forest of Mirror” si smette subito: i vocalizzi di Simon qui rievocano quelli dell’altrettanto mitico Ozzy, ma in versione “Inps”. La susseguente “Last of my Kind” scivola via senza colpo ferire, mentre la successiva traccia (“Season of The Witch”) è sì un po’ più movimentata ma il riff portante è di una banalità disarmante, pur rimembrandomi i Warlord della prima ora. Si procede sempre sullo spompatino andante con “King of Vultures”: ma l’apoteosi si raggiunge con la seguente “Shadow of Tormentor”, in cui le risatine alla “Ozzy-Inps” si alternano a delle backing vocals in falsetto assolutamente spiazzanti! “Upon the throne of Lights” ci conferma, semmai ve ne fosse stato bisogno, che i quattro sludgers necessitano di una bella dose di vitamine per tirasi un po’ su e (soprattutto) tirar su il proprio assetto musicale, invero tristarello anzichennò.
Quello che pretenderebbe di essere un epic-doom metal, si rivela essere una sbiaditissima versione di ben altre performances, provenienti da ben altri lidi.. molto distanti – in questo caso – dall’isola britannica che tanto lustro ha conferito al genere.
P.S. Occorre specificare che questo album è inizialmente uscito nel 2014 come autoproduzione, per poi essere ristampato a fine gennaio 2018 dalla Wormholedeath Records.
Ultimo aggiornamento: 15 Marzo, 2018
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I Sacred Oath sono in circolazione fin dal lontano giugno del 1985 a Bethel (Connecticut - U.S.A.) ma – della line up originaria - è rimasto il solo cantante e chitarrista Rob Volpintesta (che in seguito cambiò il cognome in Thorne). La loro proposta è sempre stata improntata al power metal puro ed incontaminato, senza “se” e senza “ma”!
Questa settima fatica in studio è un mausoleo dinamico inneggiante alla migliore tradizione del power di estrazione maideniana, sia pure intriso di quegli spunti thrash che si rifanno al sound della bay-area degli anni ’80. La conferma viene già dai primi solchi della opening track ("New Religion") che sfoggia un sound sempre attuale nella sua indiscutibile classicità, con un riff potente ma “catchy”, una inframezzatura a distacco niente affatto male ed assolo saettante. La title track mi ricorda i migliori Annihilator (quelli di "Alice in Hell", tanto per intenderci) e si prosegue sulla medesima falsa riga, senza però mai annoiare, grazie a degli stacchi semi-sperimentali/vagamente fusion ed alla vena del solista d’ascia Bill Smith. Il tappeto ritmico steso da Brendan Kelleher alle quattro corde e da Kenny Evans alle pelli è di tutto rispetto e sempre altamente energetico. "Never and Forever" è la immancabile ballatona elettrica un po’ strappalacrimuccia, ma comunque efficace e convincente anche grazie anche ad un imperioso assolo. La vitaminica "Demon Ize" ci riporta sul sentiero metallico solcato dai nostri quattro ceffi, che non concedono sconti alle nostre orecchie ed alla nostra capoccia in sbattimento. "Well of Souls" fa un po’ il verso agli Anthrax, ma le aperture melodiche opportunamente alternate al sostrato “thrashy” (vedi la lenta parentesi centrale del pezzo) garantiscono comunque un risultato godibile e mai stucchevole. "Eat the Young" è la track più oscura, da questo punto di vista con il suo cantato che rievoca un po’ lo Hetfield-style con quella puntina di growl che non guasta mai. Linee e stili vocali che ritroviamo nella successiva "No Man’s Land", davvero metallicheggiante. A chiudere, "The Last Word" ossia il pezzo più lungo ed elaborato, magari di minor presa, ma che costituisce una giusta summa di tutto quanto sciorinato dai nostri nell’arco dell’intera release.
Una release che deve confortarci, se non altro nel senso che consente di mantenere vivo uno dei punti fermi per gli estimatori del power metal meno transigente.
Ultimo aggiornamento: 03 Febbraio, 2018
Top 50 Opinionisti -
Il nome di questa macabra band deriva dalla contrazione della parola francese “belle – dame”, ossia “belladonna”. Questo epiteto, nel periodo immediatamente post rinascimentale, ha via via assunto una connotazione negativa, fino a giungere ad essere sinonimo di strega, megera. Non a caso, dalle bacche velenose della pianta di Belladonna, si estraeva un unguento mortale definito “unguento delle streghe”. La superstizione popolare ha fatto il resto e – unendosi in un sinistro connubio con leggende popolari e letteratura – ha portato alla creazione di un vero e proprio oscuro personaggio (appunto, Beldam) che era a capo di una triade di sirene/megere denominato “Trio delle Ombre”.
Ed in effetti, tutto, in questo secondo lavoro del combo doom/sludge in questione, formatosi nel 2013, trasuda incantesimo e maleficio, al punto che avrebbe potuto benissimo rivestire la funzione di soundtrack di Suspiria, il capolavoro di Dario Argento dedicato alla strega nera per eccellenza, la Mater Suspiriorum! La fatica discografica si compone di sole 6 tracce, tutte della durata media di circa 8 minuti che, alla fine, risultano forse un po’ eccessivi, specie nelle prime due tracce ("Vial of Silence" e "Sunken Sorceress") le quali scivolano via senza particolari guizzi né momenti degni di catturare l’attenzione dell’ascoltatore, ridotto in stato catatonico dal suono cupo e impastato dei nostri doomsters di Charlottesville, poi stabilitisi a Seattle. Dalla terza piece ("Shed the Coil") però, irrompe una filastrocca dannata che sembra canticchiata da una fattucchiera mentre prepara - con tutto l’odio del mondo - la sua pozione micidiale. Il vocalist Randall Guidry mena la danza macabra attraverso un mix di growl e voce da posseduto, in cui viene sorretto da un basso ultra compresso e drumming tritacarne, oltre che da un incessante lavoro d’ascia a sei corde. Nel quarto pezzo ("One from the Stable") spicca la parte centrale, in cui – ad interrompere il solito cadenzone – i nostri sembrano proprio presi dal famigerato “ballo di San Vito”, tanto in voga nel medioevo. Il party dei sortilegi prosegue con un "Carrion Fist" dalla intro psichedelicheggiante; un brano in cui sembra che la band abbia ingerito una pozione autoprodotta e sia in preda ai suoi devastanti effetti, al punto che la linee vocali sembrano dei veri e propri abbai canini che rendono complessivamente indigesto ma intrigante il pezzo. Si chiude con "The Witch Consumes You" che sembra estrapolata dalla colonna sonora di un thriller italiano anni ’70.
Un album mefistofelico, che ti cattura e ti imprigiona mentalmente in un loop soffocante e catacombale, facendoti desiderare solo di liberarti con tanto di previa estrema unzione.
Ultimo aggiornamento: 22 Gennaio, 2018
Top 50 Opinionisti -
ANVIL. “POUNDING THE PAVEMENT”
E’ sempre una sfida emozionante recensire l’ultimo lavoro di veri e propri mostri sacri del Metal come, indiscutibilmente, sono i quattro canadesi dell’incudine.
Chi, come chi vi scrive, è cresciuto con “Metal on Metal” e, prima ancora “Schoolove”, non può non avvertire il peso di doversi occupare della nuova creatura di Steve “Lips” Kudlow e compagni.
Un quartetto seminale, che ha fatto da apripista ad altre leggende del metallo made in Canada, come gli Exciter, facendo riscoprire gli hard rockers Triumph, fungendo da modello (quanto ad atteggiamento ironico, irriverente e dissacrante) ai blues-rockers Danko Jones.
L’emozione cresce all’ascolto delle primissime note dell’opening-track “Bitch in the box” che mette subito le cose in chiaro con l’ascoltatore: il marchio di fabbrica dell’incudine è rimasto immutato, scolpito a caratteri cubitali del Vangelo metallico.
Come sempre, senza fronzoli né complimenti, il sound inconfondibile della storica band ci prende subito a sberle in piena faccia!
La successiva “Ego” – con la sua brusca accelerazione - ci catapulta in un delirio di incandescente metallo fuso tra i cui gorghi affoghiamo volentieri, partendo di headbang come se non ci fosse un domani!
La voce di Lips è resa ancor più corrosiva dall’età (che inesorabilmente si cumula con gli stravizi passati…o no?) e sa fungere ancora da depravato sacerdote di una funzione metallica che vorremmo non finisse mai.
Con molto mestiere, i nostri alternano rocciosi mid-tempos a massacranti sferzate degne di una locomotiva lanciata sui binari all’impazzata, con le teste che – incuranti del dolore inferto – sono quasi sul punto di staccarsi dal collo per andare in orbita con il resto dei nostri sensi.
I testi sono sempre al vetriolo, come lo sono stati nei tempi che furono (anzi, vieppiù intrisi di quel veleno che le esperienze di vita ti costringono ad ingerire, salvo poi risputarlo fuori al momento opportuno, che, per Lips è quello del songwriting).
“Smash your face” è dolce come una carezza di Tyson a dita unite in pieno volto.
Arriva poi la title-track e non c’è più scampo per nessuno! Un vero e proprio tritacarne sonoro interamente strumentale degno dei fasti di “March of the crabs”.
“Rock that shit” è quanto di più sporco e stradaiolo ci si possa imbattere: d’altronde è uno stile di vita che gli Anvil conoscono molto bene ed al quale sono riusciti, finora, miracolosamente a sopravvivere per regalarcene alcuni estratti al curaro come questa song.
I colpi di maglio si susseguono impietosamente sui nostri malcapitati padiglioni auricolari con “Let it go” e le altre 5 tracce alle quali ci si abbandona inermi, lasciandosi piacevolmente picchiare come un pugile ormai messo all’angolo che aspetta solo il gong finale.
Al termine del cd, non ci si sa spiegare come si sia fatto ad arrivare indenni fino in fondo, per quanto tramortiti ed esausti si rimanga.
L’incudine ci è ripiombata in testa! Beware!
E adesso, scusatemi ma devo chiamare il 118!
Max “Thunder” Giangregorio
Ultimo aggiornamento: 19 Dicembre, 2017
Top 50 Opinionisti -
Gli aficionados del power metal integralista, intransigente e di non facile presa, saranno entusiasti di questa terza fatica dei Wildestarr.
Trattasi di power trio formato da Dave Starr (che si occupa di tutte le corde, dalle 4/5 del basso alle 6/8 della chitarra); ma non si occupa delle corde vocali: a quelle ci pensa, unitamente all’ugola inossidabile, London Wilde; c'è poi Josh Foster alle pelli.
Lo Starr abbiamo avuto modo di apprezzarlo nell’arco della sua militanza nei Vicious Roumors, di cui era il bassman; ed, in effetti, il tipico ed inconfondibile stile dei Vicious riecheggia per larghi tratti nella release. E non c’è da meravigliarsi: come si fa a rimanere immune al prolungato contatto con un tipaccio come Geoff Thorpe, fondatore dei mitici Hawaii?
Venendo alla struttura del songwriting, la base è composta da una sorta di tapis roulant minato, sul quale devi correre per evitare di saltare per aria, reggendo la forza d’urto della sezione ritmica cingolata propinataci dai tre.
Gli assoli di Dave sono virulenti e mai prevedibili, con qualche virtuosismo ben centellinato, al contrario degli acuti di London, utilizzati in maniera un po’ forzata, in certi momenti tanto a sproposito da risultare fastidiosi ed inutilmente eccessivi. Il drumming di Josh andrebbe misurato sulla scala Mercalli.
I pezzi, come accennavo, non risultano essere di facile presa a livello melodico, ma spaziano stilisticamente dalla immancabile (semi) ballad (Down Cold) fino alla arpeggiante “Undersold” (a mio avviso il pezzo migliore dell’album) alla sperimental-maideniana “From Shadows” ad alla track finale (When the night falls) che rievoca un po’ quell’assoluto masterpiece degli Hawaii di “Rhapsody in black”.
Eppure, dopo l’ascolto del tutto, rimane una sensazione di incompiutezza, un non so che di poco convincente, con le songs che sono scivolate via senza lasciare una traccia incisiva nell’ascoltatore.
Alla fine, il risultato complessivo è che, questo lavoro, non si appalesa come del tutto convincente o, comunque, di levatura tale da meritare una votazione alta anche se i puristi del genere ne rimarranno entusiasti.
Max “Thunder” Giangregorio
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