Opinione scritta da Ninni Cangiano
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Top 10 opinionisti -
Le ristampe dei primi dischi dei polacchi Crystal Viper proseguono ad opera della AFM Records, arricchiti di bonus-tracks in quantità; questa volta parleremo del debut album della band intitolato “The curse of Crystal Viper”, uscito originariamente nel 2007. Partiamo subito dalla copertina, anche in questo caso alquanto scadente, anche se leggermente migliore di quella di “Metal nation”. Anche questa volta fortunatamente i difetti evidenti terminano qui; l’album, infatti, è un altro assalto power più grezzo rispetto agli altri album (del resto, si tratta del debut album dei Crystal Viper), ma sempre con piacevolissime parti strumentali e la voce aggressiva della sempre affascinante Marta Gabriel (nonostante una improponibile capigliatura biondo/castana...) in evidenza. Oltre al consueto tellurico batterista Golem ed agli ottimi solos del chitarrista Andy Wave, devo mettere in risalto le interessanti parti di basso, spesso vero e proprio strumento protagonista, suonato da Tommy Roxx, dopo un po’ uscito dalla band. “The curse of Crystal Viper” è composto da 9 pezzi + la solita inutile intro (“...I see him” in cui sentiamo anche la terribile voce di Gerrit P. Mutz dei Sacred Steel), tutti di piacevole ascolto, fra cui devo segnalare le tiratissime e violente “Shadows on the horizon” (la mia preferita in assoluto!), “The last axeman”, “I am the leather witch” e “The fury (Undead)”, vere e proprie hits di fronte alle quali ho trovato impossibile rimanere fermo. Mi è piaciuta parecchio anche la solenne “Demons’ dagger”, brano più cadenzato e dal flavour epico che convince. Come detto, anche per questa ristampa troviamo diverse bonus-tracks: in primis la cover di “Flaming metal systems” dei Manilla Road; seguita da due “2008 version” di “Demons’ Dagger” e “Sleeping swords”, la versione in polacco di “The last axeman” (che non perde un’oncia del suo fascino, nonostante il difficile idioma), tutte quante tratte dalla raccolta “The last axeman” del 2008; in chiusura c’è anche la cover di “Mr. Gold”, dei Warlock. Un ottimo debut album questo “The curse of Crystal Viper” che, visto anche il prezzo conveniente, potrebbe essere un buon investimento, qualora l’originale non facesse già parte della vostra collezione.
Ultimo aggiornamento: 04 Agosto, 2012
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Avevo scoperto i polacchi Crystal Viper grazie alla AFM Records all’epoca della pubblicazione del “Live in Germany – Defenders of the magic circle” del 2010, rimanendone subito conquistato sia per il ritmo indiavolato e l’energia tracotante del loro power metal, ma anche per il notevole fascino della grintosa cantante Marta Gabriel, una tra le più belle donne nel mondo metal. Da allora in poi sono usciti due album che non mi sono lasciato sfuggire; mi mancavano quindi i primi due albums che in questo periodo la AFM Records, visti i buoni risultati degli ultimi lavori della band polacca, ha pensato bene di ristampare arricchendoli di bonus-tracks in quantità. Qui parleremo di “Metal nation”, secondo album uscito nel 2009 (in realtà potrebbe essere considerato il terzo, includendo l’ormai introvabile raccolta “The last axeman” del 2008), dotato di una delle copertine più brutte che mi siano mai capitate. Fortunatamente i difetti finiscono qui, perché musicalmente abbiamo davanti un assalto power all’arma bianca, con la voce aggressiva della mora singer in grande evidenza; è comunque tutta la band a figurare ottimamente, dato che gli assoli di chitarra di Andy Wave sono sempre di gran gusto, le parti di basso di Tom Woryna sono continuamente in grande evidenza e, soprattutto, il ritmo forsennato ed indiavolato imposto da Golem alla batteria è indubbiamente notevole. “Metal nation” è composto da 8 furiose cavalcate power, più l’intro “Breaking the curse” e la splendida cover di “Agent of steel” degli americani Agent Steel, in cui Marta riesce anche ad essere migliore del grande John Cyriis (tratto da quel capolavoro e manifesto dello speed metal intitolato “Skeptics apocalypse) del 1985 che non dovrebbe mai mancare in ogni collezione di un metallaro che si rispetti!). A voler essere pignoli, “Her crimson tears” non è proprio degna di essere chiamata “cavalcata”, dato che ha un ritmo abbastanza blando, che la rende accostabile più ad una ballad che ad altro. Tra queste cavalcate, ho davvero l’imbarazzo della scelta, dato che tutte (e sottolineo “tutte”) mi hanno convinto, regalando energia in quantità e facendomi sbattere il capoccione fino a far dolere le mie usurate vertebre cervicali! Scorrono una dopo l’altra “Meal nation”, “Bringer of the light”, “The anvil of hate”, “Legions of truth” (in cui si sente anche un’isterica voce maschile dell'ospite Lars Ramcke) e la monumentale e teatrale “Gladiator: Die by the blade (I – III)”. In questa edizione, come dicevo, troviamo diverse bonus-tracks: in primis la strumentale “Axeman’s revenge”, credo utilizzata come intro nei live dal 2008 al 2011 finora inedita; seguita da due “karaoke version” (in realtà solo versioni strumentali) di “Metal nation” e “Bringer of the light”, la splendida ballad romantica “The banshee”, in una versione del 2011 (in cui Marta Gabriel imita un po' la voce di Doro Pesch) ed originariamente edita sulla predetta raccolta del 2008 “The last axeman”, la versione demo di “The anvil of hate” (non poi così differente dalla definitiva ad essere sinceri, a parte ovviamente la registrazione!) e, dulcis in fundo, la splendida “Libertalia”, cover dei Running Wild, comparsa sul tributo “ReUnation”. Un gran disco questo “Metal nation” che, considerando la scarsa reperibilità dell’originale, direi possa essere considerato imperdibile per ogni fan dei Crystal Viper e del power metal in genere.
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A distanza di due anni dal piacevole “In your honour”, tornano i power metallers australiani Black Majesty con il quinto album della loro carriera intitolato “Stargazer” uscito, come tradizione, per la tedesca Limb Music, label che ha prodotto tutti gli altri albums della band capitanata dall’ugola cristallina dell’ottimo John Cavaliere. Anche questa volta la formazione è rimasta intatta, senza un bassista ufficiale e chissà che anche questa volta come session-man sia stato chiamato a registrare le parti di basso il buon Evan Harris (non ho informazioni al riguardo, sorry!), oramai da considerare a tutti gli effetti un altro membro della band, visto che è dal debut album ad occuparsi lui della parti di basso, pur non rientrando ufficialmente nella line-up. L’album è composto da 9 pezzi, più una bonus track intitolata “Shine” che non dispiace affatto e sulla cui presenza non mi sono stati forniti dettagli (immagino una prima tiratura in digipack....). Lo schema seguito dalla band è abbastanza lineare, con pezzi ruffiani ed orecchiabili ma mai troppo “happy”, ricchi di energia e velocità (grande il lavoro del batterista Pavel Konvalinka, una vera e propria macchina da guerra!), arricchiti da assoli di gran gusto della coppia di chitarre di Steve Janevski e Hanny Mohamed. Fa eccezione (ma fino ad un certo punto) la sola “Symphony of death”, più cadenzata e moderata rispetto alle altre che, in certi passaggi, farebbe persino pensare ad una ballad romantica. A me sono piaciute in particolar modo la melodica “Lost horizon” (Stratovarius docet!), la velocissima opener “Falling”, l’orecchiabile “Journey to the soul” e la monumentale “Stargazer”, scelta giustamente quale title-track visto che obiettivamente è il pezzo migliore e più particolare del disco. I Black Majesty sono quasi arrivati a festeggiare il decennale della loro attività e proseguono con la loro tradizionale musica; persino la copertina (realizzata, come consueto, da Dirk Illing), segue sempre la consuetudine, con il guerriero ed il leone nella tematica, anche se questa volta c’è un po’ di colore in più. Come detto, il sound della band prosegue fedelmente ed imperterrito con un veloce e frizzante power metal, ricco di melodia ed orecchiabilità; conseguentemente, chi ha apprezzato questi 4 australiani in passato (come il sottoscritto) non potrà non rimanere affascinato da questo “Stargazer”. Al contrario, chi non ne può più di certe sonorità e ritiene superflua l’esistenza di bands alquanto simili tra loro (obiettivamente l’originalità non è una caratteristica di questa band), sicuramente giudicherà diversamente da me e non apprezzerà la proposta musicale dei Black Majesty. E’ sempre la solita storia: se vi piace questo genere di musica e non cercate originalità ad ogni costo, allora i Black Majesty sono sicuramente pane per i vostri denti; viceversa è meglio lasciar perdere e dirottare le vostre attenzioni (ed i vostri soldini) altrove... a voi la decisione!
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Devo ammettere che ignoravo l’esistenza di una thrash metal band in Lussemburgo, ma il bello di collaborare con un sito come allaroundmetal.com è proprio che non si finisce mai d’imparare, non si finisce mai di scoprire nuove bands, più o meno valide e questa volta mi è capitato con gli Scarlet Anger. Questi cinque musicisti arrivano dal piccolo paese centro-europeo e credo sia la prima volta in 25 anni di metal che mi capita di incontrare una band proveniente dal Lussemburgo. La loro proposta musicale è un incazzatissimo, violentissimo e tiratissimo thrash metal old-style, abbastanza ispirato da mostri sacri come Testament e Death Angel, quindi tecnica strumentale in quantità ed assalti sonori in grande stile. La registrazione è ottima e la mano di un certo Jeff Waters (nascondetevi se non sapete chi è!) nella fase di mastering si sente eccome; sono proprio le chitarre di Jeff Buchette e di Fred Molitor a beneficiare dell’opera dei Watersound Studios di Ottawa (Canada), messe giustamente in primissimo piano con i loro riff assassini e gli assoli al fulmicotone. Certo, senza l’opera del potente e preciso batterista Alain “Skeelo” Flammang, probabilmente il sound degli Scarlet Anger verrebbe ridimensionato di brutto, dato che il ritmo imposto dal nostro drummer è davvero indiavolato per tutto l’album. Qui, infatti, non c’è spazio per ricami melodici (l’unico momento pacato lo troviamo in apertura di “Tenfold” ed un po’ nella bonus-track), non c’è spazio per romanticherie zuccherose, ma solo e soltanto per un fottutissimo thrash abrasivo, violento come un cazzottone di Mike Tyson e ricco, ricchissimo di energia, come solo il thrash con la “T” maiuscola sa avere. Non mi fa impazzire la voce sporca e roca di Joe Block, un attimino troppo aggressiva e ‘core-oriented per i miei gusti, ma in fin dei conti non si sposa male con lo stile violento del sound degli Scarlet Anger. Questo “Dark reign”, uscito per la semi-sconosciuta label Dust on the Tracks Records (di cui ignoro l’eventuale distribuzione sul suolo italico, sorry!), è il debut album di questa validissima band, dopo due E.P. risalenti ad anni addietro; il disco è composto da 11 pezzi divisi in due capitoli (che sia un concept album? E’ molto probabile), con aggiunta di una bonus track intitolata “Scarlet”, risalente al primo E.P. “La realidad es triste” del 2009, immagino ri-registrata per l’occasione. Tutti i pezzi scorrono via molto bene, arrabbiati a dovere e regalano adrenalina in quantità industriale, tanto che fatico ad individuare un brano che risalti maggiormente rispetto agli altri; se proprio dovessi indicarne uno, credo che la mia scelta ricadrebbe su “My empire coming down”, song più lunga delle altre (6 minuti) e più completa, grazie ad una serie di cambi di tempo ed atmosfere differenti. Carina la copertina, anche se con qualche cliché alquanto abusato, come il classico clown diabolico, utilizzato in passato da diverse altre bands. “Dark reign” è un disco che non posso che suggerire ad ogni appassionato di thrash metal, dato che presenta una band, gli Scarlet Anger, dalle ottime prospettive future. Non lasciatevelo sfuggire!
Ultimo aggiornamento: 17 Luglio, 2012
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I Mortillery arrivano da Edmonton (Canada) e questo “Murder Death Kill” è il loro debut album, originariamente uscito nel 2011 per la sconosciuta Horror Pain Gore Death Productions e ristampato di recente dalla Napalm Records. La prima cosa che mi ha colpito è stata la terribile copertina, davvero tra le più brutte che mi sia mai capitato di vedere! Fortunatamente la musica dei Mortillery non è ugualmente scadente; il loro furiosissimo ed incazzatissimo thrash metal, infatti, colpisce duro come una legnata sulle gengive e non lascia spazio a compromessi! Qui non ci sono melodie zuccherose, rallentamenti o sperimentazioni, solo e soltanto thrash del genere più duro e becero, come andava di moda circa 25 anni fa, quando vennero fuori in giro per il mondo, ispirate dalla Bay-Area americana, miriadi di bands minori come Gothic Knights, Sacrilege, Sacrifice, Znowhite, Toxic, Wrathchild America, Hellbastard, Defiance, Vio-lence, Quick Change e chi più ne ricorda, più ne metta! L’energia e l’impatto delle bands di allora trasla nel suono dei Mortillery e dei 10 pezzi del loro album, urlati fino allo sfinimento dalla potente ed arrabbiata screamer Cara McCutchen, uno dei rari esempi di vocalist donna in un genere così duro (chi ha detto Angela Gossow o Sabina Classen?). Il difetto di fondo di un disco simile sta nella somiglianza che i vari pezzi hanno tra loro, sia a livello di struttura che proprio musicalmente parlando, un assalto all’arma bianca dal primo all’ultimo secondo, senza un attimo di respiro o di cedimento! E fortunatamente che ogni tanto i chitarristi Alex Scott ed Alex Gutierrez lasciano qualche piccolo spazio alla melodia nei loro assoli....
Se siete nostalgici del thrash di fine anni ‘80/primi anni ’90, quel thrash furioso ed arrabbiato che miete vittime nel pogo più sfrenato sotto il palco, direi che questi Mortillery possano fare al caso vostro; per chi, in quel periodo, magari non era nemmeno nato un ascolto a questi ragazzi canadesi lo suggerisco perché con la loro energia incontenibile potrebbero saper conquistare i vostri favori; per quelli un po’ più vecchiotti (come il sottoscritto) “Murder death kill” sarà solo l’ennesimo discreto disco di thrash metal come tanti altri in passato... c’è di meglio in giro!
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I Vorpal Nomad arrivano dalla Colombia e questo “Hyperborea”, pubblicato dalla canadese Metalodic Records, è il loro debut album, dopo l’E.P. “The spirit machine”, autoprodotto nel 2010. La band è stata formata 2 anni fa dal singer e famoso disegnatore Felipe Machado Franco, autore di decine e decine di splendide copertine per metal bands di tutto il pianeta, (facciamo a gara a chi ne ricorda di più??) assieme al talentuoso chitarrista Nicolas Waldo. L’iperattivo Felipe, oltre a cantare molto bene con questi Vorpal Nomad, lo ricordiamo anche nei Thunderblast, band che ha realizzato lo scorso anno un discreto album intitolato “Invaders from another world”. Ma veniamo ad “Hyperborea”, presentato naturalmente con una copertina splendida, opera del grande Machado Franco. Il power metal presentato dalla band sud-americana è incentrato sul lavoro delle due chitarre, con la solista di Nicolas Waldo in grande evidenza, il tutto sorretto dall’ottimo lavoro alla batteria di Christian Gaitan (anche lui in passato nei Thunderblast); ho sentito poco il basso di Daniel Pinzon, forse alquanto sacrificato dalla registrazione, o appositamente relegato ad un ruolo secondario. Musicalmente parlando, lo stile dei Vorpal Nomad è accostabile a certo power sinfonico che ricorda un po’, fatte le dovute differenze, i nostri Rhapsody, qualcosa degli spagnoli Dark Moor, ma anche degli Stratovarius dei bei tempi; nulla di particolarmente originale dunque, ma sicuramente piacevole da ascoltare. Un sound, quindi, decisamente orecchiabile ed indubbiamente affascinante, con l’ugola sporca ed aggressiva del vocalist che ben si sposa con il sound, rendendolo più cattivo dello standard del genere. L’album è composto da 7 pezzi + intro (la title-track) e bonus track (la piratesca “Jack’o’Lantern”, utilizzata anche per un singolo nel 2011). Su tutti si staglia la lunga suite “As the otherworld falls down”, splendido esempio di tecnica musicale ed affascinante song che non può non conquistare e che, in fin dei conti, non sfigurerebbe nella discografia di una delle bands dei grandi Turilli e Staropoli! Piacevoli anche “The brotherhood”, in cui si sentono spesso anche le tastiere (ignoro però chi le abbia suonate, sorry), la happy-metal oriented “Last hero on heart” (Freedom Call docet!), nonché l’autocelebrativa “Vorpal Nomad”. Non mi ha entusiasmato la registrazione, nonostante mix e mastering sia opera di un certo Piet Sielck (10 minuti di vergogna per chi non conosce questo mostro sacro della musica tedesca!); mi auguro che dipenda da un’eventuale scarsa qualità dei files che ho avuto a disposizione e che su cd questi problemi non siano presenti. Per il resto non posso che suggerire “Hyperborea” dei Vorpal Nomad ad ogni appassionato del power metal, dato che si tratta di un disco indubbiamente interessante.
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Confesso di essere alquanto affezionato agli Athlantis di Steve Vawamas, dato che il loro debut album omonimo fu anche la mia prima recensione per quello che era il nostro vecchio sito, www.powermetal.it; così quando mi è arrivata la proposta di recensire questo nuovo disco dallo strano titolo “M.W.N.D.”, non potevo certo lasciarmela sfuggire! Da allora sono passati 10 anni, un secondo misterioso album che ancora non mi sembra sia mai uscito, intitolato “Metalmorphosis”, registrato alcuni anni fa (se non erro, tra 2007 e 2008), alcuni cambi di line-up (della formazione originale, oltre al leader, è rimasto solo il fido chitarrista Pier Gonella), numerose partecipazioni del nostro Steve a diverse altre bands (The Dogma, Mastercastle, Wild Steel, ecc.)... insomma di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia! Ed anche il sound degli Athlantis ne ha risentito; se infatti nel 2002 ci trovavamo davanti al classico power melodico made in Italy che all’epoca stava dando il meglio di sé, in questo “M.W.N.D.” ogni tanto troviamo alcune contaminazioni hard-rockeggianti che, ad essere sinceri, non mi hanno entusiasmato più di tanto. Certo, rimangono “fedeli alla linea” pezzi come le veloci e ritmate “Lightning” ed “Holy call”, il rovente trittico iniziale “Madness is rising”/”Getaway”/”The final judgement” (quest’ultima cantata in maniera eccelsa da Alessio Calandriello dei Lucid Dream), “Again you” con la grande Giorgia Gueglio (Mastercastle) al microfono (forse il brano migliore dell’album!), che sono piacevoli da ascoltare e regalano energia e voglia di sbattere il capoccione in quantità. Accanto a queste, però, ci sono altre songs più blande che non hanno molto a che vedere con il power metal, come “Strong as your love” e la bonjoviana “Dry gin” che, ad essere sincero, hanno presto corso il rischio di annoiarmi. Capitoli a parte per la dolce ballad “Faraway” che vede un interessante duetto voce maschile/femminile (presentata a fine album anche in zuccherosa versione acustica), nonché per la particolarissima “One man, one look, one desire”, dalle atmosfere oscure, quasi gothicheggianti, ed uno splendido assolo di basso del grande Steve; una canzone che, nonostante sia alquanto avulsa dal contesto, non dispiace per nulla! Due parole infine vanno spese sul singer Jack Spider, non un’ugola d’oro o acuta, che canta spesso su registri bassi e caldi, sporcando alcune volte la sua voce come un esperto rocker; il suo stile e la sua timbrica può piacere sicuramente, anche se personalmente non mi ha entusiasmato. Tirando le somme questo “M.W.N.D.” è un buon come-back a distanza di così tanto tempo, un album che però non funziona totalmente e che perde il confronto con il suo predecessore, anche a ben 10 anni di distanza.
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Avevo lasciato i cileni Six Magics circa 10 anni orsono, quando pubblicarono due discreti albums per la Underground Symphony intitolati rispettivamente “Dead kings of the unholy valley” (2001) e “The secrets of an island” (2003), con delle copertine improponibili (il secondo soprattutto!); era l’epoca in cui il power impazzava un po’ ovunque ed anche questi ragazzi cileni ebbero la possibilità di farsi sentire in giro per il mondo. Poi, almeno per quanto mi concerne, oblio totale! Grazie alla Coroner Records ho scoperto che questa band è ancora viva ed addirittura è arrivata al quarto album con questo “Falling angels”, dopo il terzo a me sconosciuto intitolato “Behind the sorrow” del 2010. Non ho termini di paragone con quest’ultimo album ma, rispetto alla produzione più vecchia, innanzitutto dobbiamo rimarcare la sostituzione del singer Sergio Dominguez (forse il punto debole della band di allora) con la prosperosa e capace Elizabeth Vasquez, nonché l’arrivo del chitarrista Pablo Sepulveda, accanto al talentuoso Erick Avila, unico assieme al batterista Pablo Stagnaro presente sin dal debut album. Venendo a questo “Falling angels”, composto da 13 pezzi per poco più di un’ora di musica, c’è da dire che il sound è molto meno vicino al power-sinfonico degli esordi e molto più metal-oriented; il tutto incentrato sulle trame delle due chitarre di Erick Avila e Pablo Sepulveda, autori di ottimi assoli in tutti i brani. Per quanto riguarda le durate, tutti quanti si assestano tra i 4 e i 5 minuti, anche se, secondo me, in alcuni casi sarebbe stato meglio alleggerire di qualche orpello futile, puntando ad una resa più diretta del pezzo. Non ho trovato fillers particolari o evidenti cadute qualitative in tutto l’album ed hanno maggiormente incontrato i miei favori songs come l’orecchiabile title-track “Falling angels” (molto piacevoli gli assoli di chitarra!); o la ritmata “Dreamer (B:O:M)”, aperta da belle parti di basso dell’ottimo Mauricio Nader (notevole anche in “Suicide”); ma anche le powereggianti “Sick & tired” e “How to live”, la tellurica “Start another war” (con un’aggressiva voce maschile di cui non ho informazioni), la dolce conclusiva “I know” e soprattutto la strumentale “Binsfeld”, in cui tutti i musicisti danno sfoggio della loro tecnica. “Falling angels” è un disco abbastanza piacevole, di sicuro non passerà alla storia del metal, ma può incontrare i favori dei fans della band ed, in genere, dei defenders più incalliti; per gli altri direi che è consigliabile un ascolto prima di ogni eventuale decisione.
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Ho diverse volte accantonato questa recensione perché mi sembrava impossibile che, dopo un singolo così valido come “Ignition”, la super-band Unisonic potesse aver sfornato un album omonimo non eccelso; eppure, ad ogni ascolto, la sensazione era sempre la stessa: “Unisonic” è un dischetto accettabile, con qualche spunto interessante, ma nulla di eccezionale. Uscito per Edel/Ear Music qualche mese addietro in versioni differenti (quella che ho acquistato io, in elegante digibook, ha una bonus-track esclusiva, intitolata “Over the rainbow” che non ha nulla a che vedere con il brano storico cantato da Judy Garland nel lontano 1939), questo album era attesissimo dai fans del power metal per la presenza finalmente di nuovo assieme di due mostri sacri come Kai Hansen e Michael Kiske (10 minuti di vergogna per chi non li conosce!) ed io ero fra questi, soprattutto, come detto, dopo aver gustato il singolo “Ignition”, in cui c’era quella bomba di brano autocelebrativo intitolato “Unisonic”. E proprio con questo pezzo che si apre furbamente l’album, purtroppo però allo stesso livello saranno ben pochi i pezzi rimasti! Diciamolo chiaramente, se uno parte all’ascolto di “Unisonic” sperando di avere una nuova gemma nella storia del power metal made in Germany, ne avrà una cocente delusione! Se, al contrario, non si parte con aspettative simili, ma si apre la mente e ci si limita a giudicare le qualità dei vari musicisti e, soprattutto di quel grande cantante che ancora oggi è Michael Kiske, ecco che forse qualcosa di significativo lo si potrà trovare, un po’ come è capitato per le recenti produzioni targate Edguy. Ed il paragone, secondo me, ci può stare alla grande, dato che sono parecchi gli influssi hard-rockeggianti che gli Unisonic mettono nella loro musica; oserei dire anzi che il loro sound è molto più hard rock-oriented, che vicino ai lidi dell’happy metal che hanno fatto la fortuna di Helloween e Gamma Ray. Oltre alla già citata “Unisonic”, sono pochi gli episodi accostabili al power melodico tedesco (mi vengono in mente “Never too late”, un po’ “Never change me”, l’attacco e poco altro di “We rise”, oltre in un certo qual senso anche “Souls alive” e “My sanctuary”, già sentite sul singolo predetto); al contrario sono preponderanti i brani più blandi e meditati che, come detto, spostano la proposta sonora della band verso l’hard rock, soprattutto a livello ritmico. Detta sinceramente, da old defender quale il sottoscritto, mi aspettavo molto di più dagli Unisonic e l’amarezza è parecchia; obiettivamente, bisogna riconoscere che “Unisonic” è comunque un buon disco e, lo ripeto, se non avete particolari pretese, alla fine è anche alquanto piacevole da ascoltare. Ma ora, scusatemi, sono in astinenza da happy metal e vado a cercare qualcosa dei Freedom Call!
Voto: 3/5
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Avevo parlato proprio poco tempo fa del fatto che alcune volte ad un recensore spetta l’ingrato compito di dover affrontare dischi e generi che normalmente eviterebbe ben volentieri, non rientrando nei canoni di gusto che ognuno di noi possiede.... e, guarda caso, mi capita nuovamente di dover recensire un lavoro che, nella normalità dei casi, avrei di certo evitato; ma eccoci qua e cerchiamo di giudicare “asetticamente” senza badare ai gusti personali. Gli Hate Tyler, band alessandrina nata grazie all’iniziativa del chitarrista Marco Pastorino (anche con Bejelit, Secret Sphere e The Ritual) e del bassista Luca G. Negro (anche lui nei The Ritual), con questo “The Great Architect” dalla piacevole copertina arrivano al proprio debutto discografico per l’etichetta This Is Core Music (un nome, un programma!). Il genere proposto dalla band italiana è un metalcore edulcorato da tinte prog, con ampio uso di clean vocals che, almeno per il sottoscritto, non guastano assolutamente! “The great architect” (riferimenti alla massoneria? Non saprei...) è composto da 9 pezzi, per meno di 40 minuti di musica alquanto arrabbiata e sempre ruvida e violenta, come il genere particolare impone. Fa un po’ eccezione la più melodica (oserei quasi dire “romantica”!) “Anything Else”, pezzo alquanto avulso dal contesto e molto più classicamente heavy degli altri che, fatalità, è la mia preferita dell’album. A livello tecnico, la preparazione della band è fuori discussione, così come il gusto per gli arrangiamenti e gli assoli delle chitarre del già citato Marco Pastorino e di Federico Maraucci; la registrazione, invece, per i miei canoni, non rende giustizia alla batteria, dato che trovo il rullante alquanto “freddo” e poco corposo (qualcuno utilizzerebbe il termine “stile fustino del Dash”...). Se amate i Pantera o, in genere, la musica metalcore più genuina (non quella costruita a tavolino, come spesso capita di sentire da oltre-oceano), direi che questi Hate Tyler possono fare al caso vostro, soprattutto se non siete fanatici del growling/screaming a tutti i costi.
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