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Opinione scritta da Ninni Cangiano

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    26 Agosto, 2012
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Puntuali come un orologio svizzero (o forse dovrei dire “tedesco”?), che li ha portati a sfornare un disco all’anno (poco importa se sia un live, un best of oppure, come in questo caso, un nuovo album, basta essere sempre sulla cresta dell’onda!), tornano i Grave Digger con questo “Clash of the Gods”, concept sull’Odissea di Omero e sul suo protagonista Ulisse. E’ la prima volta che Chris Boltendahl & C. si confrontano con tematiche “mediterranee”, dato che finora ci avevano sempre abituati a temi su mitologie nordiche o storia nord-europea. Dopo l’antipasto del singolo “Home at last”, la Napalm Records pubblica questo album dotato, come consuetudine, di una copertina semplicemente spettacolare, immagino (ma non ne ho conferma) opera della grande Gyula Havancsak (autrice di tutte le più belle copertine dei recenti lavori dei Grave Digger, ultimo singolo compreso, ma anche impegnata con tantissime altre metal-bands come Stratovarius e Tyr). Ma veniamo all’album, composto da 11 pezzi (9 + 2 intro come “Charon” e “With the wind”) tutti molto epici nel loro incedere cadenzato; oramai è bene metterselo in testa, i Grave Digger hanno rallentato alquanto il proprio sound ed accanto a pezzi frizzanti e discretamente veloci, troviamo sempre più brani lenti e pesanti. Sia chiaro, però, che molto spesso brani così lenti non sono per nulla noiosi, mantenendo un’epicità ed un pathos non indifferenti, oltre che una ruvidezza ed aggressività esaltate alla grande dal vocione roco e cavernoso del mitico Chris Boltendahl; state dunque tranquilli che, pur rallentando la velocità della loro musica, i Grave Digger non sono diventati sdolcinati (ma qualche rara splendida eccezione ogni tanto se la concedono anche loro), né tanto meno troppo tetri o pesanti (per non dire “noiosi”). “Clash of the Gods”, quindi, si potrebbe tranquillamente dividere in due parti, da un lato brani più veloci e frizzanti in cui il buon Stefan Arnold pesta ancora di brutto sulla doppia-cassa (la maggior parte, fortunatamente per i miei gusti!), dall’altro una minoranza di pezzi più lenti e cadenzati in cui la band dà sfoggio del suo carattere più oscuro ed epico. Fanno parte della prima serie pezzi come la splendida “God of terror” (velocissima cavalcata power), la seguente “Helldog”, “Death angel and the grave digger” (il cui titolo sembrerebbe un manifesto di un concerto metal con, appunto, Grave Digger e Death Angel), “Walls of sorrow” (con un coro incredibile, degno del grande passato della band tedesca che la porta ad essere la canzone migliore di tutte) e l’energica “Warriors revenge”. Dall’altro lato, i pezzi più lenti e pesanti come la title-track “Clash of the Gods” (che, per essere sincero, non mi ha entusiasmato e mi è sembrato il pezzo peggiore di tutti), “Medusa” (non proprio lentissima, ma decisamente epica), “Call of the sirens” (la più melodica del disco) e la conclusiva “Home at last” (di cui abbiamo parlato nella recensione del singolo). Tirando le somme, questo nuovo album dei Grave Digger non dispiace per niente, è sicuramente un gradino sotto ai capolavori storici della lunga carriera della band tedesca (da “The reaper” fino ad “Excalibur”), ma anche meglio di qualche più recente mezzo passo falso; acquisto obbligatorio per i fans della band, ma anche caldamente suggerito a tutti coloro che ascoltano power metal di qualità.

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    26 Agosto, 2012
Ultimo aggiornamento: 01 Settembre, 2012
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Come un amante tradito, quando Tarja Turunen abbandonò i Nightwish per intraprendere la carriera solista ne rimasi talmente deluso ed addolorato che mi rifiutai a priori di seguire la sua carriera e di ascoltare la sua musica! Il tempo, si sa, cura tutte le ferite ed oggi, a distanza di anni oramai, mi sono riavvicinato al lavoro di questa grande soprano e quale migliore occasione di un doppio live? “Act 1” rappresenta la registrazione dei due concerti che la splendida cantante scandinava tenne a Rosario (Argentina) presso il Teatro El Cìrculo, nel marzo del 2012; l’opera discografica viene presentata in parecchie versioni: doppio-dvd, blu-ray e doppio-cd, tutte con copertine differenti tra loro. In questa recensione parleremo appunto del doppio-cd, dato che abbiamo avuto a disposizione solo questo. Non avendo mai ascoltato prima la musica di Tarja, devo dire che l’ho trovata molto “teatrale” e “solenne”, nel senso che sono rarissime le accelerazioni in doppia-cassa e le ritmiche veloci in genere a cui vengono preferiti tempi molto cadenzati, scanditi alla grande da maestosi arrangiamenti di tastiere; anche le chitarre, pur essendo sempre presenti ottimamente, lasciano lo scettro di strumento protagonista alle tastiere. Ecco, quindi, che scorrono una dopo l’altra ottime canzoni come “Anteroom of death”, “I walk alone”, “Little lies” (la più ritmata e frizzante e, pertanto, tra le mie preferite), “Into the sun”, “Never enough”, “Lost northern star” (detesto il rullante a questa maniera!), “Ciaran’s well” (uno dei rari pezzi “aggressivi”) ed “Until my last breath”. Assieme a questi brani, ci sono anche diverse cover dell’era Nightwish, come la splendida “Nemo”, nonché “Over the hills and far away” (originariamente scritta da Gary Moore) e “Phantom of the Opera” (creazione di Andrew Lloyd Webber). Molto piacevole anche il mix tra “Where were you last night” (riproposta dai Nightwish, ma originariamente di tale Ankie Bagger), “Heaven is a place on earth” (di Belinda Carlisle) e “Livin’ on a prayer” (Bon Jovi) che mi ha magicamente riportato indietro di 30 anni, all’epoca della mia adolescenza, soprattutto per il suono delle tastiere molto eighties. Obiettivamente “Act 1” è un ottimo assaggio per chi ancora non ha avuto modo di gustare la carriera solista della grande e bella singer Tarja Turunen; c’è da dire che la sua musica è ideale per i teatri, più che per "rozzi metallari" (tra cui il sottoscritto!) abituati a distorsioni in quantità e ritmiche iper-veloci... se, invece, amate la melodia all’ennesima potenza, questa musica vi manderà in sollucchero!

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    26 Agosto, 2012
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Copertina strepitosa! E se la musica fosse allo stesso livello qualitativo sarebbe un Must.... purtroppo così non è e merita solo una sufficienza risicata...

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    20 Agosto, 2012
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Francesco Marras è il chitarrista dei power metallers sardi Screaming Shadows e con questo “Black Sheep” taglia il traguardo del primo disco solista, pur se autoprodotto. Si tratta di un disco interamente strumentale, nel quale il chitarrista mette in mostra tutto il suo talento, la sua capacità tecnica ed un non comune gusto per la composizione dei brani. Bisogna, infatti, precisare che, contrariamente a quanto di solito ci si aspetta da dischi di shredders vari o, comunque, da prodotti interamente strumentali, il nostro buon Francesco non si limita ad un mero esercizio tecnico per porre in risalto le sue capacità sullo strumento, ma compone musica molto gradevole, seppur non cantata, tenendo sempre d’occhio la struttura del singolo brano ed evitando così il rischio di annoiare l’ascoltatore con il proseguire della fruizione dell’album. Di influenze il nostro Marras ne mette in evidenza parecchie, non soltanto in campo metal ed hard rock in genere, ma infarcendo la sua musica con digressioni nel blues, nel jazz fino a rasentare persino il country (ascoltare “Elvis” per credere) ed il folk. A dargli una mano il bravissimo batterista Raphael Saini (Vision of Atlantis) che ha suonato in tutti i pezzi tranne che nella title-track, nella quale c’è un mostro sacro come John Macaluso (Malmsteen); peccato solo che la registrazione non renda pienamente giustizia a questo meraviglioso strumento! Presente anche qualche ospite come il chitarrista Patrick Abbate (che ha suonato un assolo su “Running round in circles”), il tastierista Alessandro Del Vecchio (su “Here to stay”), nonché il chitarrista Marco Garrucciu (suo un solo su “We are one”). Da quello che mi risulta Marras ha suonato anche il basso, pur se bisogna comprendere come questo strumento venga relegato molto in secondo piano, limitandolo quasi sempre a mero accompagnamento (da segnalare comunque un assolo su “Here to stay”!). Brani da ascoltare piacevolmente ce ne sono diversi, dalla frizzante title-track “Black sheep”, alla rocciosa “The joker”, fino alla prog-oriented “Sardinia” (immagino un inno alla propria terra), passando anche per “Too hard to say goodbye” (anche qui si sente qualche bel passaggio di basso) e la veloce “Runnin’ round in circles”. Francesco Marras è alla ricerca di un contratto ed anche di una band e chissà che questo “Black sheep”, adatto non solo agli amanti dei dischi strumentali, ma anche ai metal-heads meno conservatori, possa servirgli come ottimo biglietto da visita. Da parte nostra non possiamo che suggerirgli di credere fermamente nella propria musica ed un grosso in bocca al lupo!

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    13 Agosto, 2012
Ultimo aggiornamento: 02 Dicembre, 2013
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I Majesty of Revival sono una band dell’Ucraina, fondata dal chitarrista Dmitriy Pavlovskiy nel 2009, con all’attivo un E.P. risalente al 2011 intitolato “Meaning of life” che non ho avuto modo di ascoltare ma che ha raccolto in giro lusinghieri responsi. Forti di tali responsi, trovato un contratto con la Total Metal Records (che non ha nulla a che vedere con il barese Total Metal Festival, essendo una sotto-etichetta della russa Metal Scrap Records), ecco che arrivano a pubblicare questo interessante album intitolato “Through reality” dotato, tra l’altro, anche di una piacevole copertina. Il sound dei Majesty of Revival è un symphonic power fortemente debitore ai nostri Rhapsody ed ai Symphony X, con la chitarra del leader Pavlovskiy quale strumento principale e protagonista assoluto. Il buon Dmitriy, infatti, dimostra di essere un chitarrista di tutto rispetto, dalla tecnica sopraffina e velocità incredibile (quanti danni ha fatto il buon vecchio Malmsteen!!). Attorno a lui si muovono altri musicisti molto validi, tra cui bisogna segnalare il singer Konstantin Naumenko, dotato di una voce pulita ed acuta, come tradizione di questo genere musicale impone, forse non proprio potente e lirica (per capirci, Alessandro Conti o Fabio Lione sono su un altro pianeta!), ma comunque accettabile da ascoltare. La registrazione dell’album “pompa” parecchio ed esalta i suoni più caldi, anche se ritengo sia un po’ troppo sacrificata in sottofondo la batteria del buon Vasilij Irzhak al quale si poteva dare obiettivamente maggiore risalto e spazio. “Through reality” è composto da 9 brani, tutti molto orecchiabili e ritmati, per la gioia dei fans di questo specifico settore della musica metal. Tra le mie preferite, segnalo la lunga suite finale “Epilogus (Part I & II)”, dal flavour epico; la strumentale “Masked illusion” in cui i quattro musicisti della band danno sfoggio della loro perizia tecnica; l’indovinata opener “Meaning of life”, nonché le ritmatissimi e trascinanti “The moonlight”, forse il pezzo migliore di tutto l’album, e “The code”. Tirando le somme, ci troviamo davanti ad un buon album e sono sicuro che “Through reality” dei Majesty of Revival saprà farsi apprezzare da tutti i fans del power sinfonico. Il disco è uscito in Ucraina a maggio, mentre in Europa il 6 agosto, ignoro purtroppo se abbia distribuzione in Italia. Tenete d’occhio questi ucraini!

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    10 Agosto, 2012
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Lo ammetto: i Testament sono la mia thrash band preferita in assoluto da sempre, sin dai tempi d’oro di “The legacy” e “The new order” (ero un ragazzetto allora!) seguo la band del mitico Chuck Billy ed ogni volta attendo con trepidazione l’uscita di un nuovo lavoro. Questa volta, a distanza di 4 anni dal meraviglioso “The formation of damnation”, l’album si intitola “Dark roots of Earth” e presenta una copertina a dir poco strepitosa, opera di Eliran Kantor. Questo è anche l’album che segna il ritorno nella band alla batteria di quel mostro di musicista che risponde al nome di Gene Hoglan (subentrato ad un altro maestro come Paul Bostaph). Erano i tempi di “Demonic”, infatti, quando il corpulento batterista ex-Dark Angel suonava in questa band ma, rispetto ad allora, il sound dei Testament è decisamente più classicamente thrash, ascoltarlo adesso ad esempio nella tellurica “True american hate” è da goduria per ogni batterista! Nel settore sono poche le bands il cui nome è sinonimo di garanzia assoluta e costante e sicuramente i Testament sono in questa ristretta elite; anche “Dark roots of Earth”, quindi, non delude assolutamente, nonostante una certa lunghezza di fondo di tutti i brani, per la quasi totalità ben oltre i 5 minuti, il che a mio parere non aiuta molto, vista la particolare ruvidità del sound. Ci sono, comunque, sempre due grandissimi chitarristi come Eric Peterson ed Alex Skolnick a rendere immediatamente riconoscibile la musica dei Testament, oltre che ad impreziosirla con parti di chitarra semplicemente deliziose che, in alcuni momenti, hanno chiari richiami al loro stile dei primissimi album. Anche pezzi come “Cold embrace” e “Throne of thornes”, lunghi oltre i 7 minuti, scorrono via che è un piacere e si ascoltano gradevolmente, soprattutto grazie alla maestria di questi due chitarristi! C’è poi il vocione del grande Chuck Billy che, per l’occasione, oltre ad essere aggressivo come sempre, riesce anche a modulare la sua voce verso tonalità più calde e pacate (ascoltare la già citata “Cold embrace”, ad esempio). Non mi addentro nell’analisi di ogni singolo pezzo per non tediare, ma non posso non citare un pezzo come l’opener “Rise up” o come la successiva “Native blood” a titolo di esempio per le giovani leve, al fine che possano comprendere cosa significa “thrash metal”. Molto bella anche la title-track “Dark roots of Earth”, nonché la violenta conclusiva “Last stand for independance”; è, comunque, tutto l’album a convincere per robustezza e compattezza, un vero monolite thrash metal da gustare dalla prima all’ultima nota. “Dark roots of Earth” forse non sarà il disco thrash dell’anno (credo che gli album di Kreator ed Overkill siano un filino migliori), ma sicuramente è thrash con la “T” maiuscola come da sempre i Testament sanno fare. Prevista anche una “De-luxe edition” con 4 bonus tracks (tra cui la cover di “Powerslave” degli Iron Maiden) ed un bonus-dvd.

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    06 Agosto, 2012
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Thrashhhhhh!!! Di quello tirato, violento e furioso, come una legnata sulle gengive, sporco,cattivo ed estremamente arrabbiato come in tante, tantissime pluri-osannate storiche bands americane non sanno più comporre da tanto, troppo tempo! L’hanno realizzato questi giovanissimi torinesi Ultra-Violence (un nome che è tutto un programma!) con l’E.P. “Wildcrash”. C’è tutto quello che di meglio la Bay-Area seppe dare al thrash nella magica seconda metà degli anni ‘80/primi anni ’90: assoli al fulmicotone dell’ottimo Andrea Vacchiotti, riff assassini, ritmiche iper-veloci imposte dal tellurico batterista Simone Verre e la voce aggressiva ed urlata a pieni polmoni del buon Loris Castiglia (anche chitarrista ritmico). Sono 5 i pezzi di questo lavoro, 5 assalti sonori incandescenti, 5 roventi esempi di come, anche nel 2012, si possa comporre e suonare dell’ottimo thrash, di quello con la T maiuscola! Dall’opener “Wildcrash”, fino alla conclusiva “Herpes” non c’è spazio per romanticherie zuccherose, solo e soltanto fottutissmo thrash metal di quello che vi farà impazzire nell’headbanging fino a farvi spaccare le vertebre cervicali e che dal vivo scatena lo stage diving e mette a dura prova la pazienza della security. Tutta la band, nonostante la giovanissima età, dimostra una capacità a livello tecnico non indifferente (anche il bassista Roberto “Robba” Dimasi dà il suo contributo egregiamente!) e, seppure è evidente una certa mancanza d’originalità, il tutto viene messo in secondo piano dalla qualità delle singole composizioni musicali che, lo ripeto, vi faranno saltare in piedi pieni d’energia. Peccato per la copertina davvero brutta, ma fortunatamente la musica è di tutt’altro livello qualitativo! “Wildcrash” è un disco imperdibile per ogni fan del thrash metal ed attendo gli Ultra-Violence al primo full-lenght....

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    06 Agosto, 2012
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In attesa dell’uscita del nuovo album “Clash of the Gods” (che dovrebbe essere un concept basato sull’Odissea di Omero), prevista per fine agosto, i tedeschi Grave Digger pubblicano un interessante E.P. di 6 pezzi intitolato “Home at last” (dotato, tra l’altro, di una splendida copertina!!), in cui la sola title-track andrà a far parte dell’album. Accanto a questo brano, troviamo 3 registrazioni dal Wacken Festival del 2010 rispettivamente di “Ballad of a hangman” e le intramontabili “Excalibur” ed “Heavy metal breakdown”, per le quali ritengo inutile aggiungere altre parole. Ci sono anche due pezzi inediti ed esclusivi, intitolati “Rage of the savage beast” e “Metal will never die”. Ma andiamo in ordine e partiamo dalla title-track in apertura di cd; si tratta di una power-song alquanto cadenzata, con le classiche atmosfere a cui ci hanno abituato i Grave Digger; devo dire che il coretto mi ha ricordato un po’ “Over the hills and far away” nella versione portata al successo dai Nightwish, ma è solo una certa somiglianza di note musicali. Il secondo pezzo si mantiene sempre sullo stesso ritmo cadenzato, scandito alla grande dalla voce roca del leader Chris Boltendahl; fortunatamente per me dura solo 4 minuti, altrimenti avrei faticato alquanto a sopportare certi ritmi poco veloci. L’ultimo inedito “Metal will never die” ha un testo degno dei Manowar più oltranzisti e musicalmente non dispiace lasciandosi ascoltare piacevolmente; il coretto, poi, è alquanto orecchiabile, quindi non meravigliatevi se sotto la doccia vi troverete a canticchiare “All for one and all for metal, metal will never die”...
Un discreto antipasto, insomma, questo “Home at last”; mi auguro di trovare un po’ più di ritmo e velocità nell’album, perché i Grave Digger li preferisco quando sono più frizzanti... un po’ come nei tre brani live che chiudono questo mini-cd dal prezzo giustamente economico.

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    05 Agosto, 2012
Ultimo aggiornamento: 05 Agosto, 2012
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Una bella copertina, si sa, è un ottimo biglietto da visita per chi non conosce il prodotto che potrebbe trovarsi tra le mani in uno scaffale di un negozio qualsiasi e, come sempre, una copertina realizzata dal maestro Felipe Machado Franco è molto più che bella! Anche nel caso di “Fifth element” dei polacchi Pathfinder, la copertina è semplicemente spettacolare e può sicuramente attrarre quei metallari poco attenti alla scena symphonic-power europea che, probabilmente, ignorano l’esistenza di una validissima band la cui musica è ispirata a quanto hanno saputo fare i nostri Rhapsody nella loro carriera. A distanza di 2 anni esatti dal loro ottimo debut “Beyond the space, beyond the time”, il sottoscritto attendeva con ansia l’uscita di questo album, dopo aver gustato l’antipasto composto dal pezzo “Fifth element” per il quale tempo addietro era stato girato un video teaser; il cd in mio possesso si presenta, come il suo predecessore, in elegante digipack con un booklet estremamente curato, in modo da attirare ulteriormente l’occhio del potenziale acquirente. Se a questa confezione con i contro-fiocchi, aggiungete un power sinfonico di gran gusto, tecnicamente ineccepibile ed estremamente al di sopra della media, capirete che questo album è praticamente un “must” per ogni fan dello specifico settore, ma anche per tutti coloro che ritengano di ascoltare buona musica metal. Forse non sarà un capolavoro per originalità, ma vi posso assicurare che, di fronte a musica di tale qualità, questo piccolo difetto diventa pressoché insignificante! A voler essere pignoli, se i Pathfinder avessero un cantante del livello di Fabio Lione o Alessandro Conti, sarebbero una band semplicemente stratosferica, in grado di reggere assolutamente il paragone con i maestri Rhapsody (in entrambe le attuali versioni); di fatto Simon Kostro è un ottimo singer con una voce pulita ed acuta, ma gli manca quel “quid pluris” che lo porterebbe ad un livello eccezionale. Ciò nonostante, sia chiaro che la riuscita della musica della band non ne risente assolutamente, presentandosi estremamente godibile e trascinante all’ascolto; l’ingresso del nuovo batterista Kacper “Drum kid” Stachowiak (semplicemente mostruoso dietro le pelli!), inoltre, impone un ritmo indiavolato e velocissimo alla musica della band. Il lavoro compositivo del bassista Arkadiusz E. Ruth (leader della band) e del chitarrista Simon Kostro è notevole e tutti i pezzi si presentano come un unico monolito sonoro che conquista e coinvolge pienamente, nonostante una certa lunghezza di fondo dei singoli brani che non aiuterebbe, vista la complessità del sound. Mi troverei in estrema difficoltà se dovessi scegliere qualcuno dei brani per indicarvi quali raccolgono le mie preferenze, proprio perché è l’intero album che va assaporato dall’inizio alla fine nella propria interezza, bonus track dal lungo titolo compresa! Segnate senza indugio “Fifth element” dei Pathfinder nella vostra lista della spesa perché perdere un cd di tale qualità sarebbe davvero un peccato!

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    05 Agosto, 2012
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Devo ammettere una vecchia passione verso gli Skylark, risalente all’epoca di “Dragon’s secret” e dei tre episodi delle “Divine gates”; da allora sono passati oltre 10 anni ed ultimamente la band capitanata dal tastierista Eddy Antonini non ha propriamente prodotto dischi eccelsi, direi anzi che le ultime produzioni di casa Skylark sono state alquanto deludenti e sicuramente non all’altezza del passato della band. Quando, quindi, ho scoperto dell’uscita di questo “Twilights of sand” su Underground Symphony (a dire il vero, passata alquanto in sordina) ho deciso ugualmente l’acquisto a scatola chiusa, anche se ero consapevole di rischiare un po’ i miei soldi. Già la copertina, inoltre, non incoraggiava... sono parecchio lontani i tempi in cui era il maestro Luis Royo a disegnarle e questo disegno è tra i peggiori che mi siano capitati ultimamente. Ma veniamo alla musica. “Twilights of sand” è composto da 12 brani + le consuete inutili intro ed outro (“The tears of Jupiter” ed “Eyes”) ed una “ghost song”, la quindicesima, di cui non c’è alcuna citazione sul booklet ma che riporta alla mente vecchie produzioni della band lombarda (forse per questo è la mia preferita!). Archiviata la parentesi con Kiara quale singer, questa volta ci troviamo la mora Ashley Watson, dotata di una voce alquanto ordinaria, ma comunque alla fine dei conti non così male; assieme a lei, girano diverse altre voci femminili che si spartiscono diverse parti qua e là nell’album e qualche voce maschile, tra cui il buon vecchio Fabio Dozzo (cantante degli Skylark del periodo d’oro) e niente meno che David De Feis dei Virgin Steele. L’album si lascia anche ascoltare in maniera discretamente gradevole, ma ci sono diverse cose che non mi hanno convinto: per iniziare la scarsa presenza della chitarra di Fabrizio “Pota” Romani; sono troppo poche le sue parti, troppo pochi i riff e gli assoli ed anche quando è presente, è troppo “leggero” e poco protagonista. Spesso anche le parti di tastiere del leader Eddy Antonini non convincono, essendo troppo simili ad un organetto e decisamente poco (se non per nulla) sinfoniche e maestose come in passato. La registrazione della batteria spesso è troppo fredda e “sintetica”, tanto da non mettere in buona luce l’ottimo Federico “SB” Ria. Al contrario, vengono messe tanto in primo piano le parti vocali, forse fin troppo a discapito delle parti strumentali che, secondo me, invece, meriterebbero maggior risalto. Ecco, forse, quello che manca maggiormente a questo disco è una certa cattiveria, c’è troppa melodia zuccherosa e poca distorsione; direi insomma troppo poco “metal”, tanto che sembrerebbe un prodotto studiato per vendere in paesi come il Giappone, più che per convincere. E questo è un peccato, perché pezzi validi ce ne sarebbero, potrei citarvi ad esempio “The wings of the typhoon”, “Road to heaven”, “Follow your dreams” e la simpatica cover di “Aitakatta” (ignoravo l’esistenza dell’originale, ma mi sembrerebbe un’ottima sigla per un cartone animato!). “Twilights of sand” è dunque un disco non eccelso, un qualcosa che poteva essere molto migliore ma che delude soprattutto a livello di produzione; indubbiamente molto lontano dagli ottimi dischi degli esordi degli Skylark. Nell’edizione in mio possesso è anche previsto un bonus-cd con tanti altri brani, alcuni dei quali anche abbastanza piacevoli, nei quali appunto c’è da registrare la presenza degli ospiti maschili precedentemente citati. Mi dispiace tanto per gli Skylark, ma anche questa volta non sono stati all’altezza del loro passato che, oramai, pare diventato estremamente ingombrante, visto che non mi pare siano più in grado di reggerne l’impietoso confronto.

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